È arrivata prima l’onda d’urto e poi, dopo un incalcolabile attimo, un boato ci ha attraversato la carne rivelandone l’effimera consistenza. Il primo pensiero impulsivo è stato: «Adesso ne sganciano un’altra», e d’istinto ci siamo allontanati dalle finestre che, aperte, non sono andate in frantumi. L’intensità dell’esplosione è stata tale che ho immediatamente pensato fosse avvenuta dietro casa. Dal rumore è parso che la terra sulla quale poggiavamo fino a un momento prima si fosse aperta per far posto agl’inferi.
Casa nostra è a due o tre chilometri in linea d’aria dal porto. Ci siamo precipitati fuori dal palazzo, per paura che ci crollasse addosso, e col naso all’insù abbiamo visto una colonna di fumo rosa che si alzava in cielo. Dopo aver controllato che stessero tutti bene, ovvero che non ci fossero morti tra i nostri amici e i familiari di Farah, verso sera sono andato in ospedale per donare il sangue ma, non sapendo per certo il mio gruppo sanguigno, sono stato rimbalzato. L’emergenza era tale che non avevano tempo di controllare. Torna domani mattina! All’ospedale dell’Università Americana di Beirut, solo in parte danneggiato, le scene erano apocalittiche. Feriti portati in braccio, ambulanze impazzite, la polizia che tentava invano di ordinare il caos. E una fila infinita di donatori di sangue che aspettavano il loro turno sotto i pannelli di cartongesso che penzolavano dal soffitto sconquassato. È stato solo al mattino del giorno seguente, dopo una notte insonne, quando le tenebre di una città senza elettricità da mesi si sono alzate, che l’entità dell’esplosione è apparsa in tutta la sua devastante magnitudine. I morti a oggi sono duecentoventi, cinquemila i feriti e un centinaio i dispersi. All’inizio si era parlato di tre o quattro miliardi di dollari di danni, adesso siamo già a quindici. Il porto, polmone economico di un paese che importa l’80% delle sue merci, praticamente non esiste più. L’impatto di cotanta tragedia in un paese già allo stremo è incalcolabile.
Ma la parola tragedia è ripudiata dalla maggior parte dei libanesi che gridano lividi di rabbia al crimine contro la popolazione e la sua umanità. Colpevoli, già processati e condannati in via definitiva, tutti gli appartenenti alla classe politica libanese. Rei di una negligenza letale che nessuno mai avrebbe potuto immaginare arrivasse a tanto e che nessuno mai gli perdonerà. Se infatti le speculazioni su cosa sia successo esattamente abbondano, il fatto incontrovertibile e appurato è che quasi tremila tonnellate di nitrato di ammonio, sostanza usata in agricoltura come fertilizzante o come componente per ordigni esplosivi, giacevano da sette anni al porto di Beirut, in pieno centro cittadino. Le autorità portuali erano al corrente della sua presenza nonché della sua pericolosità e così anche le autorità libanesi a cui era stato richiesto di intervenire. Invano.
L’esplosione, aldilà delle cause ancora da stabilire, si poteva evitare. Questo è certo ed è molto grave. Il porto di Beirut d’altronde è lo specchio della società libanese, santuario senza legge del profitto a breve termine. Buco nero dove ingenti somme di denaro finiscono nelle tasche dei dirigenti senza lasciare traccia alcuna. Quando i francesi si spartirono il Levante con gli inglesi un secolo fa, al tramonto dell’impero ottomano, fu proprio il porto, all’epoca nelle mani della borghesia sunnita, che determinò accidentalmente il carattere multiconfessionale del paese dei cedri. Mentre i francesi con l’ipocrita scusa di “proteggere” i maroniti, originari della montagna, volevano un paese amico interamente cristiano, il porto e la strada che dai suoi moli porta a Damasco costrinsero la potenza coloniale a includere i musulmani, in lieve minoranza, nel quadro nazionale. Un Libano tutto cristiano ma senza accesso alla costa, coi porti di Saida e Tripoli anch’essi in aree a maggioranza musulmana, sarebbe stato economicamente e strategicamente inutile. Davanti alla scelta se difendere i loro “cugini cristiani” o fare affari col “nemico musulmano”, i francesi non ebbero esitazioni. E a suggello di questa ineccepibile scelta, le autorità coloniali idearono e imposero un sistema politico-confessionale che è l’esatto opposto della loro tanto declamata laïcité. Stato e religione in Libano sono uniti da un vincolo indissolubile garantendo così un sistema iniquo che tutt’ora favorisce la criminosa spartizione politico-economica delle risorse in nome della pluralità confessionale. Ciò detto, in pochi amano ricordare che il mandato francese fu aspramente criticato e combattuto sia dalle comunità musulmane che da quelle cristiane.
Quando la settimana scorsa Emmanuel Macron, presidente della repubblica francese e, in quanto tale, co-principe di Andorra e protocanonico d’onore della basilica di San Giovanni in Laterano (alla faccia della laicità…), ha ispezionato le strade distrutte della capitale libanese, la reazione è stata contrastante. Da un lato c’è chi l’ha accolto come un salvatore della patria, implorandolo di non dare un solo euro al governo libanese (su Facebook è girata una petizione per rinstaurare il mandato francese che ha raccolto oltre 50.000 firme in poche ore…). Dall’altra, c’era chi faceva giustamente notare che la Francia, aldilà delle sue responsabilità coloniali, è da anni che alimenta la riproduzione della classe dirigente libanese a suon di prestiti, aiuti economici e complicità diplomatica. Un drappello di militanti di sinistra ha anche urlato in faccia al presidente francese “Georges Abdallah, libero!” (Abdallah è un militante della formazione marxista Fractions armées révolutionnaires libanaises che langue nelle prigioni francesi dal 1984).
Che Macron sia un ex investitore finanziario che ha passato in Francia la loi travail a suon di manganellate e contro la volontà del parlamento francese non fa altro che aggiungere un pizzico di “ironia” alle dichiarazioni di ieri: «Il Libano si rialzerà e noi saremo al suo fianco», «I nostri aiuti non finiranno nelle mani dei corrotti». Staremo a vedere… Chi invece non si è fatto vedere proprio è il governo libanese. Quando l’ex primo ministro Saad Hariri il giorno dopo l’esplosione è arrivato nella zona più colpita della città è stato ricoperto di insulti. Subito reciprocati dai calci e gli spintoni dei suoi scagnozzi. Nessun altro rappresentante della classe politica libanese ha osato farsi vivo il giorno dopo, nel timore più che fondato di essere linciato (unica eccezione la ministra degli sfollati, Ghada Shreim Ata, anche lei presa a male parole e allontanata immediatamente dalle guardie del corpo). Nei giorni seguenti ci hanno provato anche il ministro dell’educazione e il governatore di Beirut e provincia, anche loro cacciati a insulti. Governo assente anche nelle operazioni di primo soccorso e pulizia, interamente organizzate da privati cittadini, da improvvisati gruppi di mutuo soccorso, qualche ONG, dai boy scout, dalla croce rossa e dalla protezione civile (che in Libano è interamente composta da volontari che da anni chiedono di essere pagati). Unico contributo statale ai soccorsi: l’esercito fermo agli angoli delle strade senza muovere un dito, eccetto che per accendersi una sigaretta. Il giorno dopo la visita di Macron, il governo ha addirittura negato l’ingresso nel paese di una missione di soccorso della ONG francese Secouristes sans frontières. Circolavano anche notizie di un gruppo di periti olandesi a cui è stato negato l’accesso al porto, rimbalzati da un posto il blocco all’altro. Il presidente libanese Michel Aoun ha dichiarato che un’inchiesta internazionale, caldeggiata da Amnesty International e invocata a gran voce dai libanesi, sarebbe uno spreco di tempo.
Il giorno dopo l’esplosione il quartiere dove ho abitato fino a marzo, prima di trasferirmi dall’altra parte della città per essere più vicino all’università, era praticamente raso al suolo. I miei ex coinquilini e vicini di casa, tutti vivi per fortuna, hanno salvato il salvabile e sono andati a dormire a casa di amici o parenti. Le strade risuonavano del rumore monotono dei vetri in frantumi spazzati agli angoli delle strade. Negozi sventrati, edifici pericolanti senza più le finestre. Trecentomila sfollati in una città che, anche a fronte della devastazione, continua ad essere piena di appartamenti sfitti, perlopiù di lusso. Non fosse stato per il lockdown e la crisi economica devastante, le vittime probabilmente sarebbero state anche di più, dato che la zona adiacente al porto era anche quella della movida alternativa. I quartieri di Gemmayzeh, Mar Mikhail, Geitawi e Aschrafyeh, i più colpiti, erano anche i meno devastati dal punto di vista della speculazione edilizia. Nelle loro vie si intravedevano ancora scorci di quello che era stata Beirut prima della guerra civile. In tutto il suo splendore.
Il lutto e il dolore si stanno rapidamente trasformando in una rabbia che, adesso che praticamente non c’è più niente da perdere eccetto la vita, potrebbe risultare esplosiva. La notte dopo l’esplosione manifestazioni spontanee vicino al parlamento sono state disperse a colpi di lacrimogeni. Il giorno dopo dalle statue in centro pendevano cappi di corda, sui social degli attivisti libanesi s’inneggiava all’impiccagione della classe politica. Sabato una manifestazione imponente che si preannunciava di fuoco ha lasciato più di duecento feriti per strada, una sessantina dei quali è stata ricoverata in ospedale. Esercito nelle strade con mezzi blindati e maschere anti-gas in assetto da guerra. Spari sulla folla provenienti da soldati o poliziotti in borghese. Un poliziotto ha perso la vita in circostanze ancora da chiarire. Diversi ministeri sono stati occupati dai manifestanti, stessa sorte è toccata a L’Association des Banques du Liban. Bruciate le foto del presidente e impiccate le sagome di tutti i leader dei partiti confessionali. Si sono dimessi alcuni parlamentari e ministri e verso sera il primo ministro Hassan Diab ha annunciato elezioni anticipate. Non è assolutamente chiaro come, dove e quando, dato che chi può permetterselo sta già scappando e le vie della capitale sono semi-deserte. Il paese è sospeso sull’orlo del precipizio, ostaggio di una classe dirigente che definire criminale sarebbe lusinghiero. È altresì difficile immaginare un’alternativa rapida ed efficacie a un sistema tanto marcio quanto radicato e capillare. Da mesi il governo tarda a implementare le riforme promesse, senza le quali gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale e dei “paesi amici” non ci saranno, determinati a mandare in malora la popolazione pur di salvare i loro immondi profitti. Nulla sarà più come prima, questo è pressoché certo. Nessuno però è in grado di prefigurare quello che verrà. Il timore è che la voragine causata dall’esplosione stia per inghiottire l’intero paese. (giovanni vimercati)
Leave a Reply