Dal n.58 di Napoli Monitor
Ho cominciato a essere parte attiva della vita serale napoletana un paio d’anni fa, quando mi sono trasferita in pieno centro storico, sebbene fossi una fuorisede già da tre anni. Prima di allora avevo passato qualche serata inconsapevole “al Kest’è”, senza mai essere entrata nel Kest’è, o avevo camminato senza meta in zona Mezzocannone-San Domenico. Ero stata con conoscenti fuorisede beneventani e con conoscenti dei miei conoscenti, e sporadicamente con un amico napoletano. La maggior parte dei fine settimana comunque la trascorrevo a Benevento con gli amici di sempre, che ti conoscono perfettamente da sempre, nei due, massimo tre, locali di sempre, con le modalità di sempre: alle nove si esce, si va in birreria o in vineria, ci si siede a un tavolo, si beve, si chiacchiera, si paga e ci si alza per andare in una delle due “piazze” del centro (in una città piccola col centro completamente pedonalizzato anche un vicolo più largo della media può assurgere a piazza), dove si continua a stare con i propri amici, con gli amici degli amici, nel tipico clima di “noi ci sappiamo tutti quanti”. Ci si intrattiene con sconosciuti solo se almeno un elemento del gruppo non li considera tali o se il contesto – per esempio assistendo a un concerto o a una rissa – favorisce qualche scambio di battute. D’inverno le ore piccole sono off limits tranne per i più audaci, resistenti al freddo umido della zona.
Al mio trasloco in zona Nilo si è fisiologicamente accompagnato il desiderio di restare a Napoli anche nel fine settimana, approfittando della nuova posizione per sperimentare l’ebbrezza di una serata in una metropoli e per frequentare di più le amicizie partenopee che nel frattempo avevo stretto o stavo stringendo. A questo punto largo Giusso non è già più in voga, sotto al pino-fu-cedro si trova posto a sedere a qualsiasi ora, non c’è quasi mai fila nei bar per andare al bagno. Lo zoccolo duro è composto da pochi ragazzi disposti nella piazza in base agli oggetti a cui si accompagnano: al centro bonghi e pashmine, ai lati motorini senza strozzature e cappellini del Napoli. Quelli senza bongo e senza motorino sono spariti assieme alla signora col bancariello di caramelle, cioccolate e nocelle, salvatrice di tanti stomaci ubriachi.
La movida si è spostata a piazza Bellini, includendo via san Pietro Majella e via Costantinopoli. La prima sera che ci sono andata era un venerdì. Era talmente tanta la gente che non ho riconosciuto la piazza fino a che non ho individuato l’arco di port’Alba. Anche qua una divisione in settori, questa volta delle attività: dal lato ovest della piazza locali dai nomi culturaleggiantie dalle verande shabby chic; dal lato Costantinopoli (Bellini est) bar low-profile e dalle insegne anni Novanta. Al centro Vincenzo Bellini, che funge da grande panchina sopperendo alle assi divelte delle panchine all’ombra delle magnolie, e la signora delle nocelle.
Ho bevuto il mio primo spritz in Ungheria ad agosto duemiladieci. Il secondo, molto diverso nel sapore, qualche anno dopo sul lato low-profile della piazza. Da allora non ho più potuto tenere il conto delle monete da due euro investite in questa bevanda e, come me, non lo avranno tenuto le decine di persone che si avvicendano quotidianamente nei bar del lato Costantinopoli e che, come me, costruiscono ogni giorno la fortuna esentasse dei proprietari dei bar. A partire dalle sette del pomeriggio – un orario in cui chi durante il giorno, come me, fa cose e vede gente, interrompe ogni attività – la piazza gradualmente si riempie di varia umanità. Lo studente, il lavoratore, l’artista, il fuorisede, l’autoctono, il ragazzo in camicia, la ragazza in leggings leopardati, tutti godono della potenza unificatrice dell’aperitivo. Difficilmente al beveraggio si accosta qualcosa da mangiare e quando lo si fa si tratta in genere di patatine in busta, preferibilmente mosce. In sede di aperitivo, complici l’atmosfera rilassata e l’assenza di spazio vitale, fare conoscenza è piuttosto semplice. Hai l’accendino/avete una cartina/posso chiederti una sigaretta? sono gli incipit più quotati per cominciare una conversazione. Io stessa in un paio di occasioni sono stata mandata in avanscoperta per conto di non fumatori. Le conversazioni che ne nascono possono essere non interessanti, a volte si tratta invece di storie avvincenti; il comune denominatore di tutti i narratori, me compresa, è un’autoreferenzialità sfacciata.
Tra le storie che ho ascoltato, due mi hanno colpita particolarmente. La prima tratta di un sedicente scultore quarantenne, padre di un bimbo di pochi mesi, che davanti a un campari spritz, senza neanche essersi presentato mi mostrava in lacrime le foto della compagna tradita e del figlio, domandandomi quale fosse la strategia migliore da adottare per riavere indietro la sua felicità. Non devo essergli stata molto d’aiuto, vista la repentinità con cui ha abbandonato il tavolo convinto da un amico a prendere parte a una festa. Non l’ho mai più rivisto, o semplicemente non ci siamo riconosciuti. La seconda storia ruota intorno a una ragazza con cui ho condiviso una birra e un momento di forte invettiva contro il trasporto pubblico, invettiva a partire dalla quale, grazie a un volo pindarico impercettibile, è arrivata a rivelarmi di essere tornata in Italia dalla Francia per i suoi problemi di bulimia. Neanche di questa ragazza conosco il nome, e questo fa sì che il suo segreto sia al sicuro, così come il mio rivelato a lei, disperso nell’anonimato della piazza, schiacciato, come noi, tra le macchine parcheggiate e i corpi degli astanti.
Ho soddisfatto il mio desiderio di non affannarmi nella ricerca di un metro quadrato per me una sola volta, facendomi ammaliare dai tavolini del lato ovest. Lo spritz era ancora lontano dal sapore ungherese che ricordavo, ma le patatine mosce erano di marca. Alla fine del drink ho devoluto un euro a uno spargitore di sale sui piedi e ho pagato, pensando che il vantaggio dell’aperitivo “sistemato” risiede nel non avere poi la possibilità economica di abusarne.
Dalle ventidue si finisce ufficialmente di “fare aperitivo” e si comincia a “fare serata”. C’è chi è rimasto in giro dall’aperitivo mangiando qualcosa al volo, chi ha cenato a casa, chi scende solo ora. A questo punto gli stimoli arrivano da ogni punto della città: un concerto a Fuorigrotta, una festa a Gianturco, un locale con un bel gruppo che suona a Posillipo, un’esposizione a Castel Sant’Elmo. Si prende atto dell’impossibilità di raggiungere i suddetti luoghi senza un’auto e si resta al centro. Il cinema è un’ipotesi da vagliare portafogli alla mano, idem per l’idea di andare a ballare in uno degli ex-locali (l’ex Rising, l’ex Kinky, l’ex Sudterranea). Si decide di fare una passeggiata. Port’Alba è uno stargate tra il sovraffollamento di Bellini (senza “piazza”) e la rinnovata desolazione di piazza Dante, vuota. Via Roma, poi Cisterna dell’Olio, infine piazza del Gesù: alpini e nulla più. Mi hanno parlato spesso dei fasti passati di piazza del Gesù, ma non ho mai avuto il piacere di vederla piena di persone, fatta eccezione per i gruppi di adolescenti del sabato pomeriggio. Via Santa Chiara, Benedetto Croce, piazza San Domenico. I bar a San Domenico di sera sono chiusi, tranne quello al profumo di marijuana, ritrovo serale dei falchi. Si ritorna alle origini e nel tragitto è facile che si faccia tappa davanti alla friggitoria, un posto strategico perché provvisto di un buon numero di gradini per sedersi. Là ho scambiato parecchie chiacchiere sensate, lamentandomi nel frattempo dell’odore di frittura per tutto il tempo e millantando di andarmene dopo pochi minuti, ma arrendendomi poi una volta tornata a casa a fare la lavatrice.
Back to Bellini. Chi c’era prima del girotondo intorno alle piazze c’è ancora, a meno che i conti col portafogli non siano stati incoraggianti. La parte di marciapiede conquistata ore prima con tanta costanza è stata usucapita, ci si sposta al centro della piazza. Ho fumato decine di sigarette appoggiata a una ringhiera, senza mai chiedermi il perché della ringhiera, finché una sera un iPhone lanciato per cause passionali mi ha fatto notare che oltre la ringhiera c’erano degli scavi archeologici. La ragazza cercava, coadiuvata dalla luce di un altro smartphone, il suo telefono, ben attenta tra le imprecazioni a non tagliarsi con i pezzi di vetro sulle mura. Quella sera, quando ho deciso di ritirarmi, la ragazza non aveva ancora trovato il modo di risalire dagli scavi, derisa dalle amiche e continuando a imprecare, sovrastata soltanto dal clacson del camion dell’Asia, impossibilitato, come al solito, ad attraversare la strada a causa della sfacciataggine degli automuniti, che questo privilegio devono sfruttarlo fino in fondo parcheggiando proprio davanti ai loro bar di riferimento, dai quali si allontanano per ricordare al pretenzioso netturbino che è meglio “stare calmi”, perché sono le tre del mattino e, come me, “stiamo tutti stanchi” e poi, in fondo, “nun è succies nient”.
A questo punto – questo del camion dell’Asia – ho spesso concluso le mie serate. “Già ti ritiri?”, il refrain del centro storico risuona per le strade, irretendo anche chi, come me, pur non avendo voglia di mettersi a rullare, “fuma questa e se ne va”. Per oltre sei mesi sono uscita tutte le sere, persino quelle precedenti a un esame. In questi mesi ho osservato (nel senso di osservanza) le dinamiche generali delle relazioni interpersonali “della piazza”: i nuclei sono formati da un gruppo di amici, generalmente un duo o un trio; attorno ai nuclei orbitano altre persone, a loro volta magari facenti parte di un nucleo, creando una catena potenzialmente infinita di legami inaspettati, ovvero mal assortiti. Sono stata in questi mesi una grillina moderata, una pacifista, una emigranda per necessità, una detrattrice del sesso maschile, in base all’interlocutore orbitante che, come me, aveva desiderio di parlare, ma non di dire qualcosa.
Grazie all’apporto delle strade e delle piazze ho con gioia incrementato il mio parco amicizie di zero unità, a vantaggio delle transaminasi e a discapito delle mie finanze. Le mie uscite in piazza sono diminuite, ma so che per fortuna non se n’è accorto nessuno, come me. (marzia romano)
Leave a Reply