Castellammare di Stabia, ore 13,45. È fin troppo banale affermare che in questa città di provincia non c’è alcun primo maggio da festeggiare. I discorsi del populismo sindacale sono troppo lontani, così come i palchi delle grandi occasioni, il bagno di folla delle piazze e l’eco delle musiche dei vari concerti accompagnati dalle vuote parole dei quattro politici di turno sull’etica del lavoro. L’entusiasmo, la speranza, il futuro, qui non hanno alcuna ragion d’essere. La festa del lavoro nel presente di questo luogo significa tutt’altro. Vuol dire, al limite, un bagno al mare nella spiaggia libera della palombara o della rotonda; significa una passeggiata sul monte Faito e una mangiata dalle parti di Pimonte. Vuol dire, inoltre, operai delle Terme che non percepiscono lo stipendio da sette mesi, indotto e operai Fincantieri sull’orlo del baratro, senza alcuna prospettiva. Infine vuole dire circa cinquanta operai in cassa integrazione, che da qualche giorno occupano la fabbrica dell’Avis – Industrie Stabiensi Meccaniche e Navali (produzione e riparazione di materiale ferroviario).
Nato ai primi del secolo scorso come fonderia, questo immenso stabilimento appartenente all’Iri nel tempo s’ingrandì e si attrezzò per lavori di riparazioni. La costruzione di aeroplani iniziata negli anni Trenta contribuì a formare una maestranza specializzata. Nel 1943 all’Avis lavoravano mille operai. In seguito alla devastazione dei tedeschi, ci furono anni e anni di disperata lotta per la sopravvivenza, nel tentativo di riconvertire la produzione e di inserirsi del numero di aziende addette alla riparazione delle carrozze ferroviarie. Chissà se ci sono ancora in giro degli uomini anziani che ricordano l’autunno del ’54, il periodo più duro delle lotte sindacali a Castellammare, che vedeva in prima fila le maestranze di questo stabilimento, in sciopero per settimane. L’Avis fino a poco tempo fa era di Finmeccanica, poi è passata al gruppo De Luca dal duemila. Si tratta dell’ex presidente del Siena calcio.
Il grande serbatoio dell’Avis si vede dall’inizio di via Napoli, un lungo stradone che sulla sinistra costeggia il mare all’altezza del porticciolo turistico di Marina di Stabia e sulla destra il lugubre susseguirsi di fabbriche dismesse. Più avanti c’è la foce del fiume Sarno, lo scoglio di Rovigliano. Dopodiché c’è Torre Annunziata. L’archeologia industriale del vecchio mondo del lavoro metallurgico convive con l’odierno turismo fatto di yacht lunghi venti metri. Lo stabilimento è in totale stato d’abbandono. Enormi capannoni spogli, cumuli di macerie, materiale di risulta, rifiuti sparsi. Soprattutto l’amianto: parecchi ne sono morti prima che venisse bandito, poiché qui con l’amianto si lavorava in stretto contatto. Altri invece sono riusciti a ottenere il prepensionamento a quarant’anni, ma come ha spiegato uno degli operai occupanti, in molti sono morti a quarantadue anni.
Nello stanzino dell’ingresso ci sono gli operai ad aspettare davanti al televisore l’inizio delle partite di serie B. La Juve Stabia gioca in casa con il Grosseto. Nell’altro stanzino, altri giocano a carte. La maggior parte degli operai supera appena i quarant’anni, è sposata con figli, c’è chi viene da Scafati, da Torre Annunziata. C’è un ragazzo di origini brasiliane, ventitre anni, sposato con una bambina. Sul muro dell’ingresso, una foto troppo sbiadita da apparire irriconoscibile mostra l’immagine di un cordone dell’Avis a un corteo. E poi una foto di un ragazzo che sorride, il suo nome, la data di nascita e quella di morte.
Tutta quest’area è interessata del progetto di riqualificazione urbana“Più Europa”. Un progetto fantasma che nasconde in malo modo un chiaro atto di speculazione. Sono anni che se ne discute. L’area è interessata da un progetto di riconversione che prevede l’utilizzo di una parte di questa vasta zona per la costruzione di case e l’altra per la riconversione industriale. Gli operai avevano chiesto al comune che si facesse garante per partecipare a questa parte industriale di investimenti. Avevano chiesto di anticipare gli investimenti inerenti alla riconversione industriale dell’area, per garantire almeno i livelli occupazionali. Ma gli impegni presi dall’amministrazione e dal proprietario dello stabilimento, il gruppo De Luca, lasciano pensare alla necessità di far passare il tempo, mentre sono iniziate tutte le procedure per il licenziamento dei quarantacinque operai Avis. In realtà si pensa che questi progetti siano inesistenti e che le proprietà possano essere vendute con tutta la riconversione a un prezzo altissimo.
Anche il padre di Luca è uscito da questa fabbrica con il prepensionamento. Mentre camminiamo tra i capannoni depredati dal proprietario della fabbrica (che nel tempo ha venduto tutto il materiale, compresi i binari e i carroponti) mi racconta come stanno le cose: «Noi siamo da tre anni in cassa integrazione, quest’anno ci hanno decurtato il trenta per cento. E prendiamo cinquecentottanta euro al mese. L’Avis è dismessa da quando siamo usciti, dal 2009. Dicono che si sta concludendo questa fase di progetto che riguarda tutta la costa, il progetto “Più Europa”… ma questo progetto sta appeso a un palo da due anni. Le linee guida sono state approvate in giunta, ma si dovrebbe formulare un master plan che a oggi non c’è ancora. Pure se va in porto, mentre parte la variante urbanistica ci vuole del tempo, noi chiediamo di anticipare quel progetto sull’area industriale. Dopo la decurtazione del salario vogliamo un’occupazione immediata, non possiamo più aspettare. Abbiamo chiesto pure all’azienda se possiamo iniziare a fare interventi per ristrutturare i capannoni in attesa. In più hanno aperto una procedura di mobilità, e poi entro giugno le linee guida della deroga prevedono la gestione degli esuberi. Noi stiamo occupando perché ci vuole chiarezza. Questo si prende la riconversione e se la rivende. E noi che fine facciamo?».
Stanislao viene da Pimonte, mi mostra i vecchi spogliatoi. Mario invece è di Scafati. «Il proprietario vuole rivendersi la riconversione. Noi da qua non ce ne andiamo. Ci meniamo giù», dice Giovanni mentre mi accompagna al silos. Mi indica il luogo in cui morì un operaio dopo tre giorni di lavoro, lo stesso della foto all’ingresso dello stabilimento. Non aveva neanche quarantadue anni. Tra i capannoni desolati, c’è un paletto con un caschetto e dei fiori di plastica proprio dove perse la vita. Si chiamava Salvatore Napodano. C’è anche una targa: “A un anno dalla scomparsa, luminoso esempio di abnegazione e attaccamento al lavoro…”
«Se non mangiano i figli miei non mangia nessuno. Possono fare quello che vogliono loro. Non abbiamo niente da vedere. Qua ci facciamo male. Sono uscite pure le denunce. Io devo andare a lavorare». Torniamo indietro dopo un altro giro tra le macerie dello stabilimento. Restiamo nello stanzino a guardare le partite, a mangiare pezzi in frantumi di cioccolata all’amarena e a fumare.
La Juve Stabia pareggia zero a zero. Tarantino sbaglia anche un rigore. Maledizione! (andrea bottalico)
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