Mi ricordo di te, Ugo. Le torri gemelle ancora non erano cadute quando ce ne stavamo nascosti sotto al Banco di Napoli tra i palazzi dei ricchi ad ascoltare musica dalle cuffie. Eravamo un bel gruppo, eterogeneo e strambo, composto da gruppetti più piccoli che avevano deciso di abbandonare la zona della Campagnola e di piazza Mercato dopo l’ennesima rissa tra i tavoli di ping-pong. Le tute acetate, uno stereo, due o tre musicassette coi beat e il lucido sul pavimento per scivolare meglio, insieme ad Antonio e Francesco passavamo i pomeriggi in quella zona un po’ nascosta per imparare a girare di windmill. Altri ci davano la forza o ci demotivavano, a seconda degli umori e delle simpatie. Qualcuno della vecchia scuola ci induceva a perseverare. Ci allenavamo nel garage di Enzo, oppure a casa di Pasquale, o ai Salesiani, o nella casa abbandonata del portiere nel mio palazzo, o in altri luoghi in giro coi pavimenti lisci. Per un periodo piazzammo il linoleum sopra al monumento ai caduti che porta scritto “Caserta ai suoi eroi”, e una sera la gente in auto per guardarci ballare paralizzò il traffico. Studiavamo sulle Vhs i video delle Battle of the year per assimilare lo stile di Storm e Crash Kid e le figure nuove da portare alle feste al Nero e non solo e in provincia. Il sabato, quando riuscivamo a racimolare qualche soldo, prendevamo il treno senza biglietto e andavamo in piazza delle Poste a Napoli o al Mumu dalla DBR. Un altro mondo per noi. Imparavamo a conoscere la scena tramite i passaparola. Registravamo sulle cassette le puntate di Yo! Represent. Ci sentivamo parte di un tutto che condivideva delle passioni e le portava avanti, ciascuno coi mezzi che aveva a disposizione. Ognuno dalla sua posizione.
Poi accaddero due cose, anzi tre: le prove generali a Napoli durante il Global Forum, il G8 a Genova e gli attentati alle torri gemelle. Ci sembrò di aprire gli occhi ed essere cresciuti all’improvviso troppo in fretta. Ci accorgemmo d’un tratto di essere circondati dal malessere ma ci mettevamo lo stesso l’anima quando si trattava di ballare o disegnare sul muro che separava i binari dalla zona industriale dismessa. Sperimentando varie forme possibili, socializzando le scoperte tra noi, tra mille insidie e fragilità. Con ostinazione, finché non avremmo trovato la nostra strada a furia di sbagliare. Osservavamo con timido rispetto i più grandi. Dipingevano sui muri del sottopassaggio di viale Lincoln e del cinema Duel, avevano riempito di graffiti il muro dell’ex Macrico e dell’area ex Saint Gobain nel corso di varie jam, organizzavano feste (a memoria: la CTA, la PB, la PAR, i Capras…). Avevano bombardato le strade di tag o di throw up che ci orientavano facendoci sentire a casa in quella città di merda.
Gli intellettuali già erano scappati via a gambe levate dopo averla definita “distratta”, e quelli che restavano snobbavano quella musica o quelle discipline d’importazione forse perché avevano di meglio da fare e da ascoltare. Robertino mi prendeva per il culo a causa dei vestiti che indossavo, della musica che ascoltavo, della gente che frequentavo e delle fesserie che combinavo, e involontariamente faceva da esempio andando avanti per la sua strada tra una lettura di Tommaso Landolfi e un’altra di Vincenzo Consolo. I militanti cercavano di stare nelle lotte con generosità facendo esplodere le contraddizioni di un territorio predato dalla camorra finanziaria e aggredito dai palazzinari commercianti di rifiuti.
Tu cominciasti a venire allora, se non ricordo male. La scena era piuttosto vivace in quel periodo ma non maturava negli spazi politicizzati – sebbene li attraversasse di continuo. Che io ricordi non c’era quasi nessuno della “scena” che frequentasse assiduamente un centro sociale, o che avesse quei luoghi come riferimento, come rifugio, come sfogo, come palestra di vita – in quel periodo occupammo uno spazio abbandonato in viale Lincoln ma durò poco. Lo sfogo era la strada, la piazza, gli spazi urbani più nascosti. Forse mancava qualcuno di serio ai giradischi, o almeno non ho ricordi nitidi di figure autorevoli ai piatti in quegli anni a cavallo del duemila, ma tra writer, b-boy e MC c’era un bel po’ di gente che formava una paranza numerosa, di età ed estrazione sociale diversa. Il luogo di ritrovo sotto al Banco alla fine fu abbandonato dopo l’ennesima rissa a bottigliate o retata della polizia che veniva allertata dai residenti quando scoppiavano i casini. Ci spostammo ai campetti della Nike voluti da Enzino Esposito e Nando Gentile, sempre lì in zona, sempre nascosti, a passare le serate bevendo e fumando tra una partita di basket, un flop sul muro e un giro di freestyle.
Jonathan là in mezzo era il più capace tra i tanti che si avvicendavano con le rime – l’ho visto nella folla in uno dei tuoi video e ho iniziato controvoglia a rivangare tra i ricordi. Conosceva i tempi e i metodi. Studiava le metriche. Era stato lui a farmi ascoltare per la prima volta Lou X, a cui s’ispirava, con cui s’identificava. Lui scrisse quella strofa che faceva più o meno così: “Cerco oro, ma non trovo oro, loro c’hanno l’oro, tanto è tutto facile per loro”, e poi la ripeteva come un mantra finché non ti restava in testa per giorni. Tutte sperimentazioni ancora acerbe che però nascondevano l’esigenza di ragionare sulla propria condizione di giovane proletario della periferia della provincia. Poi c’era Michele, che pure andava avanti coi lavoretti e al contempo gettava barre una dopo l’altra con dedizione ed estro. Insieme faceste anche un pezzo niente male, quando a poco a poco si aggiungevano altri intorno al cerchio (e si costituirono gli HL). Le rime si mescolavano ai suoni improvvisati di quelli cresciuti al ritmo delle tammurriate nelle feste popolari o della Nuova Compagnia. Aperto alle contaminazioni provenienti dai musicisti che bazzicavano gli stessi sotterranei, il cerchio si espandeva o si riduceva tra i flussi di parole messe in fila una dopo l’altra, a seconda delle stagioni.
Credo che fu Gigi a portarti in uno di quei posti – ma correggetemi se sbaglio, ché poi a diciott’anni sono scappato via anch’io a gambe levate perdendovi di vista più o meno tutti, più o meno deluso, cercando di non voltarmi mai. E subito per alcuni di noi il solo fatto di rappare in una lingua altra rappresentava un elemento di fascinazione. E poi ci sapevi fare, diciamo pure che eri una spanna sopra gli altri. Padroneggiavi la metrica e avevi dentro la stessa rabbia di fuoco che avevano tanti di noi in quegli anni, anche se eri “il francese” – per noi, cresciuti nel solco dell’Odio di Kassovitz e delle rime della Brigade, gli IAM, i Supreme NTM e MC Solaar, la cosa non poteva che apparirci “esotica”, un esotismo in cui però ci rispecchiavamo. Il problema in quegli anni era saperla veicolare, quella rabbia, riuscire a sublimarla in qualcosa di concreto – una rivolta individuale o collettiva? una fonte di reddito? –, perché il disagio non sempre ci veniva in soccorso. Anzi ci portava talvolta all’autodistruzione, com’è successo poi a quelli finiti male. E anche per questo i talenti si sprecavano giorno dopo giorno, spegnendosi come luci di lampioni all’alba, perdendosi nei rivoli della vita quotidiana, nell’alcol, nelle droghe, nelle guerre familiari, nei litigi. Nell’isolamento della provincia.
Mi dicono che gli altri continuano a spingere seguendo percorsi più o meno sotterranei, ma senza nulla togliere a loro tu sei, tra quelli del cerchio, colui che forse è riuscito a ottenere ciò che ha voluto. Sei stato capace di emergere da quel pantano e di dare forma e concretezza a quella necessità di esprimersi nel deserto. Ti ho pensato ogni tanto negli anni in cui ci siamo più o meno tutti persi di vista, soprattutto quando sono stato a vivere in Francia, imparando per bene la tua lingua e i giochi di parole del verlan. Mi chiedevo che fine avessi fatto, finché qualche anno fa non ho ascoltato un tuo pezzo, e poi un altro ancora. E poi ho sentito parlare di te da amici di Torino, di Milano, e mi ha fatto uno strano effetto.
Un amico della vecchia scuola dice che snobbo le tue canzoni: non è vero. La verità è che mi costringono a dover fare i conti con quel passato e quei luoghi e quelle ferite, e a ritornare con la memoria al punto da cui più o meno tutto è cominciato. Ma bisognerà pure farci i conti prima o poi, con quella storia a cavallo degli anni Duemila che a ben vedere ancora non è stata scritta. Le ascolto spesso certe canzoni, pensando alla rabbia che ci accomunava in quegli anni di formazione. A essere sinceri, ascoltandoti ho provato fastidio, non tanto per motivi estetici o di gusto, quanto piuttosto per la capacità del mercato di fagocitare tutto, compreso quell’isolamento da cui cercavamo di evadere allora. Una storia che si è vista tante volte. Il mercato detta legge e definisce immaginari, e ora sembra voglia sopperire all’assenza di segregazione razziale in Italia spettacolarizzando il rap proveniente dalla provincia desolata.
Ho provato a prendere sul serio quelle rime ma continuavo a intravederci una logica perversa alle spalle. La tragedia di una traiettoria. Come se dietro quelle rime un disegno preciso m’impedisse di apprezzarle a fondo. Un progetto economico messo a punto in ogni dettaglio, magari qui a Milano in qualche studio di registrazione. “Le drame a son charme” diceva Passi in Le monde est a moi. Il successo ti ha condotto lontano ma ti ha costretto a recitare la parte per cui sei stato ingaggiato, mentre la gente là in provincia s’identifica in quelle parole perché finalmente “sei riuscito a mettere Caserta sulla mappa”, hai dato un nome a quella frustrazione.
Non è snobismo, no. È solo che m’intristisce il pensiero che da quella rabbia originaria è stato ricavato ancora una volta profitto, mistificando quel messaggio che ruota intorno a un certo rap da sempre: l’istigazione alla rivolta, l’esegesi del conflitto (pomé).
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