Sono le 21e30 quando prendo a scrivere, seduto non distante dal cerchio di centrocampo, spalle all’ingresso. Sono allo Scugnizzo Liberato, è il 27 giugno. Da tempo la comunicazione della data napoletana dell’ennesimo gruppo che si riunisce – stavolta gli Zu – aveva caratterizzato la segnaletica che avanza dall’intimità condivisa di una bacheca multimediale. L’aria che tira è fresca, di quelle da godere alla luce dei led, con tanto di chiacchierate balconiche da condominio.
Il concerto rientra nelle attività del Nadir festival, coraggiosa sigla che mette insieme attivisti, lavoratori dell’arte e appassionati del settore che fanno leva in direzione opposta a quella caratterizzata dall’adesione alle logiche standard dell’evento musicale. Cambia semmai l’attivismo messo in campo, molto più social e, dunque, sempre meno invisibile. Vi prendono parte i nomi della scena oltremondana, quelli della nicchia che si nutre di Mi piace.
Il pubblico lentamente prende coraggio oltre la soglia. Trovo suggestivo l’intrattenimento in un cortile a suo tempo destinato all’ora d’aria: tutti secondini del tempo libero. Il cicaleccio supera l’alveare di suoni che solitamente marca i minuti prima dell’esibizione di un’orchestra.
Di scena – ad aprire le danze – c’è l’Oeoas che non manca occasione di farsi conoscere al sempre diverso pubblico partenopeo. Il posizionamento dei musicisti – circa una cinquantina – è adeguatamente calcolato, a puntellare la struttura: il primo piano, quello del ballatoio, è occupato da percussioni alla mia destra, elettronici a me frontali, archi alla mia sinistra. Come è tradizione, gli ottoni si esibiscono dai balconi secondo una prassi inaugurata dai localini chic che sparano musica lounge con esecuzioni live.
C’è il rischio di veder le stelle, lontani da quell’inquinamento luminoso che profuma di urbanesimo coatto. Il sistema grafico elaborato da Sergio Naddei, maestro di cerimonie della serata, fa da riferimento all’azione comune. La semiografia musicale del Novecento ha esplorato territori altri che non il solito pentagramma da solfeggio. Nel caso dell’azione improvvisativa il corpo stesso del direttore diventa matrice di regole, rivendicando l’ordine degli interventi. Naddei, non potendo disporre del proprio corpo, difficilmente focalizzato altrimenti, ha costruito una semplice eppure fertile legenda grafica proiettata, in grado di colorare l’azione. Mentre tutti aspettano il segnale, le stecche di fuoco di un calcio balilla spazzano i secondi al ritmo dell’incedere della pallina.
Sono i sassofoni a iniziare, sezione che seduce con il suo afflato timbrico. Ci sono loro e poi un flauto, in lontananza a fare da eco risonante. Seguono gli archi a farsi spazio – maldestramente elettrici – fino all’ingresso delle voci che introducono quel pizzico di lamento che non guasta mai, a fare il contropelo al contemporaneo. Ogni tanto qualche spruzzatina di elettronica interviene a sostenere l’azione, al punto che solo l’ingresso delle percussioni può smorzare la falsariga intrapresa.
C’è tanto pubblico ad accompagnare solo. Discreto, silenzioso, incuriosito, timido. Misto, si gira, si ferma, cammina. Si abbraccia, fuma, si bacia. Purtroppo il focus strumentale sfuma in un incesto di azioni placidamente portato avanti. In effetti il pubblico, quasi a misurare il valore della cosa musicale, si è annoiato, non della situazione ma della musica. Inizia a parlarci sopra. Ecco. Cosa significa che passa dal silenzio al parlarci sopra? Se occasioni del genere ci interrogano a tal riguardo, la mobilità degli ottoni e alcune delle percussioni arrivano tra noi e ci ammettono a godere del timbro, della dinamica e della vis del loro strumento. Il confine tra azione improvvisativa e performance più o meno strutturata si è fatto molto sottile. Ci si avvicina alla fine, lo tocchi con le orecchie il finale, quando viene suggerito da alcuni interventi standard che si fondano su un’abitudine fatta sottilmente di attese. Se il silenzio del principio si è fatto cicaleccio di nuovo, tutto trova complimento nel rito degli applausi.
Una voce francofona annuncia venti minuti di pausa, prima che gli Zu inizino a performare. Li ospita il teatro, per una performance indoor di altri tempi. Sono passati sette lunghi anni dall’ultimo concerto in formazione originale. Jacopo Battaglia alla batteria, Luca T Mai al sax baritono e Massimo Pupillo al basso elettrico si incontrano a Ostia e danno vita a una delle esperienze fondate sul rumore tra le più accreditate in campo internazionale, e pure in Italia. La gente li conosce e questo aiuta. Li ascolto ovviamente fuori dal teatro, non disposto a sorbirmi una pressione sonora del genere senza poter nemmeno abbassare il volume col telecomando. In linea di principio, l’aver adeguato l’esecuzione noise a una forma canzone è gesto distintivo della loro pratica musicale, fatta di tante cose che non stento a riconoscere ma non riesco necessariamente ad appoggiare. Certo, ci danno dentro da matti, allestiscono un set veramente da paura anche grazie all’intermittenza delle luci che costruisce una scenografia fortemente suggestiva. E andranno avanti fino all’orario concordato, ché il vicinato va tutelato al pari che la struttura, nell’economia degli spazi sociali attori sul territorio.
Al ritorno dalla discesa di Tarsia mi aspetta il clamoroso traffico che nasce dalla chiusura di via Toledo. Ed è tutta un’altra musica. (antonio mastrogiacomo)
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