Il 20 febbraio del 2011, nelle strade di Casablanca, Rabat, Tangeri, Fez risuonavano slogan come “Mamfakinsh!” (Nessuna concessione!) e “Chab iurīd isqāt al-istibdad!” (Il popolo vuole rovesciare la tirannia!), auspicando lo smantellando di un sistema di potere subdolo e corrotto e l’affermazione di un regime più inclusivo ed egualitario. Ma il 20 febbraio non è solo una data: è un movimento che nasce dieci anni fa e non ha ancora esaurito il suo slancio; si presta male quindi a celebrazioni proprio perché per molti in Marocco non è solo un ricordo lontano. Gli unici a festeggiare l’anniversario con spirito commemorativo – come di una cosa defunta – sono stati i diversi organi del regime autoritario che governa il paese, dalla polizia politica alla stampa filo-istituzionale, finanche alla monarchia. E lo hanno fatto anticipandolo, proprio per evitarne la pericolosa ricorrenza, nel loro modo di sempre, attraverso arresti, calunnie e tentativi di silenziare le voci avverse allo status quo, alimentando un’odiosa repressione che dura già da diversi anni. Ne sono esempi gli arresti di alcuni giornalisti che hanno avuto l’ardire di criticare alcune personalità governative, come l’intoccabile capo della Sicurezza Nazionale (DGSN) e dell’ente di Sorveglianza del Territorio (DGST) Abdellatif Hammouchi, o addirittura il re in persona.
Almeno sei giornalisti che hanno assicurato la copertura imparziale e indipendente del movimento dell’Hirak nella regione del Rif nel 2017, tra cui Hamdi Mahdaoui, hanno ricevuto dai due ai cinque anni di reclusione con l’accusa di diffusione di notizie false e usurpazione della professione di giornalista. L’attivista e giornalista indipendente Omar Radi, che ha criticato il processo politico ai militanti dell’Hirak, oltre a determinate politiche di land-grabbing nel regno, è stato arrestato nel dicembre 2019, poi rilasciato e arrestato nuovamente nel luglio 2020, ed è ancora in attesa di processo. È accusato di abusi sessuali, tematica sensibile all’opinione pubblica, cui il sistema repressivo era già ricorso nei confronti dei giornalisti Souleimane Raissouni, arrestato a maggio del 2020, e Taoufik Bouachrine, direttore dello stesso giornale indipendente arabofono in cui lavorava Raissouni, ed ex collega di Ali Anouzla – anch’egli arrestato con falsi pretesti –, i quali avevano denunciato l’appropriazione indebita di fondi statali da parte di responsabili governativi come Akhennouch (ministro dell’agricoltura) e criticato la condotta di Hammouchi, ritenuto responsabile di pratiche di tortura nella prigiona di Temara. Anche Mâati Monjib, storico, presidente dell’associazione Freedom Now e fondatore di una scuola di giornalismo investigativo, è stato arrestato a dicembre 2020 ed è in attesa di processo con l’accusa di riciclaggio di denaro. Già nel 2014 era stato accusato senza prove di “destabilizzazione del regime”, uno dei capi d’accusa utilizzati anche contro Naser Zefzafi, portaparola del movimento dell’Hirak, condannato nel 2019 a venti anni di reclusione.
Nel mirino della polizia politica non ci sono solo riconosciuti giornalisti d’inchiesta e giovani attivisti il cui arresto ha spesso una risonanza all’estero. Esponenti del giornalismo locale, blogger, youtuber, rapper antagonisti e loro seguaci subiscono in molti casi la stessa sorte. Basti pensare alle persecuzioni contro il rapper L7a9ed, attualmente auto-esiliatosi in Belgio, arrestato già nel 2011 e condannato a un anno di prigione per un brano contro la corruzione della polizia, e alla dura repressione nata a seguito della diffusione del brano Ach Acchab! (Viva il Popolo!) del 2019 del terzetto Weld lGrya, Lz’er e Lgnawi – quest’ultimo arrestato e condannato a un anno di prigione –, nella quale i tre si rivolgono direttamente al re ritenuto responsabile dei molti mali che affliggono il popolo marocchino. Alcuni adolescenti sono stati arrestati solo per aver diffuso il video del brano. Altri sono stati arrestati per aver pubblicato dei video nei quali si denunciano le ingiustizie sociali, la mancanza di servizi e le dure repressioni della polizia. Spesso anche la semplice organizzazione di pacifiche manifestazioni di protesta locali hanno portato all’incarcerazione dei presunti responsabili. Nella maggior parte dei casi si tratta di giovani non politicizzati, che semplicemente prendono atto delle ingiustizie e ne parlano in pubblico utilizzando il web.
Uno degli ultimi arresti ha riguardato Adil Labdahi, attivista di Casablanca, a seguito di un video del 3 febbraio scorso nel quale si indirizza direttamente al re attribuendogli ogni responsabilità per quello che potrà succedergli e affermando di non voler più fare atto di sudditanza e lealtà alla monarchia attraverso il rito del Be’a. Adil era stato rilasciato il 27 giugno 2020 dopo tre anni di prigionia a Tiflet, quella che, da altri reduci, viene definita la prigione della vergogna e dell’umiliazione. Le accuse riguardavano un’ipotetica “minaccia alla stabilità interna dello stato”, a seguito delle sue critiche contro la corruzione del sistema amministrativo a Casablanca. Labdahi aveva denunciato le politiche istituzionali in materia di relogement degli abitanti delle bidonville oggetto di demolizioni a Casablanca. Il suo giornalismo è basato sulla raccolta di documenti e testimonianze, puntualmente registrate tramite gli innumerevoli video che pubblica sul suo canale youtube “Anticamora”. Si tratta di un giornalismo non convenzionale, fuori dal registro della produzione scritta ma profondamente legato all’uso delle piattaforme social, che non a caso ha trovato maggiore diffusione a partire dalla stagione di lotte di dieci anni fa.
Nel 2011 molti credevano che il “Movimento del 20 febbraio” avesse perso la sua forza a causa di eccessivi frazionamenti interni, tentativi di manipolazione e mancanza di legami con le classi e i quartieri popolari. La nuova costituzione, che avrebbe dovuto aprire la monarchia a un sistema parlamentare più democratico, annunciata dal re solo un paio di settimane dopo la nascita del Movimento, emanata il 17 giugno e plebiscitata da un referendum nel mese di luglio, appariva da un lato come un possibile riconoscimento delle richieste del movimento, dall’altro come un tentativo di calmare gli animi, simulando una democratizzazione mai realmente realizzata. La monarchia sembrava uscirne vincente e a testa alta, soprattutto nell’arena mediterranea e internazionale, avendo ridotto i rischi di una rivoluzione dagli strascichi imprevedibili, com’è poi stato in Egitto e in Siria. Il Marocco è diventato così il partner ideale per far confluire investimenti, soprattutto nei settori della logistica e della finanza. Il porto internazionale di Tanger Med, l’esternalizzazione della produzione di diverse multinazionali e i poli di offshore costruiti a Casablanca ne sono un esempio. In questo modo l’apparato di potere informale del makhzen ha continuato ad accaparrarsi risorse, con l’avallo di paesi stranieri e di accordi internazionali con Europa e Stati Uniti. L’aumento degli investimenti esteri non ha portato però a un innalzamento dell’occupazione e a un miglioramento delle condizioni di lavoro. Sebbene i numeri non forniscano un quadro esaustivo, è interessante notare come nel 2018 il flusso netto di investimenti stranieri ha raggiunto il suo picco, in un trend crescente negli ultimi dieci anni; contestualmente il tasso di occupazione della popolazione attiva si attesta al 46%, quasi quattro punti inferiore rispetto al 2010 (dato ulteriormente in calo nel 2020: 44,8 %). Tra i settori oggetto di grandi investimenti, ci sono anche l’immobiliare e il manufatturiero. Il tessile, in particolare, occupa una posizione ancora predominante. La città di Tangeri è costellata da piccole, medie e grandi aziende, più o meno formali, che subappaltano il confezionamento di capi d’abbigliamento prêt-à-porter di grandi marchi multinazionali. In queste aziende le condizioni di lavoro sono spesso al di sotto degli standard minimi, generalmente col beneplacito di enti locali e istituzioni, generando dei costi sociali tristemente elevati. I recenti fatti di cronaca ne sono una prova: lo scorso 8 febbraio diciotto operaie e dieci operai hanno perso la vita folgorati e annegati in una fabbrica abusiva nel sottoscala di un palazzo che si è inondato a causa delle forti piogge delle ultime settimane.
Il malcontento nella popolazione è alto e l’attuale situazione pandemica ha inasprito le criticità legate alla mancanza di un sistema di welfare a sostegno delle fasce deboli, oltre all’inadeguatezza del sistema sanitario. Il tasso di emigrazione dei giovani, più o meno professionalizzati, non accenna a diminuire. Gli accordi bilaterali con i paesi europei e l’esternalizzazione delle frontiere europee hanno reso i passaggi irregolari più difficili e il controllo militare dei territori di confine sempre più violento. Solo durante la scorsa settimana duri scontri si sono registrati a Fnideq, città di frontiera nei pressi di Ceuta, una delle enclave spagnole sul territorio marocchino. Ma le frontiere non sono militarizzate solo a nord del paese; a sud la questione ancora irrisolta con il Sahara Occidentale è ritornata all’attenzione nazionale e internazionale a seguito degli eventi degli ultimi mesi. A novembre 2020 il Marocco ha violato il “cessate il fuoco” imposto più di trent’anni fa a seguito del tentativo di attivisti del fronte Polisario di mettere fine alla situazione di blocco e riaprire la libera circolazione di persone e merci verso la Mauritania. Il mese successivo, Donald Trump, ancora presidente degli USA, ha riconosciuto la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale, barattandola con il pubblico riconoscimento da parte del Marocco dello stato di Israele.
Tutto cambia senza mai cambiare veramente quindi in Marocco? Sul piano dei diritti il 2011 ha riaperto una stagione di persecuzioni politiche che sembravano appartenere agli “anni di piombo” del precedente sovrano Hassan II, dai quali Mohamed VI aveva professato di volersi affrancare. Se dovessimo misurare al netto il livello di libertà d’espressione e dissenso, giustizia sociale ed equa ripartizione delle risorse, oggi in Marocco, dieci anni dopo il Movimento del 20 febbraio, ne risulterebbe un quadro sconfortante, dove a prevalere sono ancora una volta gli interessi dei dominanti. Ma il 2011 ha segnato solo il fischio d’inizio e i momenti di ribellione hanno scandito questi ultimi anni: alle manifestazioni degli stagisti e studenti in medicina del 2015 ha fatto seguito la rivolta delle candele a Tangeri. Il già citato movimento popolare nella regione del Rif – iniziato nel 2016 a seguito della morte del pescivendolo Mohcine Fikri, maciullato dal camion dei rifiuti mentre cercava di recuperare la merce che gli era stata confiscata –, e la sua feroce repressione hanno mostrato la natura militare del potere ma anche mobilitato una buona parte dell’opinione pubblica del paese. Il boicottaggio del 2018 contro la Danone, Sidi Ali e Afriqia a seguito di un improvviso aumento dei prezzi ha costretto le grandi industrie a negoziare con i consumatori.
Se guardiamo con attenzione al lessico del dissenso, alla moltiplicazione degli episodi di rivolta e alla sempre più diffusa mancanza di fiducia nella monarchia e nella persona del re, è evidente come il movimento innescato dieci fa, insieme alla mancata riforma del sistema monarchico e alla cieca persecuzione degli oppositori, sembrano aver aperto una stagione di cambiamento che non è ancora chiusa. Se prima la fedeltà del popolo alla monarchia e l’inviolabilità del re erano ritenuti fattori inconfutabili, oggi sono costantemente messi in discussione da un numero crescente di persone. Il Marocco appare allora come una cocotte-minute, una pentola a pressione sempre sul fuoco: il fischio c’è già stato ma il vapore non è ancora del tutto liberato. Quanto ancora il contenente riuscirà a trattenere il contenuto è difficile da prevedere. Ma quando questo avverrà la primavera, forse, arriverà. (laura guarino)
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