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26 Luglio 2017

Al Santarcangelo Festival, dove il teatro sparisce per reinventarsi

Giusy Palumbo
(disegno di nando gaeta)
(disegno di nando gaeta)

“Make love not work” è la prima cosa che leggo arrivata in piazza Ganganelli a Santarcangelo, il borgo romagnolo dove, dal 1970, si tiene il festival che ha fatto sparire la parola teatro dal titolo, per ricercarlo e reinventarlo ogni volta. In realtà prima di scendere dal bus, lungo la statale SS9 che collega la stazione di Rimini a Santarcangelo, altri striscioni mi hanno distratta: basta circonvallazione, basta traffico. Intanto arriva la mia fermata, mi dimentico delle proteste e accetto l’invito all’amore di Macao, il centro indipendente per l’arte, la cultura e la ricerca con sede a Milano, che al festival ha dato vita a Robot + Syndicate, laboratorio permanente nato da una ricerca sulle condizioni di lavoro nel campo della produzione artistica. A partire dal Festival di Santarcangelo di cui Macao ha analizzato, dati alla mano, le fonti di finanziamento, i modelli di redistribuzione e di governance mettendo a disposizione di tutti i risultati dell’indagine e condividendo le cose che non piacciono: tagli ai fondi pubblici, dipendenza politica, autoreferenzialità dell’arte, lavoro non pagato.

Entro nelle intenzioni della direttrice artistica Eva Neklyaeva, alla sua prima edizione, la prima a chiamata pubblica della storia del festival, che nella sua lettera di benvenuto auspica di “creare spazi in cui le cose accadono, in cui le idee sono messe in discussione”. Da questo e altri desideri viene l’idea di habitat: un invito agli artisti a utilizzare spazi per curare un programma dentro al programma, creando ambienti diversi da sperimentare. Così si è potuto fare esperienza di disumanizzazione al Museum of Nonhumanity, flirtare con piante e fiori nel Club Ecosex, nuotare in piscina con una coda cangiante in silicone assieme al sirenetto Merman Blix, oppure dormire nelle stanze della scuola elementare accolti dalle azdore, le signore romagnole che, con Markus Öhrn sono passate dal suonare black metal (edizione 2016) a gestire una residenza d’artista. Sono loro ad insegnare che “il gruppo è più forte di ognuna di noi”.

Spazi abitativi ed esperienze collettive sono al centro dell’intervento di Strasse, compagnia fondata da Francesca De Isabella e Sara Leghissa, nata dal desiderio di spostare il linguaggio teatrale e cinematografico negli spazi della città, come hanno rifatto di recente a Milano con Drive_IN. A Santarcangelo hanno scelto il campo da basket di un parchetto, con attorno una chiesa evangelica, un centro medico e diversi condomini. Qui noi spettatori abbiamo preso posto dove non c’era scritto riservato (agli abitanti coinvolti nel progetto), tutti seduti attorno a uno spazio che è restato vuoto, non eravamo lì per vedere ma, libretto alla mano, per ascoltare: HM House Music è un concerto, un’indagine musicale. Sentiamo voci, ricordi, suoni di oggetti e canzoni, quelle scelte dagli abitanti, dal pop cinese a Jean Ferrat, dai Led Zeppelin a Fabio Rovazzi. E mentre ascoltiamo ci guardiamo, abitanti e passanti. C’è la bambina scalza che scopre che la terra si attacca sotto i piedi, la signora che tossisce, le ragazze che cantano Battiato una con la testa sulla spalla dell’altra, il bambino che fa franare le gambe della mamma, Francesca al mixer, Sara alle bibite fresche. Andando via sembra di sentire il suono della fine, quella calma irreale che rimane quando una festa finisce e una separazione inizia, la stessa sospensione che Strasse ha misurato l’anno scorso alla Cavallerizza di Torino, con il progetto Costruzione dell’immagine della fine, anche lì nascondendo la scena e rappresentando l’assenza.

Tanta bellezza e colpi di mitra nello spettacolo ÜBER RAFFICHE (nude expanded version) di Motus, compagnia indipendente associata del festival, nata nel 1991 a Rimini. Nella palestra dell’ITC Molari, sulle tracce di Splendid’s di Jean Genet, una gang di eco attiviste usa la bellezza come strumento di lotta, senza confondere l’estetica con la cosmetica, le attrici esibiscono i loro corpi per mettere in discussione il concetto di oscenità al grido di «facciamogli vedere le nostre caviglie sottili!». È un sabotaggio: del testo originale, che prevedeva attori maschili, degli eredi dei diritti d’autore che hanno negato la messa in scena, dei ruoli sociali che sono sempre trappole, dei generi che vanno elusi, della grammatica come «invenzione capitalistica patriarcale che regola e dispone i corpi del discorso secondo modelli imposti che vanno scardinati». Dobbiamo riappropriarci del discorso e del corpo, non arrenderci, continuare a sparare, ci dicono, ballano e saltano le raffiche, senza inizio e senza fine, in loop per tre ore, per liberarci dalla paura.

Contagiata di coraggio e bellezza, finisco le mie ore all’Imbosco, il dopofestival di Santarcangelo, un tendone da circo nascosto tra gli alberi, ai piedi del Parco Cappuccini, a fianco del fiume Uso. C’è la musica, la birra, le stelle e tutte le persone che ho visto durante il giorno: il sirenetto senza coda, le Gang gong girls con le loro figurine di donne a(r)mate, le gangster senza mitra, le Strasse felici, forse un mutoid. Mancavano solo le azdore ma se tutti facciamo l’amore qualcuno deve pur fare il lavoro. (giusy palumbo)

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