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Sciap-Sciap, Sciap-Sciap, Sciap… le ciabatte del tizio strascicano e mi staccano un attimo dall’allucinazione vigile che segue l’elicottero finita la telefonata. Mi guarda e sbuffa una risatina. «Se potessero nci bbombaidderebbbero», mi dice in sicitaliano, e fa un altro tiro. C’ha una certa età, almeno trentanove, sciatto nella canottiera bianca me lo ricordo che l’altro ieri serviva panini a un chiosco al concerto di Manu Chau. Pare l’italiano medio al risveglio lento della domenica mattina, non fosse per i capelli lunghi e gli orecchini. Il sorriso accennato tra la sufficienza e l’affettuoso mi legge chiaramente addosso il terrore che cerco di mantenere imbavagliato nelle segrete dello sguardo.
«CI MUOVIAMO RIGA’?».
«Calmati, tua sorella è andata in bagno».
«Che c’entra calmati, non cominciamo per favore».
«EHEHEHEHEHEHEH», mio cugino se la ride come sempre quando battibecchiamo io e Barbara. Tra qualche ora perderà tutta la sua ironica e sagace ilarità, urlando «BBASTARDIIIIIII» all’indirizzo di elicotteri che sparano lacrimogeni, col muco acido mischiato alle lacrime impolverate sulla barba. Ma davvero sparavano lacrimogeni dagli elicotteri? È un’invenzione letteraria della mia memoria?
CAMMINIAMO SPEDITI E INCORDONATI CCRRR CAMMINIAMO SPEDITI E INCORDONATI CCRRR CAMMINA CARMELA MANNAIADDIO CCRRR.
Ogni frase spingo fuori il catarro, devo essere proprio uno schifo a guardarmi, chissà che schizzi melmosi che arrivano addosso a Maren.
Mia sorella sembra sempre calmissima e pare che non si vuole muovere e manco scappa quando si deve scappare. Pare che la sua reazione psichica è un blocco emotivo che non le fa provare niente e non capisce che si deve muovere. «PIÙ VELOCE CHE SONO QUA DDIETRO MUOVITI MANNAIADDIOOO». Pare che non ce la fa a scattare, pare che si protegga diventando calma e lenta. TROPPO LENTAAA MUOVITIIIII. Ieri mi ricordo che due camionette dei carabinieri erano in corsa dietro a noi tra le vie della città, per fortuna piuttosto strette, e i suoi movimenti davanti a me mi parevano letteralmente al rallentatore.
CCRR CCRR CCRR. «BBASTARDIIIII». No, non me lo invento, davvero lanciano lacrimogeni dagli elicotteri. Piovono letteralmente come grandine che fuma. Tutto il corteo fuma, tutti i cortei, che ormai sono tanti da uno che era e s’è spezzettato, fumano tutti i corpi uno per uno.
È da ieri che può succedere qualunque cosa e ne succedono continuamente di impensabili. A lato corteo tre ragazzi incappucciati neri si avvicinano minacciosi a un gigante grasso e coi ricci rossi che riprende con una videocamerona. Black Bloc aggrediscono giornalista tedesco, la possibile didascalia. Non fosse che il gigante comincia a ridere come un pazzo invasato e li aggredisce lui con fendenti della videocamerona e questi scappano.
Ieri gli espropri e le macchine incendiate e quella specie di giochi senza frontiere: chi trova l’itinerario per tornare a casa vince. Ogni stradina poteva diventare una bocca sputa-divise, appena scappati da una carica e imboccata una via possono passare cinque, dieci, quindici, venti minuti e bisogna deviare scappando da un’altra carica. Per tornare al campeggio ci mettiamo forse cinque ore. Girano notizie. Al capo politico della nostra area, diciamo antagonisti a sinistra dei disobbedienti, i black bloc hanno spaccato la testa con un sercio. Un compagno è stato ucciso. Molti scomparsi. Una ragazza giustiziata da un poliziotto in borghese con una pistolata in faccia. Quest’ultima ovviamente è una leggenda express di movimento. Le altre purtroppo no.
«Riga’ lo volete capi’ che è gguera!? Dovemo fajela paga’ ebbasta».
«Sì, ‘a guerra. Chesto vo fa’ ‘a guerra cu prieveti e boy scout…».
«ME LO SPIEGATE CHE C’ENTRANO LE 127 BRUCIATE CO’ LA LOTTA DE CLASSE!?».
«Ao’, bada che stai a sgrava’, attento che stai a sgravaaa’!».
Credo che sia l’assemblea più delirante da decenni.
Sono del tutto inadeguato alla situazione. E quando mai…
Carlo. Si chiama Carlo. Stava al corteo dei disobbedienti. È di Genova.
Fermi tutti. Almeno nella mia memoria fermatevi tutte e tutti.
Almeno nella memoria, che non continui lo show, la contesa simbolica delle zone rosse, la retorica di un movimento che su questa tragedia esplose in una bolla politica che ci portò in piazza a milioni contro la guerra senza riuscire a concludere niente.
Fermi tutti, niente corteo domani.
Fermi tutti, cerchiamo di capire almeno perché è morto Carlo, cerchiamo di capire cosa gli dobbiamo.
Anni dopo sua madre, Heidi Giuliani, in un campeggio di lotta calabrese, disse in assemblea: «Gli anarchici sono le gazzelle di questa feroce savana che è diventato il mondo capitalista». Se non parola per parola, il senso era questo. Carlo è stato una gazzella che assale il leone, io credo questo. Il Re dalle fauci implacabili se l’è mangiato. A ciascuno il suo. Il Re ha fatto quello che al suo ruolo corrisponde, Carlo, con molto più coraggio, generosità, incoscienza, libertà e forse, prima di morire, gioia… ha fatto quello che corrispondeva a lui. Per questo mi sento di dire: Carlo non è una vittima. Carlo è un combattente morto in battaglia.
Ancora non ho capito cosa gli devo. Sempre meno, negli anni, ho avuto chiaro cosa fosse giusto in quel momento. La gguera? Fermare tutto? Continuare come da programma? Non so, non so nemmeno se ho del tutto diritto a un parere in merito vista la fortuna che ha voluto incolumi me e i miei, le mie… vivi e lontani dalla Diaz, da Bolzaneto, sul treno di ritorno mentre arrivavano le telefonate: «Stanno portando fuori la gente nei sacchi neri…» – «Che dobbiamo fare, scendiamo tutti…» – «Fermi, andate via, si mette troppo male, non è aria».
A distanza di anni, capisco sempre meno cosa era giusto fare. Se mi proietto là, sono inadeguato oggi forse più che non allora. Di certo però ho maturato profondo disgusto per la retorica vittimista e la logica del colpevole. Di chi è la colpa? Del governo, era tutto pianificato, hanno cercato il morto! Dei black bloc, pazzi, antidemocratici, hanno rovinato tutto! Bah… Il governo ha fatto il suo, l’ha fatto male e politicamente ha pagato pesantemente il fracasso sul piano nazionale e internazionale. I black bloc hanno fatto il loro. Hanno messo in difficoltà il potere politico nell’unico modo possibile: facendo saltare le regole imposte del gioco simbolico quale dispositivo sottotraccia di governo della piazza. ‘Sti cazzi della zona rossa, hanno detto loro, noi spacchiamo tutto ebbasta. Stucchevole il biasimo di chi ha di conseguenza visto impazzire i propri calcoli politici. I social forum, gli antagonisti, i disobbedienti eccetera eccetera eccetera. Tutte e tutti sapevamo che s’andava alla guerra. Solo che qualcuno ci andava dicendo: noi siamo nella corsia pacifisti, le cariche sono due corsie più in là. Qualcun altro: noi siamo quelli degli scudi, si prega di impugnare i manganelli in modo regolamentare così da non rompere la “testugine” altrimenti il gioco non può andare avanti. Altri ancora: noi semo i duri e quelle grate al confine della zona rossa le sfonnamo, pe’ fa’ che nun se sa… ma in ogni caso l’importante è che sia chiaro a tutti che sarà un fondamentale momento di ricomposizione di classe. Loro no. Loro hanno detto: ci siamo tutte e tutti dentro e noi siamo i colpevoli, presenti! E spacchiamo tutto e chi c’è c’è, a chi je tocca nun se ngrugna. E sti cazzi della zona rossa! Al diavolo le finte assemblee dove i soliti e le solite dicono le solite cose che già tutti sanno e applaudono a priori, chiamando questo vacuo trionfalismo di formulette ripetute in coro “costruzione di un altro mondo possibile”. Al diavolo gli slogan e i format standardizzati di mobilitazione. Al diavolo i portavoce intronati nei talk show. Noi spacchiamo tutto e basta.
Ebbene, nella confusione crescente del reduce d’un movimento in cui non ho mai contato un cazzo e per lo più ho fatto solo presenza, una cosa a distanza mi è chiara: loro, gli spaccatutto, sono state e stati prima, durante e dopo Genova l’unico elemento di verità nelle pantomime mondiali dei vertici e dei controvertici, gli unici che hanno decostruito con la critica delle armi l’ordine del discorso, simbolico e spettacolare, a cui invece tutti noi allora e poi per anni abbiamo inconsapevolmente partecipato, in un banale quanto rituale gioco delle parti a somma zero. Vuol dire che so’ diventato insu alla bellezza di quarantasette anni? No. Vuol dire che devo capire come far saltare tutto senza che ciò voglia dire un vortice di distruzione per la distruzione. Ecco, a Carlo, che forse si sentirebbe più vicino a quelli, e quelle, io per la mia parte forse devo questo. (arturo lavorato)
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