Uno studente diciottenne protesta contro l’uso della mascherina in classe e si incatena al banco. La preside ritiene di dover chiedere addirittura l’intervento della polizia, che lo conduce al pronto soccorso di Pesaro, pare per effettuare un tampone, e lì viene disposto un un trattamento sanitario obbligatorio, il sindaco firma l’ordinanza affermando poi che, a fronte della richiesta dei sanitari, non poteva fare diversamente. Il ragazzo è ricoverato per diversi giorni nel reparto psichiatrico ospedaliero, dove anche una telefonata è contingentata. Accade a Fano in questi giorni. Non è la prima volta, nel corso di questo lungo periodo di restrizioni che la psichiatria torna con evidenza a svolgere un ruolo prettamente securitario, con il trattamento sanitario obbligatorio trasformato in mero strumento di ordine pubblico.
Esattamente un anno fa, è salito agli onori della cronaca il trattamento sanitario obbligatorio praticato a un giovane di Ravanusa, in Sicilia, bloccato per strada e portato nel reparto psichiatrico ospedaliero perché contestava con un megafono l’esistenza della pandemia (ne abbiamo parlato in questo articolo riflettendo sul più complessivo rischio di psichiatrizzare le conseguenze del Covid).
A distanza di dodici mesi, l’episodio di Fano ripropone un nodo centrale della disciplina e della prassi psichiatriche, mettendo in evidenza, ancora una volta, un uso banalizzato, distorto e repressivo di uno strumento particolarmente complesso. Il Tso, infatti, interviene su diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, la libertà personale e il diritto alla cura, determinando un’eccezione al principio di volontarietà che trova il suo ancoraggio costituzionale nell’art. 32 ma pone in tensione le previsioni dell’art. 13. Vale la pena ricordare, infatti, che la legge 180 e poi la legge 833 hanno normato nello specifico ambito psichiatrico una previsione introdotta, nei sui termini generali e astratti, dai costituenti nel 1948.
È un giovane Aldo Moro a proporre l’emendamento che porterà alla definizione della previsione costituzionale contenuta nel secondo comma dell’art. 32, ed è importante sottolineare come quella formulazione, pure molto dibattuta nella Costituente, sia strettamente legata a quanto determinatosi con i totalitarismi. Come si legge nel verbale della Commissione dei 75 del 28 gennaio 1947 per Moro “si tratta di un problema di libertà individuale che non può non essere garantito dalla Costituzione, quello cioè di affermare che non possono essere imposte obbligatoriamente ai cittadini pratiche sanitarie se non vi sia una disposizione legislativa, impedendo, per conseguenza, che disposizioni del genere possano essere prese dalle autorità senza l’intervento della legge […]. Non soltanto ci si riferisce alla legge per determinare che i cittadini non possano essere assoggettati altrimenti a pratiche sanitarie, ma si pone anche un limite al legislatore, impedendo pratiche sanitarie lesive della dignità umana. Si tratta prevalentemente del problema della sterilizzazione e di altri problemi accessori. L’esperienza storica recente dimostra l’opportunità che nella Costituzione italiana sia sancito un simile principio”.
Recependo l’elaborazione del gruppo dei medici, quindi, Moro presenta all’Assemblea una proposta che, secondo la sua stessa ricostruzione, nasce guardando alle recenti tragedie e, particolarmente, ai programmi eugenetici del Terzo Reich. Qualsiasi trattamento sanitario obbligatorio dovrà quindi essere disposto attraverso una disposizione normativa, e in ogni caso la pratica sanitaria non potrà mai essere lesiva della dignità umana. Alla fine di un lungo dibattito, giunti all’approvazione del testo, il 22 dicembre 1947, l’art. 32 della Costituzione sancisce che: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
La riforma psichiatrica italiana, in prima battuta, viene definita, negli anni Settanta, all’interno del più complessivo iter normativo per l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, e in quasi tutte le proposte di legge presentate dalle forze politiche si prevede il superamento gli istituti asilari. Sull’ipotesi dei trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale, invece, si registrano profonde divisioni: in parlamento, Democrazia proletaria, con Massimo Gorla, parla esplicitamente di “fermo di malattia”, critica rilanciata sugli organi di stampa anche da Psichiatria democratica, con Basaglia e Pirella in prima linea. A difesa delle previsioni di riforma si schiera, insieme alle forze di governo, innanzitutto la Dc, anche il Partito comunista. Poi, soprattutto, al fine di evitare il referendum di abrogazione della Legge psichiatrica del 1904 promosso dai Radicali di Pannella, considerato da molti rischioso, si giunge allo stralcio degli articoli dedicati alla psichiatria dalla proposta sul Servizio sanitario, e alla formulazione, con l’appoggio di Psichiatria democratica, Società italiana di Psichiatria e Associazione medici ospedali psichiatrici, dell’autonomo Disegno di legge governativo “Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori”, presentato durante il quarto governo Andreotti, nel pieno della crisi determinata dal rapimento di Aldo Moro. Per accelerarne i tempi di approvazione ed evitare il “rischio referendario” viene discusso e infine approvato, senza passaggi in aula, nelle competenti commissioni parlamentari riunite in sede legislativa.
Nasce così, il 13 maggio 1978, la legge 180 che, per la prima volta al mondo, determina il superamento dei manicomi e del ricovero coatto, introducendo, come misura di compromesso, il trattamento sanitario obbligatorio negli interventi psichiatrici. Va sottolineato come, secondo le previsioni normative, il Tso dovrebbe rappresentare una extrema ratio, posto in essere se e solo quando la fase di acuzie della sofferenza psichica necessiti un intervento indifferibile (per un rischio attuale della salute propria o di terzi), dopo che si siano comunque realizzati tutti i tentativi possibili per addivenire al consenso della persona, sempre salvaguardandone i diritti fondamentali e la dignità. D’altro canto, il diritto alla scelta del medico e del luogo di cura, il diritto di comunicare con chi si ritenga opportuno, la sollecitazione a “iniziative volte ad assicurare il consenso e la partecipazione di chi è obbligato”, la disposizione di Tso emanata dal sindaco in qualità di autorità sanitaria locale (su proposta medica motivata), la definizione di una durata certa (seppure revocabile o prorogabile) del ricovero obbligatorio (sette giorni), e, soprattutto, il fatto che i Tso “sono attuati dai presidi pubblici territoriali e, ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate” (determinando quindi la scomparsa degli istituti asilari da questo orizzonte terapeutico), tutte queste previsioni contenute nella nuova normativa, segnano la distanza dalla legge del 1904, indicando la volontà del legislatore di superare, almeno formalmente, qualsiasi richiamo alla pericolosità sociale, riportando la disciplina in ambito esclusivamente sanitario e all’interno delle tutele costituzionali.
Le limitate condizioni per le quali può essere effettuato un Tso in condizioni di degenza ospedaliera devono essere quindi intese come garanzie formali di tutela del sofferente psichico, e dovrebbero essere assicurate dal giudice tutelare che può convalidare o meno l’ordinanza emessa dal sindaco.
Al di là delle questioni giuridiche, che nel corso degli anni hanno portato alcuni autori finanche a mettere in dubbio la legittimità costituzionale della previsione normativa inerente i Tso (senza che però si sia giunti a pronunciamenti in tal senso della Corte Costituzionale), appare evidente come, nella pratica, si assista a uno scadimento teorico e procedurale delle diverse forme di garanzia, generando la possibilità nonché la reiterazione di abusi.
Si realizza una “burocratizzazione della prassi” che si concretizza nella banalizzazione routinaria di prestampati da compilare, in Tso attivati finanche senza visita per persone già note ai servizi psichiatrici (il cosiddetto effetto delle porte girevoli di una “cronicità morbida” determinata dagli stessi servizi post-manicomiali), all’utilizzo dello stesso Tso come “minaccia” per costringere l’utente all’assunzione di farmaci e alle visite ambulatoriali. Come dimostrano le parole del sindaco di Fano, poi, il rischio di burocratizzazione è proprio anche dell’ordinanza emessa dal sindaco, il quale, quasi sempre, anche lui ricorre a moduli prestampati, se non addirittura già firmati, e quasi mai è pronto a pronunciarsi contro una richiesta firmata da due medici. Analogo ragionamento vale per l’azione svolta dal giudice tutelare. Ancora, estremamente problematico è l’intervento delle forze dell’ordine, la cui formazione su questi temi resta assolutamente carente se non del tutto assente, soprattutto a fronte della stretta securitaria che ha portato molte polizie locali a dotarsi addirittura di scudi respingenti e taser.
Il trattamento sanitario obbligatorio, anche a fronte di quanto sancito dalla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, e al più complessivo e complesso tema del consenso in psichiatria, resta un dispositivo ambiguo. Per fronteggiare le sue criticità strutturali sarebbe necessario un utilizzo quantomeno accorto, ricorrendovi in modo del tutto eccezionale, provando sempre a fronteggiare diversamente le situazioni di crisi e, soprattutto, a prevenirle. Per far questo servirebbe una salute mentale di comunità, con una rete capillare di centri aperti notte e giorno, sette giorni alla settimana, capaci di ospitare anche i casi di acuzie senza ricorrere al ricovero ospedaliero, dotati di équipe multidisciplinari e, soprattutto, di una cultura che non si limiti all’obiettivo del silenziamento farmacologico del sintomo, che rifugga, anche per i più giovani, quello che Michele Zappella ha chiamato “il fascino (in)discreto di un’etichetta”; eviti il contenimento meccanico e ambientale, trovi soluzioni diverse dalle nuove forme di internamento, sia capace di farsi carico della sofferenza della persona fragile, nella sua unicità biografica e nella sua dimensione sociale.
Anziché zittire la sofferenza bisognerebbe ascoltarla. Forse allora ci si renderebbe conto di quanto un Tso rappresenti una ferita profonda nel vissuto di una persona e un sostanziale fallimento dei servizi. Servirebbe, ancora, una formazione continua di tutti i soggetti e gli operatori coinvolti, a partire da psichiatri che si specializzano senza alcun rapporto col territorio fino a sindaci e polizie locali che continuano ad agire pilatescamente. Prima di tutto questo, però, sarebbe necessario: riproporre la centralità politica della salute mentale, combattere l’isolamento disciplinare e la miseria della psichiatria, evitare, quindi, che ancora si riduca a campo del sapere asservito al potere, alle ideologie, al mercato. (antonio esposito)
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