Così si esprimeva Gianni Rodari nel 1978. E considerando quanto fosse antimilitarista, distante dal lessico bellico come pochi altri, c’è da chiedersi cosa intendesse e perché scegliesse di ricorrere a questa espressione. Aveva letto e studiato Gramsci ed è lecito pensare che proprio a Gramsci Rodari fosse debitore della convinzione che all’interno di una società si confrontino interessi contrapposti, che questa lotta durissima non possa essere evitata e che sia dell’intellettuale il compito di affrontarla, smascherando i tentativi di chi vuole rimuovere questo scontro, avvolgendolo in una nube di fumo che ne confonde i contorni. Lo stesso Marx avvertiva i suoi contemporanei di fare attenzione ai tentativi del capitalismo di definire se stesso nei modi più diversi, proprio per mimetizzarsi ed essere così meno riconoscibile.
L’espressione di Rodari scuote. In quel momento l’esito dello scontro, che caratterizzava e avrebbe caratterizzato l’Italia, la sua società, le sue istituzioni, era ancora in bilico. La “rivoluzione passiva” non era giunta a compimento e le forze democratiche erano ancora dotate di una spinta che poteva determinare un’evoluzione diversa. Soprattutto a scuola. Dove le “vestali della classe media” si trovavano a fronteggiare la sempre più combattiva generazione che aveva alimentato le battaglie del ’68 e si trovava finalmente a condividere il ruolo della docenza, al quale aveva intenzione di attribuire una funzione riformatrice, progressista, emancipatrice, che avrebbe contribuito a rompere con la scuola autoritaria e selettiva degli anni precedenti. Questo scontro non si stava dando senza urti, contraccolpi e arretramenti, insieme a vittorie e risultati ancora oggi ineguagliati nei quarant’anni successivi. In termini di diritti, inclusione, democrazia. O “democratizzazione”, perché quel processo, come scriveva Alberto Alberti, non arrivò mai a compimento, non solo in Italia, ma sul piano globale, ed è vero quello che scriveva all’inizio degli anni Duemila Samir Amin sostenendo che “né la modernità né la democrazia hanno raggiunto il punto di maggiore sviluppo. Questo è il motivo per cui preferisco usare il termine ‘democratizzazione’, che sottolinea come questo processo sia dinamico e ancora non ultimato, piuttosto che il termine ‘democrazia’, che rafforza l’illusione che di essa si possa dare una formula definitiva”.
Oggi che quei giorni sono lontani resta il rammarico di averne non solo smarrito il ricordo ma di non essere stati in grado di recuperare se non in minima parte l’eredità intellettuale di chi in prima persona si impegnò per far prevalere nel nostro paese le istanze democratiche. L’anniversario del centenario della nascita di Rodari anche a questo o forse soprattutto a questo poteva servire. E invece eccoci, genitori, insegnanti, cittadini, inchiodati a discorsi aritmetici, a dibattere di misure, a confrontarci su rappresentazioni grafiche che sottraggono energie e risorse a ben altri dibattiti.
Perfino l’Economist riesce a esprimere con maggiore chiarezza quello che noi non riusciamo più a dire. Dopo aver visto finalmente scendere in piazza migliaia di persone, occupare le piazze di molte città nel tentativo di rimettere al centro dell’agenda politica i temi della scuola, spesso, anzi, quasi sempre al di fuori del perimetro delle lotte sindacali, puntando invece a un coinvolgimento ampio, non trasversale nel senso ideologico ma sociale, ci ritroviamo a ridosso del mese di agosto con un pugno di mosche in mano. Frustrati in alcuni casi, certamente insoddisfatti.
Come ripartirà la scuola a settembre rimane ignoto, sappiamo solo che le singole scuole hanno provato a fare uno sforzo di geometria e a immaginare di poter far funzionare tutto come se nulla fosse. Sorge il dubbio che in realtà ci si aspetti un nuovo stop, la famosa seconda ondata pandemica e che quindi sembri inutile preoccuparsi più di tanto.
Invece questa situazione poteva aiutarci ad affrontare alcuni nodi che hanno determinato la crisi nella quale si trova l’istituzione scolastica. La gestione, per esempio. Gli organi collegiali sono entrati in crisi ben prima di questi giorni ma il lockdown doveva portarci a riflettere sulla loro inevitabile riforma, non certo nel senso reazionario auspicato dall’associazione dei presidi ma neanche in quello conservatore che spesso ci ritroviamo a praticare a sinistra, che ci porta a ritenere meglio non modificare nulla nel timore che qualsiasi cambiamento ci riconsegni una situazione peggiore di quella presente. Gli organi collegiali sono troppo poco democratici, non il contrario. Non hanno garantito la partecipazione dei genitori a scuola né delle forze sociali che andavano coinvolte. Per questo vanno ripensati, non perché rallenterebbero il lavoro di gestione che i dirigenti scolastici, come nella scuola pre-sessantottina, vorrebbero avocare a se stessi.
Quello della gestione sociale della scuola è un tema fondamentale, che non può essere ridotto al ristretto perimetro del coinvolgimento del terzo settore. La scuola è di tutti, o non è di nessuno. Quale disponibilità c’è oggi a ragionare sul rapporto che deve essere messo in campo?
A questo tema se ne potrebbero aggiungere molti altri, ma io proverei intanto a ragionare su quello della formazione, in entrata e in servizio, che è direttamente collegato a quello del reclutamento. In settant’anni di scuola repubblicana non si è riusciti a organizzare un sistema di accesso all’insegnamento chiaro, lineare, stabile, e i tentativi di provarci sono in gran parte naufragati. Fit, Pas, Siss. Non se ne viene a capo. Per non parlare della scuola di base, dove a vent’anni dall’istituzione di un corso di laurea appositamente dedicato, la percentuale dei docenti con un titolo superiore è ancora bassissima. Questa confusione naturalmente è funzionale a una gestione politica della scuola che garantisce alla classe politica di mantenere la sua egemonia immettendo a piacimento personale alle condizioni di formazione che più le aggradano, utilizzandolo come ammortizzatore sociale o come serbatoio elettorale.
Proprio oggi, vista l’emergenza determinata dalla pandemia e la necessità di assorbire insegnanti, ci dovremmo interrogare sulle caratteristiche, sul profilo, sulla formazione delle persone che vogliamo sistemare in un luogo nevralgico per la società. Cosa devono aver studiato? Quali esperienze devono aver fatto? Ci possiamo accontentare di un personale assorbito solo sulla base di un titolo di studio datato, per il fatto di aver lavorato e acquisito esperienza sul campo, senza però che questa esperienza sia mai stata sottoposta al vaglio di qualcuno.
All’interno della equivoca questione del diritto/dovere alla formazione degli insegnanti in servizio c’è quella del controllo sul loro lavoro. Tra i riferimenti internazionali Cuba non è quasi mai citata e invece lì esiste un’esperienza molto interessante, quella dell’“entrenamiento metodologico conjunto” a cui si potrebbe pensare, tanto per sgombrare il dubbio dal fatto che chi scrive invochi l’istituzione di ispettori ministeriali con finalità punitive e repressive. Secondo Sergio Alonso Rodríguez, uno degli ideatori nel paese socialista di questa metodologia, questo approccio “contribuisce ad aumentare la qualità del processo educativo attraverso lo sviluppo costante del livello professionale, di modo che risponda meglio alle esigenze della società”. Gli insegnanti vengono accompagnati in un percorso di riflessione del loro operato, di ripensamento critico, perché attraverso il confronto emergano le criticità.
Come scriveva qualche giorno fa sul Manifesto Paolo Vittoria, esiste una divaricazione tra l’esperienza dell’insegnamento e quella della ricerca che va risolta. Insegnare è fare ricerca, così come studiare non può ridursi ad affrontare contenuti già preconfezionati ma deve implicare un costante esercizio di scoperta, cosa che non avviene se non in modo molto marginale nelle nostre università. Proprio noi, non possiamo accontentarci di una visione bancaria dell’educazione, ci direbbere Paulo Freire.
Abbiamo una data, il 26 settembre. Una manifestazione nazionale a Roma. Va costruita, sostenuta e riconosciuto come chi la propone, “Priorità alla scuola”, abbia in questi mesi, con i suoi gruppi, nei territori, lo slancio e la passione che ha saputo smuovere, costituito un riferimento per tutti quei collettivi che continuano a credere che la scuola, l’educazione, sia un terreno di lotta fondamentale.
Dewey denunciava i rischi per una democrazia nel momento in cui il processo formativo entrava in crisi, mostrando come al centro della società ci sia il momento formativo ed educativo. Forse potremmo andare oltre, o tornare più indietro, e scoprire che la riflessione di Gramsci è ancora più utile di quella dell’americano. Educazione e società, educazione ed economia sono strettamente legate. La crisi del sistema educativo non è casuale ma funzionale alla gestione capitalistica dei rapporti sociali. Le forze democratiche dovrebbero affrontare questa crisi e provare a risolverla intanto recuperando la visione che Gramsci proponeva, quella di un rapporto “disinteressato”, non funzionale alla riproduzione di un determinato tipo di lavoratore per un determinato tipo di sistema produttivo, perché il momento educativo contribuisca nei limiti delle sue possibilità a costruire quell’uomo plurilaterale, capace di superare la settorializzazione funzionale al modello produttivo capitalistico.
All’interno di questo sistema, la subalternità del momento educativo a quello economico è indissolubile. Allentarla ci dovrebbe portare a ragionare sulla massima espansione possibile delle istanze subalterne, sulla costruzione di altri orizzonti, ci dovrebbe portare a recuperare quella spinta ideale che sembra smarrita. Non è immaginabile recuperarla da qui a settembre, ma certo possiamo provare a lanciare dei segnali e a invertire finalmente la rotta. (giovanni castagno)
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