Quando ho parlato con R. qualche giorno fa, non riusciva a comunicare con la sua famiglia a Gaza da due settimane. La sua casa, questo lo aveva saputo, non c’era più, dove stessero la moglie e i quattro figli, non ne aveva idea. Aveva parenti fuori i confini di Gaza che potevano aiutare la famiglia? Amici? Sostegno? Sì, ce li aveva, ma la situazione non era migliore nel resto della Palestina, mi aggiornava, e poi dopo il 7 ottobre da Gaza ora non esce proprio nessuno.
Telefono a Simone Scotta, un coetaneo conosciuto in Libano, che vive a Gerusalemme da un paio d’anni. Simone coordina cinque squadre di volontari, per lo più palestinesi, che lavorano in altrettante regioni della Cisgiordania: in due territori vicino a Hebron, a Gerusalemme, a Betlemme e nella Valle del Giordano. Il progetto è del Consiglio ecumenico delle chiese e l’obiettivo è l’accompagnamento delle persone civili palestinesi: una scorta umanitaria nei quotidiani spostamenti dei giovani e meno giovani, per evitare ferimenti o violenze nella strada per andare a scuola o per tornare a casa. Sono servizi di volontariato che esistono da anni, perché doverosi ed essenziali.
Chiamo e scopro che Simone è in Italia, lui e sua moglie sono stati evacuati una settimana dopo l’inizio della guerra. Quel 7 ottobre era a Gerusalemme, a casa, faceva colazione con la moglie quando ha sentito una sirena suonare «come quando ci sono razzi che arrivano, e probabilmente stavano arrivando… erano le otto e non sapevamo cosa stava succedendo, non avevamo ancora aperto le notizie… l’intervento di Hamas era del tutto inaspettato».
A differenza di R., Simone riesce ad avere contatti regolari con i suoi amici e colleghi. La Cisgiordania non è Gaza, certo, eppure le cose stanno cambiando velocemente anche lì. «La situazione è pessima: centocinquanta scuole sono chiuse, ci sono i soldati israeliani che bloccano l’ingresso e gli studenti non possono accedere. A Hebron, dove ci sono ottocento coloni e centosessantamila cittadini palestinesi che abitano in città, c’è il coprifuoco, le persone dopo le venti devono rimanere a casa, se qualcuno prova a uscire viene subito arrestato».
Via Whatsapp Simone condivide una mappa: ci sono nove pallini viola, nove villaggi scomparsi in queste settimane, dissolti nel nulla, nove comunità che a causa di violenze e minacce hanno lasciato in modo definitivo le loro abitazioni, case di famiglia da decenni. «Molti miei colleghi mi dicono che non è possibile per loro andare in ufficio, sanno che sulla strada potrebbero incontrare con molta probabilità delle dogane informali, check-point in cui vengono attuate perquisizioni fisiche violente, che terminano con ore di trattenimento in questura».
Nei mesi scorsi ho ricevuto per mail un bollettino redatto da Simone e i suoi colleghi:
1 giugno 2022, Khirbet Al Fakheit. Quattro strutture residenziali, che ospitavano diciannove persone, sono state demolite. Questa è stata la terza demolizione avvenuta nella comunità nel 2022 […]. Le autorità israeliane sostengono che i coloni abbiano documenti di proprietà sulla terra.
14 luglio 2022, East-Jerusalem. Verso le otto del mattino, quaranta soldati e un bulldozer sono entrati nella comunità: il numero di soldati era inferiore al solito nelle demolizioni. Non è stato mostrato alcun ordine di demolizione. Dopo essere entrati nella comunità hanno iniziato la demolizione della piastra di cemento davanti alla scuola: era destinata a parcheggio e per il futuro era prevista la costruzione di un parco giochi per bambini. Il pavimento in cemento è stato completamente distrutto.
4 agosto 2022. Un membro del team di Betlemme ha organizzato una visita alla prigione/tribunale militare di Ofer, con Salwa della guardia del tribunale militare. Ofer è l’unica prigione militare in Cisgiordania. Tutte le altre prigioni si trovano in Israele, il che costituisce una violazione del diritto internazionale (portare i palestinesi in queste altre prigioni in Israele). Nella sala d’attesa abbiamo avuto la possibilità di incontrare e parlare con quattro genitori di bambini detenuti nel carcere di Ofer che aspettavano la loro udienza nel pomeriggio. Gli arresti sono tutti basati sullo stesso episodio avvenuto qualche giorno fa nella città di Beit Fajjar, quando si sono verificati scontri con i soldati israeliani. I ragazzi sono stati accusati di aver lanciato pietre contro i soldati, che è l’accusa più comune quando si parla di arresti di minori. La sanzione media per questa accusa è di quattro mesi di reclusione e una multa di duemila shekel (589 euro).
Penso a un discorso dello storico israeliano Ilan Pappè, intervenuto in questi giorni all’università di Berkeley in California. Pappè è attualmente direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeterer nel Regno Unito. “La realtà fondamentale sul terreno è ancora la stessa che c’era prima del 7 ottobre – ha detto lo storico –, il popolo palestinese a cominciare addirittura dal 1929 è coinvolto in una lotta di liberazione: è una lotta contro il colonialismo e una lotta contro i coloni e ogni lotta anticolonialista ha i suoi alti e bassi, ogni lotta anticolonialista ha momenti di gloria e momenti difficili di violenza. La decolonizzazione non è un processo asettico in vitro, è una cosa caotica, disordinata, e più a lungo durano il colonialismo e l’oppressione, più è probabile che si verifichino scoppi violenti e per molti aspetti disperati. È importante ricordare alla gente la storia delle ribellioni degli schiavi in questo paese e il loro esito, le rivolte dei nativi americani, le ribellioni degli algerini contro i coloni in Algeria, il massacro di Orano durante la lotta di liberazione del Fln. Sono cose che fanno parte della lotta per la liberazione. Si possono a volte mettere in discussione certe scelte strategiche, si possono attraversare momenti difficili a causa delle scelte che vengono fatte ma non si può perdere la propria bussola morale se non si decontestualizzano gli avvenimenti e si lotta contro l’atteggiamento tipico dei media e del mondo accademico in questo paese e nell’Occidente e nel Nord del mondo in generale, che hanno questa capacità di prendere un evento e iniziare a parlarne come se non ci fosse una storia che produce delle conseguenze”.
Il 13 ottobre, il venerdì successivo all’attacco di Hamas, a ora di pranzo Simone e la moglie ricevono la comunicazione: devono lasciare il paese. Si recano al confine nord, verso la Giordania, si sottopongono a controlli di rito, salgono su un minibus fino ad Amman e volano in Italia. (marzia coronati)
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