Quello che segue è un estratto dell’articolo Appunti da un viaggio in Calabria, scritto da Luigi Romano e Riccardo Rosa e pubblicato sul numero 7 de Lo stato delle città.
L’articolo è qui integrato con un testo scritto insieme a un gruppo di studenti calabresi, che racconta la situazione dell’università di Cosenza e in particolar modo le problematiche legate alle restrizioni pandemiche e alla vita degli studenti nel campus universitario della città.
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Mettiamo per la prima volta piede nel centro storico di Cosenza nelle ultime ore di una torrida mattina di fine giugno. […] Al bar aspettiamo Sandra, il nostro primo contatto sul territorio. Poche persone davanti a noi, nessun turista, un cameriere di mezza età che ci porta il caffè con calma, mentre il Busento scorre apatico a protezione della tomba di re Alarico, che nel fiume si narra fu sepolto insieme al tesoro frutto del sacco di Roma.
Sui giornali locali si racconta dei crolli degli edifici in Città Vecchia, l’ultimo dei quali in vico San Tommaso, nel quartiere Santa Lucia, dove il solaio del terzo piano di un palazzo è venuto giù, fortunatamente senza far vittime. Il palazzo, pericolante da anni, era stato già evacuato in precedenza, ma alcune famiglie che abitano nel vicolo sono state allontanate per precauzione e sono in attesa di una sistemazione. «La città si è disinteressata da un paio di decenni almeno ai destini del suo centro storico», racconta Sandra Berardi, attivista del comitato Piazza Piccola e impegnata con l’associazione Yairaiha nella tutela dei diritti dei detenuti. «L’abbandono è totale, e a parte un po’ di borghesia residente o professionisti con interessi particolari, non ci sono spinte per un recupero strutturale della Città Vecchia. Un dibattito esiste all’interno dell’università, anche se troppo distante dalle cose reali. In tempi di campagna elettorale le promesse sono vaghe, concentrate esclusivamente sulla gestione dei finanziamenti in arrivo e di tanto in tanto su quella che qualche candidato ha definito “rigenerazione antropologica”. Cacciare i poveri, per fare non si sa bene cosa».
CENTRO STORICO, SPOPOLAMENTO, OCCUPAZIONI
Fino al 1981, in Città Vecchia c’erano ventimila abitanti. Nel 2011 erano dimezzati e oggi sono poco più di tremila, anche se a questa stima vanno aggiunti i migranti senza documenti e i rom, che il Comune non si è mai preoccupato di censire. Per loro, negli ultimi dieci anni, le istituzioni non hanno saputo proporre che sgomberi, tendopoli e ghettizzazioni, finché un gruppo abbastanza nutrito si è “rifugiato” nelle case più disastrate del centro storico, dove vivono cercando di non dar troppo nell’occhio, pagando affitti in nero a persone che talvolta non sono nemmeno proprietarie delle case.
A partire dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento, con lo sviluppo dei nuovi quartieri nord, il centro storico di Cosenza ha subito un processo di periferizzazione, passato per lo smantellamento dei servizi e la perdita delle principali funzioni urbane. Spopolamento, abbandono, povertà e crolli sono stati una conseguenza. «La grossa spinta – spiega Mariafrancesca D’Agostino, docente di sociologia all’Università della Calabria – è arrivata dagli interessi speculativi dei proprietari di suoli a nord del nucleo storico, che hanno caldeggiato la formulazione di programmi di edificazione e si sono spostati nella parte nuova della città. In pochi anni la “Cosenza bene” ha abbandonato la Città Vecchia, causando la progressiva scomparsa delle funzioni urbane centrali dei quartieri storici e il conseguente definitivo spopolamento». La crescita e l’edificazione selvaggia nei comuni limitrofi e nei quartieri a nord del centro storico sono state rese possibili da un vuoto di regolamentazione che ha generato un’espansione senza controllo, iniziata nella metà degli anni Cinquanta e durata oltre quindici anni: al piano urbanistico del 1912 era seguito un secondo piano, elaborato nel 1935, ma questo non fu mai approvato e mai entrò in vigore. Proprietari terrieri e costruttori, nel frattempo, ottennero agevolazioni da parte di amministrazioni comunali ed enti pubblici compiacenti, e costruirono in maniera incontrollata, riuscendo a impedire la promulgazione di un nuovo piano regolatore fino al 1972.
Perdersi tra i vicoli della Città Vecchia di Cosenza è a tratti un’esperienza onirica, il galleggiamento in un tempo immobile e indefinito tra passato e presente. I palazzi tufacei raccontano storie vecchie secoli, motorini semidistrutti e arrugginiti fungono da archeologia industriale al dettaglio, ragazzini giocano per strada mentre qualche cane randagio passeggia nel silenzio dovuto non alla controra estiva, ma alla bassissima densità di popolazione. All’altezza di via Casini un uomo rientra a casa lasciando ai piedi della palazzina una grossa cesta di limoni, a pochi metri da un cumulo di elettrodomestici abbandonati, mai ritirati dall’azienda per lo smaltimento dei rifiuti, e sotto a una enorme pittura murale di un artista napoletano risalente a più di dieci anni fa. «Negli ultimi vent’anni la Città Vecchia è stata estranea ai tentativi di speculazione comuni ad altri centri storici delle città meridionali», racconta Sandra Berardi. «Per la pigrizia della classe dirigente, ma ancor di più perché non ci sono infrastrutture e quindi non c’è sviluppo. Il vecchio centro della città è abbandonato a sé stesso, un corpo estraneo, qualcosa con cui la “Cosenza che decide” ha regolato i conti».
Negli anni Novanta, Cosenza partecipò alla stagione dei “nuovi sindaci”, con la doppia elezione (1993 e 1997) di Giacomo Mancini, appoggiato da ampie fasce di borghesia cittadina, ex PCI e socialisti. La politica urbanistica di Mancini aveva come perno il recupero del centro storico, dei suoi valori, delle sue funzioni e della sua classe dirigente, simbolicamente sostenuta dal ritorno dello stesso sindaco in un’abitazione nel cuore antico della città. Una delle prime iniziative della giunta Mancini fu l’assegnazione di risorse, sotto forma di contributi, per chi volesse acquistare o ristrutturare case ed edifici nel centro storico, risorse spinte finanziariamente dalla partecipazione della città ai progetti Urban. In pochi anni la Città Vecchia fu protagonista di un fenomeno di ripresa della vita culturale, ma anche, e soprattutto, della nascita di attività di svago e ristorazione serali e notturne, principalmente lungo l’asse viario maggiore, quello di corso Telesio. Proprio la disomogeneità nella geografia degli interventi, l’inefficacia del tentativo di portare in Città Vecchia nuovi residenti (dovuta anche alla ulteriore nuova espansione edilizia a nord, caldeggiata dalle stesse giunte Mancini), la precarietà del modello di sviluppo proposto – che non riuscì neppure a creare un indotto, per esempio turistico –, la progressiva interruzione dei finanziamenti per le ristrutturazioni e quella, brusca, del Contratto di quartiere nella zona Santa Lucia, furono solo alcuni dei fattori che causarono l’implosione del modello promosso da Mancini, a cui seguirono gli interventi “normalizzatori” delle giunte di centro-sinistra, a partire dal 2002. «Le giunte Mancini si sono caratterizzate per il dialogo con i movimenti – spiega Berardi – anzi il sindaco cercò fin dall’inizio, spesso con successo, di mettere sotto la propria ala protettrice le organizzazioni che operavano a sinistra dei partiti. Attraverso il sistema delle cooperative di tipo B, che dava lavoro a tante persone, si crearono dei veri e propri pacchetti di consenso e di voti, e quest’operazione diminuì il livello di conflittualità, senza però azzerarlo del tutto. Negli anni successivi, con i governi di centro-sinistra, l’impostazione è stata quasi esclusivamente repressiva, ma tante esperienze erano state irrimediabilmente depotenziate».
In termini di sviluppo della città, imponenti progetti urbanistici e grandi opere, l’impronta del “modello Mancini” fu talmente affascinante da trovare nuova linfa persino nelle politiche di quella giunta di centro-destra che per dieci anni, a partire dal 2011, ha governato la città, guidata da Mario Occhiuto, fratello del neo eletto governatore della Calabria. «Il primo mandato di Occhiuto – spiega Stefano, attivista del comitato Piazza Piccola e di Prendocasa Cosenza – ha visto una ripresa delle proposte sui “grandi interventi” pianificati e spesso non portati a termine da Mancini: il Planetario, il ponte di Calatrava, la Metro Leggera. Certo, la destra si è spinta oltre, e altri interventi, come il rifacimento di piazza Biliotti, attualmente sotto sequestro, o il Parco Benessere, sono finiti all’attenzione della magistratura: nel caso di piazza Biliotti, per esempio, c’è un’indagine che coinvolge i più noti clan della zona e parti di primo piano dell’ex amministrazione Occhiuto». In questo contesto, il tema del rilancio del centro storico è uscito dall’agenda politica, decretando definitivamente il distacco tra la classe dirigente cosentina, il tessuto economico-produttivo della città e il suo vecchio centro.
Il comitato Piazza Piccola è uno dei più combattivi tra i collettivi e le associazioni che operano in Città Vecchia, sicuramente il più indipendente dalla politica dei partiti. Nato nel 2015, per iniziativa di alcuni abitanti del quartiere, a cominciare dalla combattiva signora Brunella, a fine luglio ha organizzato una passeggiata nel centro storico, il “Sesto senso di marcia”, che ha provocatoriamente ripreso il nome e sovvertito l’impostazione di una campagna attraverso la quale l’amministrazione comunale cerca di dare un’immagine positiva della Città Vecchia, portando in giro i pochi turisti e qualche abitante più sensibile al tema, esplorando però soltanto la parte più “gradevole” del centro storico. «L’amministrazione comunale – per ovvi motivi di immagine e di consenso – ma anche molti cosentini, credono che la soluzione ai problemi del centro storico sia mostrare una Cosenza Vecchia che in realtà non esiste. Si devono far vedere le cose belle, da cartolina, mentre il degrado e l’abbandono tutt’intorno vanno nascosti. Una narrazione paradossale, perché mentre i turisti passeggiano per le strade principali, il disastro dei vicoli adiacenti si vede benissimo. L’unico effetto concreto è quello di acuire ulteriormente le problematiche, ignorandole», continua Stefano. La passeggiata del “Sesto senso di marcia” è finita con un gruppo di persone che raccoglievano le macerie dei palazzi crollati e le portavano in città, lasciandole sotto le sedi della Provincia, della Sovrintendenza, del Comune e della Prefettura.
La lotta per il risanamento del centro storico si intreccia a diversi livelli con quella per la casa, e con il fenomeno delle occupazioni delle tantissime case vuote, che ha raggiunto la sua massima spinta all’inizio del secondo decennio dei Duemila. Nel 1981, la percentuale di case vuote del centro storico si attestava intorno al 7%; in vent’anni (fonte: Censimento Istat 2011), il numero ha raggiunto il 24%, anche in relazione al calo demografico che interessa tutta l’area. Ben il 6% delle 5272 abitazioni totali è inutilizzato e inoccupabile (dato da: Libro bianco su Cosenza Vecchia, 2016), perché situato in immobili cadenti, in rovina, o murati per ragioni di sicurezza.
Il primo rilevante fenomeno di occupazioni organizzate in Città Vecchia risale al 2007, sulla spinta di un gruppo di militanti del comitato Prendocasa; nel 2013 avviene l’occupazione della scuola di Porta Piana, dove ancora oggi risiedono cosentini insieme a marocchini e migranti del centro Africa, molti dei quali erano a Cosenza già dalla metà degli anni Ottanta. Oggi, gli occupanti totali delle abitazioni del centro sono almeno duecento, per lo più ignorati dalle istituzioni, incapaci di connettere il fenomeno a qualsiasi tentativo politico di recupero e ripopolamento della Città Vecchia. «Nel 2013 – conclude Stefano – era stata annunciata una sanatoria regionale per tutti gli occupanti, ma i bandi non sono mai stati aperti. Dal 2014 il decreto Lupi ha dato un duro colpo al processo, perché a chi occupa viene negato anche il diritto di residenza. Per un periodo gli occupanti venivano registrati in una residenza fittizia in “Via dell’accoglienza”, ma da qualche tempo anagrafe e questura centrale non sono più disponibili a questa soluzione».
IL CAMPUS UNIVERSITARIO
Tra i movimenti attivi a Cosenza c’è un collettivo universitario, il Progetto Azadì, che prova a connettere le lotte degli studenti con il tema del risanamento del centro storico. L’obiettivo è ambizioso, perché la vita universitaria è circoscritta per lo più al campus di Rende, comune a nord-est di Cosenza di soli trentacinquemila abitanti, reso centro nevralgico dall’espansione edilizia e dall’edificazione, negli anni Settanta, della sede più importante dell’Università della Calabria. «Creare un ponte tra la Città Vecchia e l’università è difficile, anche se a nostro avviso sarebbe fondamentale», racconta Francesco, studente di storia e filosofia e attivista dell’Aula Studio Liberata. «La maggior parte degli studenti che frequenta il campus viene da altre città, e non trova motivi validi per frequentare il centro storico, tanto più per come è strutturata la vita oggi all’interno di un’università in Italia, regolata da parametri di esclusiva produttività».
Il tema della vita pubblica all’interno dello spazio urbano e dei “vuoti” è vissuto anche nell’enorme campus di Rende, che durante l’ultimo anno e mezzo si è spopolato a causa della pandemia, assumendo a tratti fattezze spettrali. «Anche in tempi di normalità – continua Francesco – esiste un problema di spazi abbandonati, e con il collettivo cerchiamo di portare avanti un discorso di ripresa di possesso di questi spazi, o di spingere l’università a utilizzarli in ottica non solo didattica». In questi anni di emergenza pandemica, l’Aula studio liberata e il Progetto Azadì, hanno provato a garantire l’apertura di uno spazio di socialità, confronto e discussione. «I nostri spazi sono sempre aperti e vengono rispettate tutte le misure per evitare il diffondersi del contagio, che non sono certamente la scansione di un Qr code, o l’esibizione di “pass” di vario genere, quanto la cura e l’attenzione al benessere di tutti e tutte. Ci è capitato di “autogestire” casi di contagio, a cui abbiamo risposto avvisando le persone che erano state in aula, sanificando gli spazi e – grazie anche all’organizzazione delle reti cittadine – effettuando più volte i tamponi».
Dal canto suo l’Unical sembra recepire e applicare in maniera pedissequa le direttive nazionali sull’accessibilità agli spazi universitari, ponendo limitazioni, con il pretesto della pandemia, che diventano sempre più stringenti per gli studenti. «Intanto – raccontano questi ultimi – nulla è cambiato per quanto riguarda la vivibilità e l’accessibilità degli alloggi, che versano spesso in condizioni pessime e altrettanto spesso vengono assegnati con ritardi tali che impediscono agli studenti fuori sede di trovare una sistemazione e partecipare alle lezioni in presenza». Nessun intervento è stato studiato insieme alle amministrazioni cittadine di Rende e Cosenza per incidere sul sistema di trasporti, aumentare i servizi, abbassare il costo e migliorarne l’efficienza. Non è stato pensato, e non è stata fatta nessuna pressione sulla Regione Calabria per ottenerlo, alcun sussidio per l’acquisto di strumenti digitali e materiali didattici mentre, viste le limitazioni all’accessibilità degli spazi, anche andare in biblioteca è diventato un calvario, tra scansioni di Qr code, orari stringenti e mancanza di materiali. «Chiusure senza alternative, esattamente come è avvenuto in altri ambiti nel resto del paese», chiosano gli studenti con amarezza.
Per cogliere meglio le dimensioni e l’importanza del campus all’interno della vita cittadina, può essere utile considerare il fatto che dei circa centoventimila abitanti che Cosenza e Rende contano, almeno ventimila sono studenti iscritti all’università, tra cosentini e fuorisede, e quasi quindicimila vivono nel campus. La quasi totale assenza di spazi sociali, aule studio e aree per l’aggregazione o la vita extra-didattica degli studenti, diventa così un elemento di conflittualità tra il rettorato e il collettivo. «In una prima fase – spiega Giancarlo, studente di cooperazione e sviluppo – cercavamo di fare vertenze con l’università, partecipavamo ai cda, ai senati accademici, dicevamo la nostra su eventi come la passerella della “Notte dei ricercatori”. Ma le cose migliori le abbiamo fatte da quando abbiamo avuto una impostazione più conflittuale: nel maggio del 2017 abbiamo occupato il Cubo 18C con lo slogan “Liberiamo spazi e tempi”. Da quel momento l’università si rifiuta di considerarci come interlocutore, anche perché ha dei referenti privilegiati nelle associazioni studentesche». In un’università così grande, infatti, non ci sono soltanto il collettivo Azadì e l’Aula Studio Liberata, ma anche una serie di associazioni i cui studenti sono vicini o interni ai partiti (dal Pd a Fratelli d’Italia) e che a seconda degli equilibri politici hanno un atteggiamento più o meno accondiscendente con le istituzioni universitarie. Gli studenti dell’Aula Studio spiegano come l’UniCal sia in realtà una fucina politica, e come le associazioni si sviluppino attorno a personalità universitarie in stretto rapporto con i politici locali. «RDU, per esempio, Rinnovamento Democratico Universitario, fa capo a Fausto Orsomarso, ex Forza Italia e poi Fratelli d’Italia, uomo da otto-diecimila preferenze a ogni elezione, ex assessore e amico personale di Giuseppe Scopelliti, il distruttore della sanità pubblica calabra». Un’altra delle associazioni, Alfa (che ha riferimenti tanto tra i Giovani Democratici che nei neofascisti ex Blocco Studentesco), durante la pandemia è stata duramente contestata dal collettivo, per una convenzione grazie alla quale chi si tesserava con l’associazione aveva diritto a un tampone scontato di quasi il 50% (in un momento in cui scarseggiavano persino guanti e mascherine), in una clinica privata gestita dalla famiglia Greco, tra i ras della sanità privata calabrese.
La forza dei gruppi vicini ai partiti è la capacità con cui questi si sostituiscono al processo di fornitura dei servizi che l’università porta avanti in maniera sempre più blanda, lasciando campo libero alle associazioni, che in questo modo acquisiscono consensi e (per quelle che prendono più voti) finanziamenti. «Quando arrivi all’università trovi i gruppetti di ragazzi in giacca che ti offrono il caffè – spiega Francesco – reindirizzandoti nelle varie strutture universitarie e sostituendosi alle segreterie dell’UniCal. In questo modo hanno un controllo della platea in ingresso, cercano di fare proselitismo politico, ma soprattutto iscrizioni».
«Questo avviene perché – chiudono gli studenti – così come si evince anche dalle notizie che arrivano rispetto all’utilizzo dei fondi PNRR, l’istruzione pubblica continua a raccogliere le briciole in termini di finanziamenti. I fondi per le università verranno ripartiti nei prossimi mesi individuando cinque “campioni nazionali” tra gli atenei, ai quali verrà destinata la gran parte delle risorse disponibili per l’università e la ricerca. Una logica oligarchica che premia gli atenei e i territori più ricchi parallela a quella utilizzata dalle università che non si fanno scrupoli a lasciar indietro tutti quelli che non tengono il passo, con il criterio del merito che continua a essere il parametro principale per l’assegnazione delle borse di studio».
FLUSSI DI DENARO PUBBLICO
A dispetto di una gestione politica e amministrativa da piccola realtà di provincia, Cosenza sarà interessata nei prossimi mesi da una importante quantità di flussi di denaro pubblico. Ci sono i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza; quelli di alcune opere pubbliche cancellate, come la Metro Leggera, le cui destinazioni vanno ripensate e “ristrutturate”, per evitare che i fondi vadano perduti; e soprattutto ci sono i novanta milioni di euro del Contratto Istituzionale di Sviluppo, che il governo, in particolare nella persona del sottosegretario Cinque Stelle Annalaura Orrico, ha consegnato nelle mani di Invitalia, pur di evitare che la loro gestione fosse a capo del sindaco Occhiuto. «Era molto tempo – spiegano gli attivisti di Piazza Piccola – che un quantitativo così importante di fondi pubblici non arrivava in città, più o meno dagli ultimi fondi Urban, utilizzati solo in una prima fase per interventi come le agevolazioni sui mutui e le ristrutturazioni dei palazzi della Città Vecchia, ma poi per lo più per interventi come il rifacimento del corso Telesio, la costruzione delle scale mobili, o la ristrutturazione della rete fognaria».
I novanta milioni del CIS hanno preso la via di Cosenza in seconda battuta, a seguito di una vertenza portata avanti dai comitati del centro storico con il ministro Franceschini, dopo che i finanziamenti erano stati inizialmente destinati a Matera. I fondi, però, sono destinati a interventi sulle proprietà pubbliche e di conseguenza taglierebbero fuori, ancora una volta, qualsiasi possibilità di rimessa in valore degli edifici privati abbandonati, che secondo una stima del comitato Piazza Piccola costituirebbero circa il quaranta per cento del totale. Eppure, le proposte non sono mancate: dall’impulso alla creazione di imprese sociali da insediare in Città Vecchia fino al collocamento dei beni privati in processi di pubblica utilità, o all’investimento dei fondi regionali sul sociale per l’acquisto degli edifici privati, su cui poi far intervenire i finanziamenti del Contratto di sviluppo. «Le proposte che abbiamo fatto nel marzo 2020 – spiega ancora Stefano – sono state ignorate, ma successivamente abbiamo scoperto che a essere finanziate sono state in buona parte opere che erano già destinatarie di altri fondi (come Agenda Urbana). È il caso degli interventi sul dissesto idrogeologico, che aveva già sei milioni di euro attualmente fermi; della Biblioteca Nazionale, già utilizzata per la creazione di clientele; e poi la statalizzazione della Biblioteca Civica (la cui riqualificazione era già stata finanziata da Agenda Urbana con quattrocentomila euro), il recupero della Villa Comunale, i fondi per il Centro Studi Telesiani, Brunelliani e Campanelliani, un baraccone che consuma centotrentamila euro per una manciata di attività all’anno. All’origine c’è certamente un processo speculativo, e il tentativo di favorire i soliti amici, ma allo stesso tempo anche la mancanza di idee, di una visione complessiva e di un progetto futuro, in particolare sul centro storico, destinato a morire sotto i colpi dell’abbanndono».
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