Lunedì 11 marzo ricorre il centenario della nascita di FrancoBasaglia (Venezia, 11 marzo 1924 – Venezia, 29 agosto 1980), guida riconosciuta della psichiatria critica italiana, movimento (non solo psichiatrico, ma, innanzitutto, culturale e sociale) cui si deve il superamento dei manicomi civili nel nostro paese. E, come per ogni ricorrenza, soprattutto se si tratta di un centenario, nascono decine di iniziative, editoriali e convegnistiche, alcune significative, altre ridondanti se non proprio opportunistiche, volte a ricordare un uomo che ha segnato la storia italiana e non solo, visto che tracce significative del suo pensiero e prassi anti-manicomiali si ritrovano disseminate in tutto il mondo, dal Brasile al Giappone.
Verrà finanche emesso un francobollo commemorativo, e forse proprio da questo può essere utile partire. Non perché vada criticata l’iniziativa (che anzi appare anche simbolicamente significativa), e neppure l’occasione, che questo anniversario può determinare, di far rifiorire studi e discussioni sul pensiero e l’opera di Basaglia (che pure in questi anni non sono mancati, seppure quasi sempre fuori dall’ambito accademico, mentre nei testi studiati dai futuri medici e psichiatri Basaglia è spesso ridotto a una nota a piè di pagina).
Piuttosto, occorre evidenziare un triplice rischio di questa ricorrenza. Il primo è la monumentalizzazione: rendere Basaglia una sorta di effige, quasi un’immagine votiva, con l’evidente pericolo, da un lato, di appropriazione indebita da parte di chi si definisce basagliano pur tradendolo nella prassi quotidiana, dall’altro di riduzione a capro espiatorio da parte dei tanti che, ancora oggi, osteggiano il processo di riforma che ha portato al superamento dei manicomi. Tutto sommato, questo primo rischio appare fisiologico, forse inevitabile, a fronte di una figura così significativa, seppure proprio su questo versante determini fenomeni di banalizzazione e sottrazione.
Il secondo rischio, invece, è la de-storicizzazione: rendere Basaglia una sorta di eroe solitario fuori dal tempo, sottraendo dall’analisi (e quindi depotenziando) gli altri protagonisti di questo processo e, soprattutto, il contesto nel quale si determinano le esperienze di Gorizia, Parma e soprattutto Trieste, la discussione e l’approvazione della legge 180, il superamento dei manicomi.
Si può infatti verificare un appiattimento della pluralità (e a volte della conflittualità) del movimento di psichiatria critica, riducendo a una sorta di unicum basagliano quella straordinaria complessità che ne è stata una delle maggiori ricchezze. Soprattutto, potrebbe essere messo in secondo piano quel confronto con movimenti sociali e culturali di contestazione e rivendicazione di diritti, che, pur con momenti di scontro e di forte dialettica, si sostanzia come elemento caratterizzante della psichiatria critica italiana. Lo evidenziava già Agostino Pirella: “Le lotte antiautoritarie degli studenti, quelle dei lavoratori, delle donne nella loro specificità, hanno accompagnato le ‘critiche pratiche’ prodotte ed esibite nelle esperienze cui si è accennato. Talvolta si sono realizzati collegamenti tra queste esperienze, e tra esse e le lotte, con grande scandalo dei benpensanti ma anche con passione conoscitiva e consapevolezza del valore del mutamento”¹.
Come è noto, gli anni Settanta rappresentano un momento di forte mutamento, di lotte per i diritti e di conquiste sociali: sono del ’70 lo statuto dei lavoratori e la legge sul divorzio; nel ’72 è riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza; nel ’75 la riforma del diritto di famiglia, quella sull’ordinamento del sistema carcerario e la riforma della Rai; nel ’77 sono abolite le classi differenziali; nel ’78 la legge sull’aborto segue di pochi giorni la promulgazione della 180 che, bisogna ricordarlo, rappresenta lo stralcio del più ampio disegno di legge per l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, che si realizzerà alla fine di quell’anno, nel quale poi confluirà la disciplina dell’assistenza psichiatrica. Il paese è poi attraversato dagli accadimenti drammatici determinati dai movimenti eversivi neofascisti (spesso con la complicità di apparati deviati dello Stato), e dalla scelta della lotta armata di alcune compagini di estrema sinistra. La stessa Legge 180 è promulgata quattro giorni dopo il ritrovamento in via Caetani del corpo senza vita di Aldo Moro, ucciso il 9 maggio 1978.
In questo scenario, anche il microcosmo psichiatrico è attraversato da un processo di radicale mutamento, determinato sia dalle esperienze di deistituzionalizzazione, che si estendono da nord a sud sull’esempio delle prime comunità terapeutiche di Gorizia e Nocera, sia da un processo di deospedalizzazione e innovazione dei servizi psichiatrici che, tra il ’71 e il ’78, determinano una contrazione dei posti letto (meno 25%), dei ricoverati (meno 31%), delle giornate di degenza (meno 34%)². Dinamiche che si innestano in un complessivo processo di riforma dell’intero comparto, con la discussione intorno all’istituzione del Servizio sanitario nazionale.
Anche nell’esperienza triestina – la prima nel mondo occidentale in cui, dalla sua definizione come scienza medica, la psichiatria fa a meno del manicomio – il confronto con i movimenti e i diversi gruppi sociali diventa essenziale. Ce lo ricorda Assunta Signorelli: “Come negare l’attualità che si ritrova nella storia del Movimento dei Sussidiati nel ’72 per il riconoscimento del diritto al reddito, nello sciopero delle pulizie delle donne ricoverate per il diritto al lavoro, nell’occupazione della Casa del Marinaio per il diritto alla casa; e ultimo ma non di minore importanza, l’occupazione del Tribunale di Trieste per il riconoscimento del Movimento delle donne come parte civile in un processo per stupro del ’77? Tutti episodi che hanno segnato l’esperienza triestina, determinando rotture e contrapposizioni interne cui Basaglia partecipava come uno del gruppo, certo il più importante, ma non sempre decisivo. Significativo il fatto che alla fine, difficile dire come, il gruppo trovava una sua ricomposizione nella tensione comune al cambiamento”³.
Il terzo rischio, correlato ai precedenti due, è quello di un appiattimento della complessità propria dello stesso psichiatra veneziano: teorie e prassi di Basaglia, le sue scelte, sono contraddistinte da forti inquietudini, dal doversi confrontare con contraddizioni sistemiche che portano anche a profondi mutamenti di prospettiva e che sarebbe un grave errore non prendere in considerazione nella loro evoluzione. Contraddizioni che, dieci anni prima della legge 180, sono sottolineate dallo stesso Basaglia nella seconda edizione de L’Istituzione Negata: “Fanon ha potuto scegliere la rivoluzione. Noi, per evidenti ragioni obiettive, ne siamo impediti. La nostra realtà è ancora continuare a vivere le contraddizioni del sistema che ci determina, gestendo un’istituzione che neghiamo, facendo un atto terapeutico che rifiutiamo, negando che la nostra istituzione – diventata per la nostra stessa azione un’istituzione della violenza sottile e mascherata – non continui solo a essere funzionale al sistema; tentando di resistere alle lusinghe delle sempre nuove ideologie scientifiche in cui si tende a soffocare le contraddizioni che è nostro compito rendere sempre più esplicite; consapevoli di ingaggiare una scommessa assurda nel voler far esistere dei valori quando il non diritto, l’ineguaglianza, la morte quotidiana dell’uomo sono eretti a principi legislativi”⁴.
Forse, per non ridurre tutto a un francobollo commemorativo e restituire senso pratico alle tante iniziative di questo centenario, dovremmo rapportarle alla realtà di radicale arretramento che vive oggi l’assistenza psichiatrica in Italia, con nuove forme di internamento che hanno sostituito i manicomi e un’assistenza territoriale sempre meno capace di dare risposte ai bisogni e ai diritti delle persone sofferenti.
Ancora, per comprendere tutto quanto si è determinato insieme a Franco Basaglia dovremmo ripensare alla strutturazione attuale della nostra società, alla progressiva perdita, rispetto a quegli anni, di centralità politica di movimenti e gruppi sociali, alla necessità di recuperare spazi e luoghi di confronto pubblico, e di lotta, innanzitutto sul tema dei diritti. Dovremmo poi smettere di allontanare e rifiutare la contraddizione, facendo nostro lo sguardo che ci viene suggerito da Assunta Signorelli: “Con uno sguardo di Donna, la deistituzionalizzazione può essere narrata come un seguirsi di pieno e di vuoto, di scomposizioni e ricomposizioni, di quelli che Basaglia chiamava i ‘cento fiori’, alcuni dei quali, i più preziosi, durano lo spazio di un mattino; della naturale alternanza fra gioia e dolore non secondo copione, ma a partire dai moti del sentire umano. In un’epoca segnata da forme di comunicazione mediatica distante dalla materialità concreta, che riduce tutto a ‘immagine asettica e patinata’, dove anche l’esperienza primigenia del parto subisce una sterilizzazione virtuale che occulta gli umori e la sporcizia nella quale naturalmente avviene, tutto ciò può sembrare anacronistico. Ma da parte mia sono convinta che, proprio nel recupero di quella parte aspra e contraddittoria della trasformazione, si celi l’attualità dell’esperienza triestina”.
Forse, come sembra suggerirci il Festival dei Matti che si terrà dal 30 maggio al 2 giugno a Venezia, per dare senso a questo centenario, per festeggiare davvero Basaglia, dovremmo, innanzitutto, tornare a immaginare e praticare “futuri ri-belli”. (antonio esposito)
_________________
¹ A. Pirella, “Poteri e leggi psichiatriche in Italia (1968-1978)”, in F. Cassata, M. Moraglio (a cura di), Manicomio, Società e Politica, Biblioteca Franco Serantini, Pisa, 2005, p. 120.
² D. Pulino, Prima della Legge 180. Psichiatri, amministratori e politica (1968-1978), AlphaBeta Verlag, Merano, 2016, pp. 73 e ss.
³ A. Signorelli, Praticare la differenza. Donne, psichiatria e potere, Ediesse, Roma, 2015, pp. 44-45.
⁴ F. Basaglia, “Il problema della gestione”, in Id., L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Einaudi, Torino, 1968, seconda edizione, pp. 379-380.
Leave a Reply