Città del Messico, agosto 2018. Paseo de la Reforma è una strada che attraversa la città dalla casa del presidente, detta Casa de Los Pinos, fino allo Zocalo, dove c’è il Palacio Nacional. È una lunga avenida circondata sui due lati da alti grattacieli, sedi di banche, uffici e pubbliche istituzioni, come il palazzo della PGR, la Procuradoria General de la Republica. È una strada famosa soprattutto per i suoi monumenti, che celebrano la storia del Messico.
A poche decine di metri dalla statua dedicata a Cuauhtèmoc, l’ultimo imperatore azteco che guidò la resistenza contro gli spagnoli di Cortés, sorge un accampamento fatto di tende e teloni di plastica, proprio davanti al palazzo della PGR. Tutt’intorno sono esposte foto di volti giovani, affiancate da volantini fitti di parole che attirano per il titolo inequivocabile: “Fue el estado!”.
È il presidio di protesta permanente per la scomparsa dei quarantatré di Ayotzinapa, gli studenti trucidati nello stato di Guerrero il 26 settembre del 2014, i cui corpi non sono mai stati ritrovati. Al presidio ci accoglie un ragazzo, cappuccio rosso del k-way tirato sulla testa e sguardo stanco di chi dorme da troppi mesi in tenda. Si chiama Ugo. Insieme a lui c’è una signora gentile che ci invita a sederci e ascoltare la storia dei quarantatré. Si chiama Marisol, ma Ugo la chiama compañera. La vedo armeggiare con una padella nella cucina allestita sul retro dell’accampamento. Con loro c’è anche un viaggiatore irlandese, Ken, musicista che parla un italiano misto allo spagnolo e che un tempo insegnava inglese a Napoli. Mi dice che la città gli manca, che conosce bene la Campania e che adora il rosso di Feudi di San Gregorio.
Mentre Ken chiacchiera con il mio amico Salvatore di flamenco, IRA e Sud America, io mi siedo davanti a Ugo, che se ne sta su un divano consumato a intagliare un pupazzo in una lattina. Ugo mi racconta che i quarantatré erano studenti di una “normal” di Ayotzinapa, scuole molto importanti perché formano i maestri che insegneranno nelle zone rurali degli stati più poveri, l’unica speranza di cultura per i figli dei campesinos. I diplomati delle normal sono odiati da chi detiene il potere nelle municipalità del paese, perché spesso contribuiscono allo sviluppo di una coscienza di classe nelle comunità rurali.
I quarantatré stavano partendo da Ayotzinapa il 26 settembre per prendere parte a Città del Messico alla manifestazione che si tiene ogni 2 ottobre in memoria della strage di Tlatelolco, dove nel 1968 il presidente Gustavo Dìaz Ordaz ordinò di sparare su studenti e giovani riuniti in piazza delle Tre Culture per protestare contro il governo. Volevano essere presenti alla commemorazione ma – mi spiega Ugo – non c’erano più autobus in partenza da Ayotzinapa. Così il gruppo decide di sequestrare dei pullman per raggiungere la capitale. Non intendevano rubarli, li avrebbero restituiti al ritorno. Quei pullman, però, a Città del Messico non sono mai arrivati.
Qualcuno dice che contenessero oppio dei narcos destinato alla fabbricazione dell’eroina da esportare negli Stati Uniti. I giovani studenti si sarebbero quindi impossessati dei mezzi sbagliati e per questo sarebbero stati trucidati e fatti sparire. Questa versione però è affiancata da un’altra, a cui tutti sembrano credere di più, secondo cui la scomparsa dei quarantatré sarebbe un’esecuzione in piena regola, ordinata dal presidente municipal di Iguala, Jose Luis Abarca e messa in atto da polizia e narcos. Gli studenti della normal erano una minaccia per la campagna elettorale della moglie di Abarca e dovevano essere eliminati.
Ugo finisce il pupazzo di latta, mi guarda con i suoi occhi scuri e mi dice che il governo di Peña Nieto ha fornito una versione dei fatti poco credibile, arrestato qualche poliziotto, una banda di narcos e incarcerato il sindaco Abarca e sua moglie, archiviando rapidamente il caso. Poi aggiunge: «I corpi degli studenti non sono mai stati trovati». Nessuno sa dove siano, nessuno ha una tomba su cui piangerli e per questo l’accampamento è proprio davanti al palazzo della PGR, perché la verità sulla fine dei quarantatré si trova nascosta lì, insabbiata sotto una ricostruzione poco credibile, confezionata ad arte per sollevare il governo Nieto dalle sue responsabilità.
Ugo mi dice che c’è un documentario, intitolato Mirar morir, che fa capire bene tutti i depistaggi e i lati oscuri di questa vicenda. Quando gli chiedo se anche lui è uno studente, mi risponde che non ha mai completato la scuola secondaria, ma i compagni del presidio gli hanno prestato libri di ogni genere e gli hanno detto: «Leggi, cabron! La lettura è importante!». All’inizio ne leggeva quattro o cinque all’anno, ma in questi ultimi dodici mesi ne ha letti quindici, e ora – mi dice sorridendo – parla meglio di uno che non ha finito la secondaria.
Mi racconta che durante una manifestazione di protesta per la sparizione dei quarantatré, il suo maestro di teatro è stato colpito alla testa da una manganellata che lo ha mandato in coma e ridotto in stato vegetativo. Il suo volto, insieme a quello di un altro maestro desaparecido, campeggia su una bandiera appesa tra le tende. Per onorare il suo sacrificio, Ugo ora vive nel presidio e prova a raccontare a tutti la storia dei quarantatré di Ayotzinapa.
Prima che andiamo via, prende da un mobiletto alcuni santini raffiguranti la Virgen de Guadalupe e li ritaglia seguendo il contorno dei raggi che circondano l’immagine della Madonna. Marisol si è seduta accanto a lui, sul divano. Mi guarda. Non ha parlato quasi mai, ma i suoi occhi gentili hanno accompagnato l’intero racconto di Ugo, raccontando a loro volta. Mi piacerebbe restare ancora, ma dobbiamo ripartire.
Ringrazio per l’ospitalità. Marisol mi sorride, mi ringrazia anche lei e mi dice che la gente spesso dimentica, ma cosa accadrà se le tende del presidio spariranno? Che ne sarà dei quarantatré, della loro storia e di tutti i ragazzi del mondo come loro? Con questa domanda nella testa riprendiamo il cammino su Paseo de la Reforma. Un centinaio di metri dopo la statua di Cuauhtèmoc, che si erge con la sua lancia tra i grattacieli scintillanti, c’è un’altra statua, quella di Cristoforo Colombo. Poco più avanti, il monumento in memoria dei ragazzi di Ayotzinapa, un grande numero quarantatré rosso, con sotto una scritta: “Porque vivos se los llevaron, vivos los queremos”. (stefano romano)
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