«Ma che cazzo avete combinato in Calabria!».
Una matura e appassionata compagna dell’alto orvietano, dove vivo da un anno e mezzo, mi apostrofa così al telefono. Siccome la adoro e lei lo sa, mi perdonerà di strumentalizzarla per questo pezzo. Le rispondo: «Io… sì, è colpa mia, è colpa delle compagne e dei compagni che non sanno più parlare alla gente, è colpa pure della sinistra che sa parlare solo ai fighetti e quindi nelle regioni sfigate come la Calabria perde…».
Sono battute. La compagna non sa se prendermi sul serio, mi stupisce comunque che non si capaciti come la Lega possa avere quel risultato in quella che forse si può considerare la regione più terrona d’Italia. Io per telefono proprio non glielo posso spiegare. E nemmeno saprei se per iscritto posso riuscirci. Sono quanto di più distante ci possa essere da un giornalista. Non sono bravo a tenermi aggiornato, recepisco le informazioni sempre in ritardo e anche con quella preziosa – ancorché problematica – fonte che sono i pettegolezzi non sono bravo a destreggiarmi. E infatti anche questo pezzo mi viene scritto fuori tempo massimo rispetto alle scadenze della “notiziabilità”, al punto da essere sicuramente, come si dice in gergo, off topic.
La verità è che proprio filosoficamente mi trovo a disagio con la stessa nozione di informazione. No, non per l’etimo… ma, per esempio, la Treccani recita: “Libertà d’informazione, intesa come libero accesso alla verità attraverso i mezzi che interpretano e formano la pubblica opinione”. Oh bella! Ma se da Quarto Potere in poi, anche chi non l’ha visto, considera “i mezzi che interpretano e formano la pubblica opinione” come gli strumenti della manipolazione, non certo dell’accesso alla verità! Ma questa voce della Treccani l’hanno scritta prima o dopo il film? Oddio sto deragliando, e per questo sbandamento già so che arriverò a ragionare della “società dell’informazione” e queste riflessioni sulle elezioni regionali diventeranno un pippone sulla società della trasparenza e il panopticon digitale. Alt! Stop! Deviare. Torniamo sulla via principale.
L’uscita per l’arteria discorsiva che vogliamo seguire è segnalata da un cartello che porta scritto: “Paese Calabria – area meridionale (già detta Ulteriore o Greca). Rosarno: Santelli Jole 79.14% – Callipo Filippo detto Pippo 16,60%. Riace: Santelli 53% – Callipo 21,34%”. Il raccordo per prendere l’uscita passa per una serie, piccola, di svincoli a forma di “?”.
Cosa vuol dire che a Rosarno, paese noto in Italia per le cosche di ‘ndrangheta e la rivolta degli africani dieci anni fa, la lista della Santelli arriva addirittura al 79,14% (forse un record regionale)? Come intendere quel 53% a Riace, paese emblema dell’accoglienza e della solidarietà, soprattutto se abbinato a un altro probabile record regionale, il 20,62% raggranellato dall’indipendente Tansi (molto vicino al 21,37 preso nella sua Cosenza), che nel complesso della provincia prende invece un misero 3,66?
Sapete, io sono fissato, sono un paesanista militante anti-metropolitano. Per cui le cose, dovunque mi trovi, anche se le disavventure o meglio le tragedie della vita mi portassero a vivere, che so, a Parigi, o peggio (catastrofe) a New York… comunque sempre le cose, intese quelle del mondo, le guarderei da questo punto d’osservazione che è il paese meridionale calabrese. In questo campo d’osservazione, i due paesi emergono come due poli: uno sulla ionica e uno sulla tirrenica, entrambi sottoposti a spettacolarizzazione giornalistica, entrambi segnati, tanto nella vita recente dei loro abitanti quanto nella rappresentazione pubblica, dalla presenza importante di collettività immigrate. Uno icona dell’accoglienza, l’altro dello sfruttamento razzista e del malaffare ‘ndranghetista. Come è mio vizio, a partire da questa oggettiva polarità io sviluppo la tesi: che le due narrazioni siano in realtà un’unica narrazione volutamente in bianco e nero e che entrambe siano espressione della falsa coscienza della sinistra, calabrese quanto nazionale. Falsa coscienza, false rappresentazioni, false narrazioni stereotipanti di segno opposto che portano all’esito comune: il cementarsi di una collettività paesana sofferente, emarginata e sottomessa, che si sente aggredita dalla sovraesposizione mediatica, attorno ai valori più retrivi e alle forze sociali più reazionarie in una dinamica indotta di solidarietà verticale.
LA RETE CLIENTELARE
Che poi, elezioni a parte, in Calabria è un momento turbolento… Certo, non a tutti viene in mente subito, ché dei quotidiani nazionali solo Il Fatto ha dedicato la prima pagina alla “più grande operazione contro le mafie dopo il maxi-processo di Palermo”. Però è un fatto: esponenti molto in vista del centro-destra, che in passato hanno ricoperto cariche istituzionali di un certo rilievo, sono finiti in carcere. Sì, direi che si può affermare senza remore che l’elettorato calabrese delle risultanze giudiziarie se ne sbatte alla grande. Non che la considerazione cambierebbe se avesse vinto il centro-sinistra. Se si ha voglia di scavare nelle inchieste su malversazioni, corruzione, voto di scambio e collateralismo ‘ndranghetista, le cronache giudiziarie ci offrirebbero casi studio abbondanti anche nel centro-sinistra calabrese. Forse è per questo che la Calabria rimane così in ombra, in certi frangenti. Non quando si tratta di spettacolarizzare il sangue, i morti… no, quello va bene. Ma se si tratta di zone grigie che vengono a luce, di compromissioni dei massimi livelli istituzionali ed economici nazionali… come pure se si tratta di una campagna elettorale per le regionali, meglio girarsi dall’altra parte, meglio oscurare. Potrebbe concludere, qualche uomo della strada qualunque, che il motivo sia che la Calabria è l’armadio degli scheletri, o almeno uno degli armadi… che quindi a ficcarci il naso viene fuori una tibia, una clavicola, un teschio, e va a finire che si finisce sputtanati.
Perché in Calabria, si sa, senza la ‘ndrangheta non si vincono le elezioni regionali. Le comunali forse, è molto difficile eppure possibile. È successo, conosciamo esperienze. Ma le regionali no. Che non vuol dire che qualcuno ti controlla dentro il seggio con una microtelecamera che ti ha prima applicato sulla cravatta, o tantomeno che ci sia bisogno del giochetto della scheda mancante raccontato da Salvatores nel suo Sud. No, non è questo. Non è con la pistola che si esercita il terrore che comanda i voti (pur restando il monopolio della violenza la base genealogica e logica del potere ‘ndranghetista sui territori). Né con i brogli si controllano gli esiti elettorali, pur non potendosi escludere anche questa risorsa estrema. Il bisogno. È questa la chiave della dittatura borghese-masso-mafiosa nei paesi calabresi e la corrispettiva minaccia una sola: il pericolo di cadere nell’abisso dell’isolamento, privi di clienti e protettori, posti quindi nell’impossibilità di contrarre obblighi di scambio con qualche nume locale e quindi, nei fatti, nell’impossibilità di sopravvivere. Lo scriveva bene Nicola Zitara quasi mezzo secolo fa, e la disamina resta più che attuale: “Sbaglia chi pensa che il clientelismo viva di una sorta di preciso rapporto contrattuale tra elettore ed eletto o eleggendo. Esso è invece un sistema di vassallaggio generalizzato. La classe che amministra l’ente pubblico e l’assistenza mutualistica non è legata alle masse lavoratrici nel campo della produzione: incontro-scontro che invece c’è tra classe operaia e capitalisti; il legame semmai esiste a livello della erogazione dei servizi e più generalmente della vita sociale. Infatti l’uomo meridionale, non trovando modo di esprimere una richiesta politica di classe, chiede appoggio per sopravvivere moralmente ed economicamente nell’ambito della propria comunità. Non è però necessaria una richiesta immediata. Il più delle volte è sufficiente la coscienza della necessità di una copertura e di un avallo per le eventuali occorrenze della vita. L’amicizia con il medico, con il sindaco, con il collocatore comunale, con il maresciallo dei carabinieri sono in effetti condizioni essenziali per una soddisfacente presenza nella società. Chi non gode di tali tramiti può trovarsi di fronte a difficoltà non superabili con i propri mezzi e finisce con l’essere un escluso sociale” (N. Zitara, Il proletariato esterno, Jaka Book, Milano, 1975).
Il controllo del voto, di conseguenza, non è direttamente repressivo, ma piuttosto risponde alla logica finanziaria. Il voto è l’investimento del proprio patrimonio di consenso (familiari, amici, dipendenti), e si esercita ben prima dell’ingresso in urna, attraverso gesti che rispondono a un codice non ufficiale eppure cogente, fatto di presenze ai comizi, di chiacchiere al bar, di commenti pubblici, di giri per le case… secondo la posizione e il ruolo di ognun*. In ogni caso ognun* trova il modo per schierarsi prima del voto, e così facendo vota prima del voto. Investe. E spera che il cavallo vinca. Perché da quest’esito dipende la fortuna o la rovina della propria posizione. Ognuno è imprenditore di se stesso nella politica del paese calabrese, feudale e capitalistica al tempo stesso. Il padre risponde dei figli, il datore di lavoro dei suoi dipendenti, il presidente del consorzio civico dei suoi associati, e così via. Non senza eccezioni, s’intende, esiste comunque un voto d’opinione o un non voto d’opinione. Ma di solito è più che marginale. Salvo alle volte… come quando fu eletto Mimmo Lucano a Riace. Di questo però si ragionerà più avanti.
Ma allora, si dirà, perché non fanno solo liste di indipendenti? Perché i simboli del partito nazionale? Risposta: perché il meridione è una colonia interna. Il partito nazionale è quello che ha storicamente canalizzato i flussi di consenso verso il centro, usando il Mezzogiorno contadino come leva nelle strategie di governo democristiane secondo formule divenute mitiche come quella delle “maggioranze bonomiane”, per poi distribuire l’elemosina clientelare verso la periferia meridionale e così riprodurre il bacino elettorale e insieme il sottosviluppo dei territori dipendenti. Così è stato storicamente, per tutti i partiti – salvo per il Pci in una data fase storica, i vari Psiup, Pdup – e così continua a essere. Per cui nessun uomo nuovo, tanto meno un Pippo Callipo, si avventura alla conquista del governo regionale senza l’appoggio dei partiti nazionali, pena il non risultare credibile agli occhi dei vari blocchi sociali (dai disoccupati agli imprenditori, passando per gli impiegati pubblici e i primari d’ospedale e… gli ‘ndranghetisti) come futuro cliente. Chi lo fa, come Tansi, l’accademico ex capo della ProCiv regionale presentatosi come indipendente, sa di non poter vincere e lo mette in conto. Il partito dei tecnici illuminati non può fare rivoluzioni, meno che mai in Calabria. Al massimo approntare un’autodifesa di corpo organizzando un bacino di voti spendibile in futuro.
In tutto questo gioco i temi del discorso politico pubblico, l’agenda nazionale, gli schieramenti, sono solo una cornice retorica e a volte un contenitore ideologico che veste la competizione tra blocchi clientelari. Si spiega così il formidabile primato di trasformismo, in un quadro che già sul piano nazionale vede questo abito della politica italiana trovare fortune forse sconosciute nelle tanto vituperate “repubbliche” precedenti, che tuttavia in Calabria assume tratti surreali. Dal Pd ai Fratelli d’Italia è un attimo il saltino. Come ieri lo è stato il passaggio dal centro-destra al centro-sinistra. È precisamente questo il passaggio operato dal candidato perdente del Pd, Pippo Callipo, quello del tonno. Già nel 2009, appena dimessosi da presidente di Confindustria Calabria, aveva deciso di diventare presidente della Calabria e allora mi vennero scritte queste parole: “Quello che vince sugli scaffali dei supermercati e nei set della pallavolo nazionale, ora si presenta nell’agone politico seguendo un modello che diremmo berlusconiano, se non fosse antitetico lo schieramento. (…) Ogni nuova merce porta con sé una messianica promessa: quella di liberarci dal bisogno per sempre, la definitiva felicità del consumo, e così facendo non fa che preparare il terreno a nuovi bisogni indotti che in breve tempo la renderanno vecchia e ne partoriranno un’altra più nuova, in un vortice di continua frustrazione dove l’essere equivale al consumare. Così pure sul mercato della politica, dove per il cittadino l’essere equivale al solo votare, il nuovo che avanza si presenta come il messia della palingenesi definitiva, sfoggiando come una medaglia la più vecchia delle promesse. (…) Ad annunciare l’avvento dell’era nuova, pochi mantra significativi tra cui “no tax area – no tax area…”.
Nel regno di Callipo in terra calabra, i padroni investiranno senza dover pagare tasse. Porte aperte a ogni tipo d’impianto, i calabresi metteranno corone di fiori attorno ai colli dei nuovi invasori. Le antiquate coltivazioni che oggi non hanno più mercato saranno sostituite dalla monocultura turistica, con tanti resort, a immagine del suo Popilia, che sorgeranno lungo le coste. Il corpo trasfigurato della regione brillerà alla luce delle vetrine di mille centri commerciali. Una terra promessa che avvera le più azzardate profezie pubblicitarie. E così in uno dei templi della nuova religione, gli 80 mila metri quadri di shopping del Parco Commerciale Le Fontane di Catanzaro, il nostro si dedica a celebrare queste realizzazioni come “fiore all’occhiello del meglio dell’intelligenza imprenditoriale meridionale”.
Dal primo fallimento Callipo non abbandonò mai il sogno, decise però di schierarsi più avanti in appoggio al centro-destra, e numerosi sono scatti e aneddoti a certificare il suo sostegno alla rivale di oggi, Jole Santelli. D’altronde certe cose non sono né di destra né di sinistra, e il progetto di fare della Calabria una Silicon Valley, punta di diamante del suo attuale programma elettorale, è stato elaborato dall’imprenditore in tandem con Giuseppe Nisticò, accademico già presidente della giunta regionale in quota Forza Italia.
LA BOLLA DI RIACE
Ma qua si rischia ancora di deragliare, e allora torniamo sulla via maestra e proviamo a rispondere alle nostre domande.
1-Pensando ai risultati in generale ma ancor di più a Rosarno, dove da anni Salvini galvanizza le masse, mi sono posto la domanda: come mai questo recupero rispetto alla Lega di Forza Italia, che contando le tre liste direttamente riconducibili (Forza Italia, Casa delle Libertà e Santelli Presidente) è di gran lunga il primo partito? Il dato di Rosarno ha un certo rilievo, tanto che l’eletto Gianni Arruzzolo farà sicuramente parte della nuova giunta. Lo chiedo a un amico, giornalista locale che per motivi professionali preferisce restare anonimo: “Perché hanno vinto i potentati della destra ‘classica’ e non sovranista, di quella destra che neanche ci prova (come fa Salvini) a proclamarsi anti-sistema, ma è anzi orgogliosamente parte integrante del sistema che gestisce i consensi attraverso le clientele e grazie alle entrature ormai decennali negli apparati della pubblica amministrazione, delle Asl, degli enti sub-regionali. La destra berlusconiana ha inoltre accolto quei portatori di pacchetti di voti che hanno fatto dell’alternanza un mestiere, che riescono a passare con disinvoltura dal centro-destra al centro-sinistra e viceversa e, anche se a volte non riescono a essere eletti, portano comunque acqua al mulino dei vincitori. Che in Calabria negli ultimi vent’anni sono sempre ampiamente preannunciati. Il voto della Lega, insomma, anche in Calabria è per lo più un voto di reazione, di ‘protesta’, benché di marca populista e pseudo-fascista. Lo dimostra la differenza tra i voti di lista e quelli dei singoli candidati. Quello berlusconiano invece è un consenso di sistema, che ancora, evidentemente, in Calabria si poggia sulla forza dei numeri. Fa riflettere infine il dato dell’astensione, oltre che in senso generale, perché è esattamente uguale a quello del 2014: vanno a votare le stesse persone, una quota delle quali si sposta da uno dei due blocchi all’altro a seconda che venga percepito come vincente. La legge elettorale, che non prevede il voto disgiunto, alimenta questa dinamica perché rende decisivo il numero di candidati schierati sul territorio a chiedere voti a parenti, amici e clientes. Un voto ‘personale’ che, molto spesso, non ha nulla di politico”.
Ok. Le considerazioni confermano una linea di ipotesi che condivido. Ma non del tutto. Il passaggio alla Lega del sindaco di Catanzaro, politico di lungo corso nel centro-destra, già amministratore della società che gestisce le acque calabresi, segnala un movimento di riposizionamento del partito di Salvini nel segno della graduale permeazione negli apparati di cui scrive il mio amico giornalista. Ancora, il candidato di punta della Lega, Pietro Molinaro, a lungo presidente di Coldiretti Calabria e ben posizionato nella direzione nazionale dell’organizzazione (a proposito del rinnovarsi in Calabria delle formule bonomiane), sarà per certo il prossimo assessore all’agricoltura nella regione dove forse più alto è l’impatto del settore nel reddito delle famiglie. Molinaro ha investito politicamente molto a Rosarno, già nel 2013 si ricordano le iniziative intitolate “non lasciamo sola Rosarno”. La sua campagna per la difesa delle percentuali di succo concentrato d’agrumi nei soft drink dimostra quanto sia rappresentativo dei settori più lobbistici e retrivi dell’agricoltura calabrese, quelli legati all’export e alle multinazionali, quelli appesi all’agroindustria e quindi direttamente artefici delle condizioni dei braccianti immigrati, quelli per cui è impensabile qualunque ipotesi di riconversione orientata alla sostenibilità ambientale e sociale. Quando non bastasse questo a definire il profilo dell’assessore in pectore, si consideri come la cooperativa produttrice di salumi D.O.P. di cui è, o almeno è stato, amministratore delegato sia stata condannata con sentenza passata in giudicato per avere utilizzato carne d’importazione olandese. Sono esempi eloquenti dei movimenti in corso che lasciano pensare come la Lega, trionfante in regione alle elezioni europee, in questa tornata abbia solo fatto un passo indietro per farne due in avanti a breve. Salvini ha imposto la candidata presidente, debolissima, per consolidare durante questo governo il proprio posizionamento nei reali e spesso ufficiosi assetti di potere regionale.
2-A questa prospettiva terrificante si associa la seconda domanda. Le sardine calabresi, quelle nazionali e lo stesso Domenico Lucano hanno rivendicato il risultato elettorale a Riace come una sconfitta della Lega dovuta alla resistenza di questa enclave della sinistra possibile. A uno sguardo neanche troppo approfondito, i numeri non danno alcuna ragione a questi proclami e, per quanto con percentuali inferiori che altrove, resta un fatto che il centro-destra e con esso la Lega hanno vinto anche a Riace dopo aver vinto, clamorosamente, alle ultime elezioni municipali. Si sa che l’ex sindaco non ha appoggiato Callipo e i suoi voti sono andati a Tansi. Per cui il dato conferma un peso elettorale di Lucano nel paese attestato al venti per cento. Un dato che dovrebbe confermare una crisi piuttosto che suggerire proclami trionfalistici.
Possiamo pure pensare che le dichiarazioni post-voto siano la norma di una comunicazione politica che cerca comunque di giocare delle tattiche, ma la domanda che si impone è: quale la strategia in cui questa tattica si colloca? E soprattutto: che fondamento ha questa strategia?
Facendo un salto indietro… La ripetuta elezione di Mimmo Lucano a sindaco del suo paese, nella Locride, fu un evento non banalizzabile né liquidabile, anche quando non si voglia cedere alle mitologie. I paesani di Riace sapevano bene chi fosse Lucano. Non era un improvvisato della politica, aveva alle spalle una lunga storia di militanza nel suo territorio, come pure i progetti di accoglienza combinati col recupero del vecchio borgo erano una pratica viva da molto prima dell’elezione, attraverso l’associazione Città Futura da lui fondata. Se Lucano dunque è diventato sindaco è perché è riuscito a convogliare le aspettative dei paesani nei suoi progetti di solidarietà multietnica e la sua idea di paese aperto. È riuscito a comunicare loro un’idea di futuro possibile per la comunità paesana.
Se questo è vero, non può però essere meno vero il fatto che questo sostegno della cittadinanza è venuto clamorosamente meno. Né si può leggere la vicenda nella chiave della nave che affonda abbandonata dall’equipaggio. Eleggere Lucano ha significato una rottura con l’abito clientelare che più sopra abbiamo provato a restituire, ha voluto dire investire in un progetto di libertà. Riace è famosa per l’accoglienza, ma tanto sulla gestione delle risorse idriche quanto sulla gestione dello smaltimento rifiuti l’amministrazione ha fatto scelte “rivoluzionarie” nel segno dell’autonomia e della riappropriazione delle risorse locali contro il malaffare ‘ndranghetistico. Se dunque è venuto meno il sostegno a un progetto che tanto coraggio collettivo aveva provocato, il dato è che, a torto o a ragione, i paesani che lo hanno sostenuto hanno vissuto una delusione, hanno pensato che il progetto non ha soddisfatto le aspettative, non ha risposto alle domande di cui si è fatto carico. E non è ammissibile che quanti sono avvezzi al turismo politico nel paesello stigmatizzino queste persone senza prima almeno aver considerato come, quanto e in che direzione sono variati in questi anni gli indicatori sulle condizioni di vita reali della popolazione – occupazione ed emigrazione sugli altri.
La mia ipotesi è che man mano che l’esperienza di Riace diventava oggetto di investimento politico e simbolico da parte di istanze esogene alla comunità, sia maturato uno scollamento tra il percorso amministrativo e la comunità medesima. Anzi, per dirla tutta, io credo che Riace sia stata oggetto di un investimento politico e simbolico speculativo in tutto simile a quelli della finanza internazionale e che a un certo punto si sia prodotta una bolla. Per la parte istituzionale o partitica, ben due presidenti della Regione in quota Pd hanno investito pesantemente su Riace, Loiero e Oliverio, il primo in particolare riuscendo ad agganciare Wim Wenders per costruire la base di una narrazione rivelatasi potente quanto fumosa e illusoria. In generale, tutta una sinistra nazionale in crollo di credibilità, investita dal diluvio populista nel segno dell’ascesa dei Cinquestelle (oggi evoluta in tonfo rovinoso) ha trovato in Riace l’arca su cui imbarcarsi, pompando l’esperienza di significati che non le erano propri e di istanze che non le corrispondevano. In ultimo, un movimento dei movimenti disorientati ha stabilito in Riace un punto fermo al di là di ogni principio di realtà. Riace è stata dunque letteralmente invasa, simbolicamente e fisicamente; il titolo è volato nella borsa politica, attraendo sempre nuovi investimenti. A un certo punto trader avversari hanno cercato di attaccarlo, ottenendo per risposta nuovi investimenti e un’ulteriore crescita del valore sul mercato politico della sinistra a buon mercato.
È a quel punto, nel picco, quando un ministro dell’interno faceva dell’attacco giudiziario a Mimmo Lucano una questione personale e per risposta un’alluvione di solidarietà disordinata e irriflessiva si riversava per le vie del paese, la bolla è esplosa. Di solito le bolle esplodono quando il valore fittizio, diciamo così nominale, crolla come un grattacelo che poggia su una palafitta, il valore reale, perché gli investitori/creditori fuggono, si produce l’insolvenza degli istituti di credito e i cittadini non trovano più i soldi sul conto bancario. In questo caso è successo l’opposto: i cittadini sono andati a chiedere il conto e l’amministrazione si è trovata scoperta, perché tutte le risorse politiche erano stati investite nella giostra spettacolare internazionale. A quel punto il crollo. Un crollo rovinoso per il paese, i suoi abitanti, le persone accolte, e al contempo una manna per i narratori politici di professione, che, al di là dei costi reali pagati sul terreno da queste persone e da Lucano medesimo, sul rilancio di questa mitologia hanno continuato a investire carriere personali come capitalizzazioni politiche delle organizzazioni d’appartenenza. Le anime belle della sinistra hanno agito, inconsapevolmente e con le migliori intenzioni, come i neocolonialisti della speculazione finanziaria. Quello che resterà dopo la gita saranno bei ricordi per loro, le macerie per gli abitanti di Riace, immigrati compresi. L’elefantiaca rappresentazione morta prodotta dal processo d’accumulo feticistico spettacolare ha sottomesso la realtà effettuale impoverendola, alienandola… in ultima istanza negandola. L’occasione a questo scritto sono state le dichiarazioni delle sardine calabresi, delle sardine nazionali e di Lucano stesso sulla sconfitta della Lega a Riace quale conferma, insieme alla vittoria emiliana, delle possibilità di questa nuova sinistra che si trova nelle piazze dandosi appuntamento su Facebook. Una nuova bolla comincia a gonfiarsi, ma i paesani sono ormai accorti e a Riace sono tornati a fare come a Rosarno… a cercare il cavallo giusto su cui puntare. Per conto mio confido su esperienze simili e tuttavia sconosciute, come quella di un paesello dell’entroterra pedemontano della piana di Gioia Tauro, Cinquefrondi, governato da una giunta popolare trasversale a guida comunista che non lesina battaglie anche a fianco dei braccianti residenti nella tendopoli di San Ferdinando. Penso a loro, sperando che non diventino mai famosi e continuino a nutrire quella prospettiva delineata da Nicola Zitara quasi cinquant’anni fa: “La nascita della democrazia è legata, nel Mezzogiorno, a una battaglia da combattere attorno ai problemi reali del paese meridionale; in sostanza allo sviluppo di una lotta di classe. Solo questo può indirizzare le masse al recupero della democrazia e al superamento del rapporto clientelare, attraverso il quale la classe media esercita la direzione politica – a nome e per conto della – classe dirigente italiana e lo stato gestore dei suoi interessi” (Il Mezzogiorno e le sue classi – il proletariato esterno, Jaka Book, Milano, 2018). (arturo lavorato)
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