R. vive a Roma da due anni e mezzo. È un medico ortopedico. Lo conosco un giorno di primavera, a Garbatella, alla scuola di italiano di Casetta Rossa. Frequenterà il corso per pochi mesi, conosce anche il russo e l’inglese, impara velocemente e conversa senza grandi problemi nel giro di una decina di settimane. È un solitario, piuttosto schivo, tuttavia molto disponibile, si sottopone con pazienza alle mie domande ingenue e pressanti. È la mattina del 14 marzo 2021 e l’esercito israeliano sta bombardando il suo quartiere, a Gaza, mentre noi siamo seduti su una panchina scalcinata, al bordo di una pista da pattinaggio vuota. L’azione distruggerà il suo appartamento e un’altra ventina di palazzi. Lui fuma e parla lentamente, in inglese. I miei vicini di casa sono tutti morti, tutti. La sua famiglia per fortuna si salverà, ma la moglie e i quattro figli saranno costretti a vivere in strada per giorni. Da allora a oggi la casa di R. sarà ricostruita e abbattuta ancora una volta, e poi ricostruita e infine rasa al suolo a metà ottobre di quest’anno, pochi giorni dopo l’inizio del conflitto odierno.
Questo epilogo lo racconta di fronte a una tazzina di caffè in un pomeriggio umido d’autunno. Sono passati quasi tre anni, R. ha ottenuto la carta di soggiorno, ma non riesce a convertire la sua laurea ed è costretto a riciclarsi come muratore. Ci incontriamo in un altro quadrante della città, a nord, ora lavora e vive da queste parti. Mi sembra più alto, forse però è solo più magro. Fatica a mangiare, a bere, a dormire. «Sono due settimane che non sento mia moglie, l’ultima volta che mi ha chiamato mi aveva detto che la nostra casa non esisteva più e che lei e i ragazzi si erano riparati in una scuola gestita dall’Unrwa, poi non c’è stato più contatto». Ora parla italiano, mescolato a qualche vocabolo inglese. Non si fatica a capirlo, basta sapere ascoltare. Rolla una sigaretta di tabacco, gesti secchi, ha uno sguardo severo, non c’è autocommiserazione, non c’è tremore nella voce. La scuola, lo leggerà qualche giorno più tardi sui quotidiani locali e internazionali, è bombardata dagli aerei israeliani lasciando decine di morti e feriti. Accende la sigaretta. «Loro sono ancora vivi, lo so». È una determinazione su un’ipotesi. I telefoni non funzionano da quattordici giorni. Ci sarà un parente, un amico, un collega, un conoscente con uno straccio di tacca sul telefono, un apparecchio fisso ancora in funzione, un portatile con il wi-fi, lo torchio io incredula. «Non sono stato chiaro: non c’è telefono, non c’è cibo, non c’è acqua potabile, non c’è niente. È tutto bloccato. Non esce niente, non entra niente».
Si arma di pazienza ancora una volta e con un dito disegna sul tavolino del bar una mappa, i confini che marcano la terra del suo popolo. Poi cancella la cartina invisibile con il gomito, si mette dritto e sospira, sembra dire che è una storia lunga che ognuno dovrebbe conoscere, ma che l’occidente continua a fare finta di non capire. Gli chiedo come si informa e quali siano i media più attendibili, non puoi leggere se non hai esperienza, se non sai criticare, risponde. Non è uno sgarbo, è il linguaggio dritto di chi comunica in una lingua fatta di pochi vocaboli, quello che vuole dire è evidente: è necessario accettare la complessità delle cose e mettersi in ascolto di chi questa guerra non la guarda soltanto in tv, di chi ci sta dentro.
Quando scappa da Gaza, nei primi giorni del 2021, R. fugge dalla gabbia, da dissidi con il governo, dalle scelte di Hamas. Per due anni tenta disperatamente di fare arrivare la famiglia in Italia. Nello zaino adesso ha dei fogli, ognuno avvolto in un listino di plastica, cinque fotocopie di altrettanti documenti, sono le Visa della moglie e dei quattro figli. Mi chiedo, mentre le fototessere di tondi faccini e neri occhi vispi scorrono tra le mie mani, se li ha portati per me o se viaggiano sempre insieme a lui. Il ricongiungimento tarda, quando ogni cosa sembra ben fatta c’è sempre un documento a mancare, e poi R. non trova un alloggio adeguato e tanto basta a bloccare la partenza dei suoi. «Se prima era difficile, ora è totalmente impossibile, da Gaza non esce nessuno». Nel 2021, ricordo, aveva parole critiche per le scelte delle istituzioni palestinesi, ora c’è solo un grumo di rabbia. «Quando comprimi per settantacinque anni un popolo, lo schiacci in una galera, non potrai che aspettarti l’esplosione. Lo scoppio sarebbe arrivato prima o poi, con o senza Hamas. È solo il frutto della repressione, è solo il risultato della storia, è solo la conseguenza delle scelte occidentali».
Ci salutiamo a un angolo della strada, sono a disagio, gli dico che dovrebbe partecipare a qualche incontro, di questi nei centri sociali, nelle scuole o per le strade, portare la sua esperienza. Non ha tempo, lavora fino a tardi e poi studia per la patente di guida (la sua non va bene qui in Italia). «Sono contento che le manifestazioni si facciano ogni giorno più grandi, lo leggo, lo sento. Ma io, sincerely, non ho tempo adesso». Mi informo sui suoi compagni di casa, gli chiedo se va in moschea a pregare, no, non ha grandi scambi con i coinquilini e le preghiere saltano spesso per via del lavoro.
Gli ripeto tre o quattro volte la strada che dovrà percorrere fino alla fermata della metro più vicina. Mi rassicura, la conosce, non ci sono problemi. Fa per andare ma io lo trattengo per la giacca e continuo a indicargli la via. Mi viene in mente quel racconto dello scrittore bosniaco Aleksandar Hemon. Nell’inverno di un tormentato 1992 Hemon è a Chicago, trascorre i suoi giorni in passeggiate disperate. Mentre i cecchini di Radovan Karadžić sparano su civili e manifestanti, lui attraversa isolati desolanti, androni asettici, cortili plastici di una città che non esiste. Mentre la sua geografia si sgretola dall’altra parte dell’oceano, questo nuovo angolo di mondo non ha materia, non c’è spazio per registrare una geografia nuova in nessuna particella del suo corpo. Serviranno anni per stendere i nervi, per provare di nuovo a contattare i sensi, per ricostruire un’infrastruttura personale, una rete umana, un groviglio di relazioni quotidiane capaci a restituire un punto dove puntare la bussola. Nei mesi di guerra lo scrittore proverà a distrarsi con lunghe partite di scacchi nei bar e per strada, ma sarà capace di lavorare sul disorientamento solamente quando riuscirà a tradurlo in parole, a scioglierlo in racconti e romanzi: i libri saranno il suo antidoto.
Vedo R. allontanarsi, allampanato, un po’ obliquo come un Lupin mediorientale. Il nostro incontro è stato intenso, senza spazi per frasi di circostanza e chiacchiere vuote. Il suo sguardo fisso è un messaggio: non è con la facile lettura che si procede in avanti, non è con la distrazione, ci vuole ascolto, critica, comprensione, empatia.
Non c’è lieto fine a questa tragica storia. Ovvio. Ma dopo due ore dal nostro congedo ricevo un messaggio: “Ho avuto un contatto con la famiglia. Ancora stanno vivi. Grazie Dio”. Un volontario della Croce Rossa li ha messi in contatto, si trovano in un campo di tende allestito in questi giorni, a Rafah, ai confini con l’Egitto. Scrivo che è magnifico, cuori e pollicioni, “è un posto sicuro?”. Seguito a non voler capire, ma R. è paziente e la risposta è ancora la stessa: “Non c’è lo spazio sicuro nella Gaza”. (marzia coronati)
Dopo avere letto questo articolo una signora che lavora a La Sapienza mi ha chiesto il contatto di R, si incontreranno in questi giorni per rivedere insieme il percorso per la conversione della laurea. Dita incrociate. C’è chi mi ha chiesto: ‘ma che si può fare oltre a scendere in piazza?’. Io non lo so, ma provare a parlare con chi questo conflitto lo vive da vicino credo sia prezioso. Oggi ho telefonato a Simone, un coetaneo conosciuto in Libano, vive a Gerusalemme da un paio d’anni. Simone coordina cinque squadre di volontari per lo più palestinesi che lavorano in altrettante regioni della Cisgiordania: in due territori vicino a Hebron, a Gerusalemme, a Betlemme e nella Valle del Giordano. Il progetto è del Consiglio ecumenico delle chiese e l’obiettivo è l’accompagnamento delle persone civili palestinesi: una scorta umanitaria nei quotidiani spostamenti dei giovani e meno giovani, per evitare ferimenti o violenze nella strada per andare a scuola o per tornare a casa. Sono servizi di volontariato che esistono da anni, perché doverosi e essenziali.
Chiamo e scopro che Simone è in Italia, lui e sua moglie sono stati evacuati una settimana dopo l’inizio della guerra. Quel 7 ottobre era a Gerusalemme, a casa, faceva colazione con la moglie quando ha sentito una sirena suonare “come quando ci sono razzi che arrivano, e probabilmente stavano arrivando… erano le otto e non sapevamo cosa stava succedendo, non avevamo ancora aperto le notizie… l’intervento di Hamas era del tutto inaspettato”.
A differenza di R, Simone riesce ad avere contatti regolari con i suoi amici e colleghi in Cisgiordania. ‘La situazione è abbastanza pessima: centocinquanta scuole sono chiuse: ci sono i soldati israeliani che bloccano l’ingresso e gli studenti non possono accedere. A Hebron, dove ci sono ottocento coloni e centosessantamila cittadini palestinesi che abitano in città, c’è un coprifuoco, le persone dopo le venti devono rimanere a casa, se qualcuno prova a uscire viene subito arrestato’. Via whatsapp Simone condivide una mappa: ci sono nove pallini viola, nove villaggi scomparsi in queste settimane, dissolti nel nulla, nove comunità che a causa di violenze e minacce hanno lasciato in modo definitivo le loro abitazioni, case di famiglia da decenni.
“Molti miei colleghi mi dicono che non è possibile per loro andare in ufficio, sanno che sulla strada potrebbero incontrare con molta probabilità delle dogane informali, check-point in cui vengono attuate perquisizioni fisiche violente, che terminano con ore di trattenimento in questura’’.