Il 5 febbraio è iniziato a Torino Sud un presidio di agricoltori arrivati da tutto il Piemonte, in particolare dal torinese e dal cuneese, che durerà cinque giorni. Già dal primo giorno sono più di quattrocento i trattori su un campo agricolo di proprietà privata adiacente alla tangenziale. Siamo nei pressi del Centro Agro Alimentare Torino. La partecipazione al presidio – organizzato in maniera autonoma dai produttori – è occasione di protesta ma anche di confronto e solidarietà. Ascoltiamo alcune delle loro voci ed emergono posizioni complesse. Ritornano alcune parole d’ordine di cui si è potuto leggere, come l’opposizione alle farine di insetti e alla PAC, la politica agricola dell’Unione europea, ma si parla anche di giusto prezzo, inquinamento del territorio e mancanza di rappresentazione. Quanto la diversità che contengono queste mobilitazioni avrà lo spazio di essere ascoltata rimane ancora da vedere.
Lunedì 5 febbraio è una giornata di sole, che si riflette prepotente sui trattori parcheggiati lungo tutto il campo, ben visibili dalla tangenziale da cui arrivano continuamente clacsonate di solidarietà, in particolare dai camionisti in viaggio. All’ingresso del presidio due grandi tende, un pranzo condiviso e diversi giovani che si occupano dell’accoglienza. Le persone che intercettiamo ci restituiscono una fotografia che ben mostra alcune caratteristiche dell’agricoltura piemontese. Ci sono giovani sui trent’anni che ci raccontano di essere cresciuti in agricoltura, nelle aziende di famiglia messe in piedi dai nonni. Sono 50 mila le aziende agricole in Piemonte, in diminuzione negli ultimi decenni. Le difficoltà nel ricambio generazionale, comuni a molte regioni italiane, sono ben visibili: solo il 13,4% sul totale dei titolari delle aziende piemontesi ha meno di quarant’anni (IRES Piemonte 2021). Quasi tutti – tra gli intervistati al presidio – hanno aziende abbastanza grandi (di ortofrutta, cerealicoltura o allevamento) con terreni di proprietà ma anche qualcosa in affitto. Lavorano, spesso in pochi, su grandi aree, e quasi sempre in famiglia. In Piemonte, la forza lavoro in agricoltura è costituita in prevalenza da manodopera familiare (77% sul totale della manodopera aziendale – l’eccezione più importante a questa tendenza è costituita dal ricorso agli stagionali nel comparto della frutta) (Istat 2013). La produzione è molto meccanizzata e chi possiede una flotta di trattori più importante offre servizi da contoterzista.
“NO SUSSIDI MA GIUSTO PREZZO”
È insieme a Davide, agricoltore trentaseienne del vercellese, che entriamo nel merito dei motivi della protesta. Per lui, come per quasi tutti gli intervistati, il punto centrale è quello del giusto prezzo: «La terra dovrebbe permetterci di ottenere qualche sorta di reddito, coltivando. Noi un grano di farina panificabile oggi lo vendiamo a 22 euro al quintale. Il consumatore finale paga il pane dai 3,5 ai 6 euro al chilo. Viene riconosciuto poco al primo anello e il consumatore finale paga di più».
Il problema del prezzo dei prodotti agricoli (e delle sue variazioni lungo la filiera agroalimentare) viene sollevato da molti anni, dagli agricoltori ma anche dalle associazioni di consumatori e dagli studiosi del settore. È un tema che rientra in questi giorni a gamba tesa nel dibattito pubblico e che, ci tiene a sottolineare Davide, è al centro delle proteste: «Non vogliamo sussidi, non vogliamo una compensazione legata al fatto che produciamo sotto i costi di produzione». Su questo punto, in Francia, anche il sindacato contadino Conféderation Paysanne si è unito alla lotta dei grandi produttori: chiedono a gran voce un riconoscimento economico dignitoso.
Secondo Antonio, allevatore di Brandizzo, i soldi, che pure circolano nelle loro attività economiche, sono vincolati a mutui, finanziamenti per ristrutturare le cascine, spese di certificazione, assicurazioni. Si configura una vera e propria ragnatela di vincoli che rende difficile per molti rispondere alle esortazioni a cambiare modalità produttive. Un posto particolare in questa lunga lista di spese lo hanno i soldi per acquistare e cambiare i macchinari che sono sempre più grandi («sei obbligato a comprare mezzi sempre più grandi perché devi produrre di più e manca la manodopera»), sempre più avanzati tecnologicamente ma, proprio per questo, «sempre più fragili», come sottolinea Franco, agricoltore del cuneese. In questo senso, il trattore è il simbolo che concentra molte contraddizioni: è strumento di lavoro quotidiano, mezzo di produzione capitalistico, fonte di preoccupazione per i debiti, possibile fonte di liquidità se è già stato ammortizzato, simbolo di ricatto e di dipendenza tecnologica, e ora simbolo identitario di riscatto. Queste riflessioni degli agricoltori ben si collegano con gli studi che chiamano sì a un cambio di paradigma agricolo in chiave più sostenibile, ma tenendo al centro della discussione la critica alle condizioni dell’agricoltura neoliberale. Secondo Rosin, Stock e Campbell (2012), è necessaria una rivoluzione agricola che si basi su un utilizzo sostenibile delle risorse, ma anche su una trasformazione del mercato alimentare globale.
“LA TRANSIZIONE ECOLOGICA FACCIAMOLA TUTTI”
«Forse è ora di smettere di togliere terreno all’agricoltura con i poli logistici o con il fotovoltaico messo a terra», commenta Davide, riportando vari esempi di consumo di suolo intorno alla sua azienda. Di questo parlano anche i dati che confermano che non si ferma il consumo di suolo nella regione Piemonte, con risultati ben lontani dagli obiettivi dell’Agenda 2030. Gli agricoltori si sentono poi additati come quelli che inquinano, mentre persiste, a loro avviso, il silenzio sull’inquinamento del territorio e delle falde acquifere da parte della grande industria. Se è vero che l’agricoltura industriale (e in particolare l’utilizzo di concimi e fitofarmaci) è tra le attività con contaminanti di origine antropica tra le più impattanti sul suolo piemontese, secondo dati Arpa lo sono anche le attività industriali, inceneritori e i siti contaminati. Al presidio, è criticata anche la politica agricola della Ue in quanto giudicata insufficiente nel facilitare una transizione da un modello produttivo convenzionale a uno agro-ecologico.
Anche la logistica globale dell’agroalimentare è additata come un importante fattore di inquinamento. Inoltre, emerge un senso di ingiustizia di fronte alla concorrenza sleale dei paesi in cui non si deve sottostare ai più rigidi vincoli ecologici europei e in cui la manodopera ha un prezzo più basso. Tuttavia, ritorna spesso anche l’ammissione di dipendere da alcune importazioni, una su tutte la farina di soia dal Sud America come razione proteica del mangime animale. Questo cortocircuito tra richieste protezionistiche e dipendenza dal mercato globale si esprime talvolta con colori nazionalistici, altre volte con la consapevolezza della complessità della situazione: ci dice Davide, per esempio, «noi siamo agricoltori italiani ma non ce l’abbiamo contro il cibo che è importato dall’estero, perché non possiamo essere autosufficienti con tutto il consumo di suolo che c’è stato in Italia». Il tema della concorrenza sleale dei paesi esteri è anche una presa di posizione contro i trattati di libero scambio. Un merito di questa protesta è dunque quello di «aver acceso i riflettori sulle opache trattative, in atto da lungo tempo, per la ratifica dell’accordo di libero scambio fra Unione Europea e Mercosur, determinandone una battuta d’arresto».
La sensazione di assistere a una protesta di portata storica per l’agricoltura italiana risuona nel presidio piemontese: il movimento è «impressionante», dice un’agricoltrice, non solo per le sue dimensioni, ma anche perché per la prima volta è completamente slegato dalle associazioni di categoria – come recita, tagliente, il comunicato distribuito al presidio di Torino, firmato: “Agricoltori Italiani – in collaborazione con l’assenteismo sindacale”. L’assenza delle organizzazioni di categoria sta lasciando spazio a forme autonome di coordinamento e discussione: dal passaparola si costituiscono i primi gruppi, che tengono i contatti tramite chat WhatsApp o Telegram. Al di là del simbolo del trattore e del tricolore, si può forse ipotizzare che il fervore della mobilitazione e le decisioni da prendere in termini di strategia potranno portare a delle evoluzioni nelle forme dell’organizzazione, come per esempio lo sviluppo di un comitato regionale piemontese.
Alla fine della settimana, con lo sciogliersi del presidio, dopo una manifestazione in centro a Torino e alcune riunioni tra delegati, il morale è ancora alto. Alcuni sono convinti che la mobilitazione ha le carte in tavola per proseguire, e che le rivendicazioni vadano precisandosi, nonostante le differenze di interessi e variegate situazioni territoriali. Sicuramente le voci del presidio hanno fatto emergere alcuni punti centrali che non coincidono sempre con quelli delle figure più mediatiche del movimento. Questo non significa negare che esistano istanze antiecologiste (non mancano discorsi negazionisti sul cambiamento climatico, salvo poi riconoscere i danni di quest’ultimo sulle colture), né rischi di derive o strumentalizzazione politica. Tuttavia, ci sembra proficuo il metodo dell’inchiesta portato avanti anche, per esempio, in alcune interviste agli allevatori del bresciano. Questo tipo di sguardo ha il potere di far emergere una ricchezza di posizioni dal coro di questi agricoltori, e gettare così luce sulla complessità delle conseguenze dell’austerity green e della crisi strutturale dell’agricoltura italiana. (maria vasile, sara marano)
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