«È doveroso chiarire che lo stato italiano non indietreggia di un centimetro difronte all’illegalità». Così il ministro Bonafede ha chiuso la relazione al parlamento sulle sommosse carcerarie cominciate il 7 marzo. Incremento del personale di polizia penitenziaria, fondi (sempre pochi) stanziati per il trattamento, impiego di una task-force per ragionare sull’emergenza. Questi gli strumenti impiegati dal governo, ma più che una dichiarazione di forza, l’esecutivo sembra sventolare bandiera bianca. Ai decessi nelle carceri il ministro ha soltanto accennato e l’accaduto è stato sfumato con retorici richiami alla legalità. Nessuna assunzione di responsabilità rispetto alla gestione dell’emergenza, nessun richiamo ai comportamenti tenuti all’interno delle catene di comando dell’amministrazione penitenziaria. Forse bisognava ammettere senza troppi indugi: abbiamo sbagliato e lo facciamo da tempo.
Quando siamo arrivati nel carcere di Salerno in rivolta, sabato 7 marzo, abbiamo appreso che il panico si era generato dopo le comunicazioni del telegiornale nazionale: nessuno aveva provato a spiegare ai detenuti i provvedimenti che si stavano attuando, nessuno ha provato a confrontarsi con i loro timori, già ipersensibilizzati in senso fisico e psichico da molteplici stimoli.
Le parole mistificano sempre, sono altra cosa dai fatti, ma quelle del ministro erano al limite del paradossale. Da giorni gli operatori del settore (educatori, magistrati, medici, finanche i sindacati autonomi della polizia penitenziaria) denunciano l’impatto devastante del virus. Gli apparati vivono una continua scomposizione: centro e periferia si adattano stabilizzandosi con equilibri fragili che infatti durano al limite delle settantadue ore. Il panorama è assolutamente liquefatto, gli uffici di sorveglianza – che anche a corto di personale cercano di fare il possibile con i pochi mezzi offerti dall’ordinamento – si muovono in direzioni diverse rispetto ai tribunali e alle procure, assolutamente imperturbabili di fronte al collasso del sistema.
L’ultima circolare del Dap (13 marzo) sulla prevenzione e gestione del contagio sembra scritta da qualcuno che non ha mai messo piede in un istituto penitenziario. Prevede interventi dai risvolti surreali: “Detenuti già presenti in istituto: a seguito di riferita sintomatologia compatibile con SARS-CoV 2, il detenuto sarà visitato dal medico presso la camera di pernottamento per la valutazione della procedura da seguire. È opportuno che il detenuto non venga condotto in infermeria. Gli altri detenuti presenti nella medesima camera di pernottamento o con i quali il detenuto abbia avuto contatti verranno sottoposti agli accertamenti e ai controlli disposti dal medico”. E ancora: “Esecuzione tampone nasofaringeo-orofaringeo: qualora vi fossero elementi specifici che rendano necessaria l’esecuzione del tampone, lo stesso sarà effettuato dal personale medico […] nella camera di pernottamento del detenuto”. Non è difficile immaginare la tensione che questo tipo di prassi sta generando. Una cella della nostra regione mediamente affollata conta dalle sei alle dieci persone. Immaginiamo che un detenuto presenti i sintomi del virus. La cella si chiude con una decina di persone dentro, e con a disposizione poco meno di tre metri quadrati, fino all’arrivo del personale medico. Si esegue il tampone, si isolano gli altri detenuti che sono venuti a contatto con il paziente, si aspetta il decorso della malattia. È l’eterno ritorno dei sistemi di controllo: le istituzioni si frammentano rincorrendo modelli di gestione del corpo recluso ampiamente testati nel tempo, diventando le strutture un po’ manicomi, un po’ galere e un po’ lebbrosari.
Il virus tocca nervi scoperti del sistema sociale, non concede tregua e costringe a prendere provvedimenti. Per questo il governo ha emanato lunedì scorso un ulteriore decreto che contiene profili normativi per decongestionare il carico dei detenuti in forza. Il tutto si svolge come nel teatro dell’assurdo: le norme, artt. 123 e 124 del decreto sono identiche alla Legge 199/2010 che disciplina gli arresti domiciliari, uno dei pilastri della politica deflattiva del governo Berlusconi. La modifica riguarda una questione di mero ordine procedurale, prevedendo la non necessità della relazione comportamentale della casa di reclusione. L’impianto dell’istituto rimane invece inalterato: i domiciliari saranno concessi solo ai detenuti definitivi che abbiano un residuo di pena pari o inferiore a diciotto mesi; rimangono esclusi dal beneficio i detenuti ostativi e alcuni detenuti ritenuti particolarmente offensivi, come i cosiddetti “delinquenti abituali”. A questi parametri di esclusione, il legislatore aggiunge anche i soggetti che hanno partecipato alle sommosse carcerarie predisponendo una punizione sommaria ad hoc, e dimenticando che la contestazione di eventuali reati è competenza della magistratura, che ha il compito di accertare la personale responsabilità delle condotte criminali. Ma il caos regna negli uffici di Bonafede: alla semplificazione quasi inesistente si aggiunge l’aggravio del sistema di controllo previsto dal braccialetto elettronico, per tutti i detenuti beneficiari (che comunque attualmente ammonterebbero appena a duemila e seicento). Più agile è la previsione di una licenza per i detenuti semiliberi, incisiva, ma capace di intervenire su un numero decisamente limitato.
Ancora una volta si è persa l’occasione per sfiorare, almeno, la radice del problema. L’istituto dei domiciliari continua a conservare una discrasia tra la teoria e la realtà quotidiana delle nostre carceri. La concessione del beneficio solo a chi possieda un “domicilio effettivo e idoneo” è un ulteriore discrimine, troppo forte per i soggetti reclusi (in grandissimo numero senza reddito) che spesso vivono condizioni di precarietà assoluta e non riescono a rientrare in questi parametri, pur avendo mantenuto un’ottima condotta e possedendo un residuo di pena previsto dalla norma. In questa fase di estrema fragilità, dove anche i tessuti familiari sono divisi dalle “zone rosse”, diventa ancora più difficile per chi è recluso ricevere il sostegno dei propri cari per tornare a casa. Ma la difficoltà non riguarda solo il detenuto: il decreto legge non ha tenuto infatti conto dell’emergenza in cui versano gli uffici di sorveglianza, dal momento che al di là dell’omissione della relazione dell’istituto, i magistrati dovranno comunque compiere l’istruttoria prevista per attribuire i benefici.
Il decreto è in sostanza inefficace rispetto a tutti gli obiettivi. Il problema è serio e deve riguardare tutto l’impianto degli ingressi e della permanenza in carcere, con misure reali che tengano in considerazione tutti i detenuti (giudicabili e definitivi), prevedendo degli automatismi che scavalchino le lentezze degli uffici, in affanno, e impegnati a fronteggiare un momento eccezionale. Bisogna impiegare immediatamente le energie in questa direzione per evitare che le prigioni si trasformino in lazzaretti, e cominciare a pensare che la battaglia dei detenuti di questi giorni è una lotta per la tutela della dignità e della fragilità umana. (luigi romano)
2 Comments