Da una settimana gli studenti universitari di Tirana si danno appuntamento alle 10 di fronte al ministero dell’istruzione. I poliziotti fanno cordone e aspettano calmi. Le troupe televisive piazzano le telecamere sui tettucci dei minivan agli angoli della strada e riprendono gli studenti che si alternano al megafono. Rruga Durresit, il pezzo di boulevard a quattro corsie che unisce via Durazzo alla piazza principale Skanderbeg, grazie alle manifestazioni da qualche giorno è diventato finalmente pedonabile. Si cammina con tranquillità in mezzo alle corsie e fa un effetto strano per chi è abituato al traffico caotico di Tirana. La città si congestiona in tutte le altre strade, soprattutto quando gruppi di studenti partono dalle proprie facoltà per raggiungere l’appuntamento al ministero. Però, la popolazione sembra reggere. Con i cortei sfilare e le file interminabili di mezzi ad aspettare, qualche autista saluta e applaude. In tanti sostengono gli studenti, portano cibo e acqua al loro presidio giornaliero.
Raggiungo la protesta per la prima volta domenica scorsa, di mattina. Sventolano bandiere dell’Albania e dell’Europa, girano cartelli e striscioni, qualcuno in inglese; si vede qualche spilla del movimento degli studenti “Për universitetin”. Il palazzo del ministero è coperto di gusci d’uova spiaccicati nei giorni precedenti. Cori e discorsi urlati al megafono fanno da sottofondo mentre gruppi sparsi di studenti parlano fitto. Si prova a convincere gli indecisi, immagino, ci si confronta sulla piattaforma di richieste da fare. Ci sono tanti ragazzi ma sorprendentemente anche tanti genitori. Un uomo sulla quarantina sventola fiero la bandiera albanese nel mezzo del gruppo di ragazzi, instancabile e coreografico. Quando gli studenti si fanno numerosi attorno al ministero arrivano anche i venditori ambulanti con il sorriso sornione e il carico di fischietti e vuvuzela, popcorn e bottigliette d’acqua in vendita. Qualche anziano passante resta in disparte a guardare curioso, altri discutono animatamente con gli studenti.
Tasse alte, servizi scadenti
Provo a parlare con qualcuno e incontro Miranda, minuta, occhi verdi e capelli ricci e biondi, che mi racconta della protesta mischiando inglese e italiano con un cartello tra le mani. Fa ingegneria e mi sembra arrabbiata ma felice di parlare. La protesta è cominciata martedì scorso quando gli studenti sono venuti a conoscenza di un decreto del consiglio dei ministri che inseriva una tassa aggiuntiva per tutte le università pubbliche del paese. In sostanza, gli studenti che devono ripetere un esame per migliorare il voto ricevuto o perché non l’hanno passato, devono pagare una tassa aggiuntiva per ogni credito formativo della materia in questione. Miranda fa i conti in fretta, mi racconta che per un esame importante si arriverebbe a pagare perfino quaranta-cinquanta euro e il salario medio albanese non supera i trecentoquindici euro. Le manifestazioni sono cresciute presto quando la notizia si è diffusa. Tasse alte e servizi scadenti sono le ragioni principali della rabbia degli studenti. Non solo Tirana ma pure Shkoder, Valona, Elbasan in breve tempo iniziano sit-in giornalieri.
Il governo ha di fatto ignorato le prime manifestazioni. In un commento su Facebook il primo ministro Rama aveva appellato i manifestanti come un “gruppo di ripetenti”. Gli studenti sono diventati sempre più numerosi dopo le prime dichiarazioni. I loro cartelli restituiscono con ironia l’offesa ricevuta. “Qui ci sono i ripetenti che la Germania cerca”, si legge in uno dei tanti striscioni degli studenti. Si riferisce ai flussi migratori e all’esodo costante dei giovani albanesi verso il resto d’Europa e gli Stati Uniti. Come riportava solo pochi mesi fa Le Courrier des Balkans, nel 2018 più del tredici per cento della popolazione nazionale si è candidata per la “lotteria americana”, un sistema che mette in palio alcune green card per risiedere e cercare lavoro negli Stati Uniti. «E poi – mi racconta Miranda con un po’ di orgoglio –, i voti del nostro ministro Nikolla sono molto più bassi della media di quelli degli studenti presenti qui». Si riferisce al GPA, il voto relativo agli studi universitari del ministro dell’istruzione tutt’altro che lodevole.
L’emigrazione di massa dall’Albania resta una questione cruciale e gli studenti in strada ne parlano tanto. Erion all’inizio è un po’ timido, poi mi parla in un inglese perfetto con l’accento americano. Studia da programmatore di software all’Università di Scienze di Tirana e mi dice che dopo la triennale sa già che dovrà emigrare per trovare un lavoro nel suo campo. Gli chiedo cosa vuol fare dopo gli studi e mi dice che l’Albania offre poche opportunità e dopo aver studiato già si vede a cercare lavoro all’estero. Miranda invece studia ingegneria petrolifera e mi racconta che nelle industrie estrattive del paese, di proprietà di multinazionali straniere, gli ingegneri albanesi sono discriminati: «Se trovassi lavoro li io prenderei a malapena trecento euro, mentre un collega canadese o italiano comincia con un salario base di tremila euro».
Dopo sette giorni di manifestazioni, gli studenti restano compatti e i manifestanti sembrano aumentare. Il governo ha dovuto cambiare atteggiamento nei loro confronti. Dapprima il primo ministro ha negato la propria responsabilità nella scelta di inserire nuove tasse. Rama ha dichiarato tramite video-diretta Facebook che i rettori delle singole università avevano preso la decisione di aumentare la tassazione sugli studenti. Il ministro dell’istruzione Nikolla invece – mi racconta Miranda – ha dichiarato in un’accorata intervista radio di essere addolorata da “mamma e docente” delle proteste degli studenti e di comprendere la loro frustrazione. Entrambi hanno provato a riallacciare il rapporto con i dimostranti. Hanno abolito il decreto che introduceva la tassa per i crediti formativi, hanno invitato al dialogo e ad aprire negoziati con i rappresentanti del movimento. Nel frattempo il partito d’opposizione ha tentato di mettere il cappello sulla manifestazione. Gli studenti hanno rifiutato sia le proposte del governo che le avance dell’opposizione. «Non siamo un partito politico – dice Miranda – e non abbiamo niente a che fare con i partiti politici in parlamento».
«I politici li abbiamo cacciati quando sono venuti qui per dividerci», mi spiegano i ragazzi di Economia con cui ho parlato martedì. Giovani militanti del partito socialista al governo, che pure partecipano individualmente alle manifestazioni, hanno fatto pressione per aprire un tavolo di trattative con il governo. «Spesso si fanno avanti e prendono il microfono, dicono le loro cose. Ma noi non li ascoltiamo, siamo compatti e spesso vengono fischiati», mi dicono gli economisti.
Le richieste degli studenti
Le manifestazioni arrivano in un periodo di celebrazioni nazionali. L’8 dicembre è giorno rosso sul calendario; si festeggia la gioventù. Nel dicembre 1990 sono le proteste degli studenti di Tirana a far cadere Ramiz Alia, presidente della repubblica socialista albanese che aveva sostituito il dittatore Hoxha dopo la sua morte. La data celebra la fine del regime e l’inizio della transizione democratica.
Manifestazioni cosi partecipate e prolungate nel tempo in Albania non se ne ricordano da anni; le ultime, forse, quelle dei disordini degli anni Novanta. Gli studenti però erano già scesi in piazza nel 2015 contro la riforma dell’Università del primo governo Rama. La riforma aveva equiparato le università pubbliche e private per regolarizzare e ridurre il numero degli istituti privati. Secondo gli studenti, tuttavia, la riforma, favoriva, e continua a favorire, le università private che possono più facilmente accedere ai fondi pubblici. La protesta allora non aveva attirato così tanta partecipazione e si era spenta in breve tempo.
I manifestanti questa volta hanno formulato una serie di richieste attraverso un processo partecipato e plebiscitario. «Le proposte sono emerse al megafono dagli studenti che andavano a proporle. A seconda di come il movimento le accoglieva venivano inserite in lista oppure no», mi spiega di nuovo Erion. Anche se c’è più di una piattaforma scritta da pezzi diversi del movimento, quando chiedo ai manifestanti di elencarmi le loro richieste, le loro risposte sono abbastanza coerenti. Gli studenti chiedono di dimezzare le tasse universitarie per tutti e di creare una no-tax area per le classi meno abbienti. Chiedono maggiori investimenti pubblici in università e formazione per migliorare laboratori, biblioteche e residenze studentesche.
«La facoltà di Scienze è in un palazzo progettato per duemila studenti. Ora siamo più di settemila e non è stato fatto un singolo investimento di ampliamento», mi spiega Erion. «Le biblioteche non hanno sedie e non c’è mai posto; i libri di testo sono costosissimi e fatti male», mi dicono i ragazzi di Economia. Secondo le voci che raccolgo nella manifestazione, i professori spesso obbligano gli studenti a studiare sui libri di testo da loro redatti. Questi non solo sono molto costosi, ma sono di pessima qualità. «Si tratta di pezzi di altri libri in inglese copiati e tradotti male con Google translate. Ma noi dobbiamo acquistarli ugualmente, altrimenti la bocciatura è sicura», mi spiegano. Per questo gli studenti chiedono maggiore trasparenza su come vengono selezionati i libri di testo e che questi non cambino a seconda del professore che tiene il corso. E poi chiedono trasparenza negli esami e nelle valutazioni e denunciano la pratica, pare diffusa, di pagare i professori per passare gli esami. «È difficile dirlo apertamente, denunciarlo, ma tutti sanno quello che succede», mi raccontano.
«Io sono di Tirana ed è una grossa fortuna. Non devo spendere altri soldi per trovare un appartamento in affitto e non sono costretto a vivere nei dormitori dell’università – mi racconta invece Aldi –. I dormitori sono in condizioni pessime, con un bagno per ogni piano e locali fatiscenti». Cosi gli studenti chiedono investimenti massicci per migliorare le residenze universitarie. E poi una carta dello studente, «come in tutte le città universitarie del mondo», dicono, con la quale accedere con tariffe agevolate ai mezzi di trasporto, a cinema e teatro, alle biblioteche.
Le richieste degli studenti sono semplici e specifiche. Raccontano il bisogno di una nuova centralità dei ventenni del paese che vorrebbero non essere costretti a emigrare. “Perché mi costringete a odiare il mio stesso paese?”, si chiedono in uno degli striscioni. I ragazzi con cui parlo mi raccontano con il sorriso che per loro le richieste che avanzano sono del tutto ordinarie e per questo non accettano nessun negoziato con il governo. «Quello che chiediamo sono i nostri diritti. Non c’è da negoziare; o li ricevi tutti interi oppure non sono diritti», mi dice Erion. «Proprio come nel 1990, oggi usiamo lo stesso slogan: “Vogliamo essere come il resto d’Europa”; non chiediamo niente di più di quel che ci spetta. Cosa c’è da negoziare?», mi spiega Miranda.
Ma il rifiuto compatto al dialogo con il governo ha anche una funzione strategica. Gli studenti rifiutano i negoziati anche per proteggere quelli che verrebbero scelti come negoziatori. In strada mi dicono: «Nominare un gruppo di negoziatori significherebbe nominarli come leader del movimento e questo sarebbe pericoloso. I leader sarebbero a rischio di corruzione oppure di attacchi da parte di maggioranza e opposizione». E poi, il movimento rifiuta l’idea di avere dei leader. «Siamo studenti, tutti uguali non politici», spiega Miranda e finalmente mi racconta perché stringe il cartello che ha in mano dall’inizio della nostra conversazione. C’è scritto in inglese: “So bad, introverts are here too”, “Che peccato, qui ci sono pure degli introversi”. «Ho scritto questo pensando a noi ingegneri – mi dice sorridendo –. Noi non siamo bravi con le parole e la retorica e non siamo pronti ad affrontare un negoziato con il governo. Il problema è che se scegliamo un gruppo di negoziatori, questi entreranno con le idee del movimento in testa ma usciranno con quelle del governo!».
La capacità persuasiva di Rama, poster child del partito socialista albanese è nota nel paese e all’estero. I ragazzi lo conoscono e finora sono riusciti a smontarne il carisma portandolo a cambiare posizione più volte. «Se vuole davvero parlarci, che venga lui qui tra noi in strada», dicono gli studenti.
Due diverse normalità
«Noi la chiamiamo la protesta dei meme», mi dice Miranda. Tanti dei cartelli usano l’ironia da social network per “trollare” le dichiarazioni dei leader del governo che hanno difficoltà a persuadere anche solo pezzi del movimento a iniziare una trattativa. Per la festa della gioventù il governo ha piazzato una serie di pannelli lungo i boulevard principali di Tirana. I panelli, alti più di un metro ciascuno, su tre lati raffigurano foto delle manifestazioni degli studenti del ’90. In una delle foto c’è il profilo di un giovane Rama col megafono che arringa una folla di ventenni. Miranda mi racconta questo aneddoto e conclude amara: «Dev’essersi dimenticato cosa significa essere uno studente». Eppure, gli studenti non chiedono la poltrona del primo ministro, ma solo l’implementazione delle loro richieste. In questo modo vogliono smarcarsi dal gioco politico dei due partiti politici principali e disarmano chi nel governo potrebbe delegittimarli dipingendoli come vicini al partito di opposizione.
A cinquecento metri dai cori degli studenti c’è piazza Skanderbeg. L’eroe nazionale, che combatté con onore gli invasori ottomani, svetta a cavallo in una statua all’angolo della enorme piazza. Tutto intorno, la piazza di solito vuota è diventata un’enorme luna-park. Giostrine, piccole montagne russe e casette di legno con i tavoli fuori e le “stufe a fungo” per riscaldarsi. L’albero di natale, al centro di tutto, svetta con luci e regali appesi. C’è perfino babbo natale e gli elfi e la loro casetta-laboratorio con la fila di famiglie e bambini in attesa per una foto.
Gli studenti a pochi metri di distanza lottano per quello che definiscono la normalità: università pubblica, di qualità e per tutti; emigrare solo se si vuole, il diritto di vivere la città e i suoi spazi, di esserne protagonisti, la possibilità di essere trattati come “cittadini e non consumatori”, come grida un cartello. A Skanderbeg Square un’altra normalità va in scena: quella di consumi e tranquillità, di un giro di giostra e una foto con babbo natale. Arriverà il freddo e gli studenti avranno quasi solo le loro forze su cui contare. Hanno però lanciato un sasso nello stagno, dimostrando che tra le mille vie d’uscita individuali si può anche costruire una voce collettiva. I loro vent’anni, imeme e la felicità pubblica ritrovata sono promessa e fiducia che fanno bene alla democrazia. (-fb)
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