Sarà presentato giovedì 21 dicembre, nel corso di una iniziativa organizzata dalla redazione de Lo stato della città, Insegnare al principe di Danimarca, di Carla Melazzini. L’incontro si svolgerà a partire dalle 18:00 allo Scugnizzo Liberato (salita Pontecorvo, 46). Discutono del libro: Cesare Moreno ed Emiliano Schember. Modera Antonio Del Castello.
Pubblichiamo a seguire un estratto del volume.
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Un insegnante di media cultura e umanità è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane principe di Danimarca e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi. Ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere la stessa legittimità ai sentimenti di un adolescente di periferia che vive il tradimento della propria madre con l’intensità e la consequenzialità del principe Amleto?
Si racconta qui l’apprendistato di un gruppo di insegnanti di media cultura e umanità per conoscere le periferie della città e le periferie dell’animo degli adolescenti, cercando di stabilire con loro un dialogo educativo e di vita.
MIMMO
Mimmo, a quindici anni, è sicuro che il suo dovere sarebbe di uccidere l’uomo per il quale sua madre ha abbandonato da un giorno all’altro i cinque figli. È una ferita immedicabile, che impedisce di vivere (essere o non essere), figuriamoci di andare a scuola. Il padre lo accompagnava tutti i giorni sotto la scuola, insieme alla sorella, e loro se ne andavano, lui spesso scappava dalla madre, che desidera disperatamente riavere con sé.
15 settembre 1998. Accetta di iscriversi a Chance, partecipa alle feste dei primi due giorni. Il terzo giorno, quando si formano i gruppi “tutoriali”, dichiara che non può stare nello stesso gruppo con la sorella (che ha un anno meno di lui e in famiglia svolge il ruolo di madre vicaria). Il quarto giorno porta a scuola un quaderno dove ha scritto la storia della sua vita, spezzata in due dall’abbandono della madre.
Io sono nato il 14 maggio 1983. Quando ero piccolo era così bello perché non sapevo proprio niente. Poi mi sono fatto grande, e ho capito che l’amore di qualcuno fa veramente soffrire. A undici anni mia madre ci lasciò tutti noi. Io sono nato, e poi mi odiano; vorrei morire ma non subire. Ora sono geloso di una ragazza perché non la voglio perdere come ho perso mia madre.
Nel 1997, quando andavo alla scuola Monti, a scuola non andavo mai perché andavo a trovare mia madre. Io sono molto arrabbiato perché io non ho la mia mamma; mia sorella è contenta che non c’è la nostra mamma.
Nella stessa mattinata passa all’esterno dell’aula dove sta la sorella e mostra dalla finestra un coltello.
Più tardi, nel cortile, aggredisce e picchia uno dei ragazzi che stanno nel gruppo della sorella, Nando, che i genitori immediatamente ritirano dalla scuola. La comparsa del coltello e la concomitante scomparsa di Nando fanno aleggiare la fantasia che sia stato compiuto un omicidio: immediata si instaura la contro-reazione di espulsione, o almeno di severa punizione, del colpevole (a cominciare dalla sorella che urla: «Chiuritelo», chiudetelo in istituto; annoto nel diario del giorno di aver pensato per un attimo: «Sarebbe la soluzione più semplice»).
Fortunatamente niente di tutto ciò accade. Un colloquio il mattino seguente, il rientro in aula per aggiungere un altro capitolo alla biografia di Mimmo sulla base di tale colloquio; una lettera alla madre di Nando (questa la scrivono anche tutti gli altri ragazzi) perché torni sulle sue decisioni; un colloquio col padre di Mimmo (che aveva subito ritirato il coltello): la rottura è evitata, e dopo una settimana Nando rientra, festeggiato da tutti. La prima grave crisi di Chance viene dunque elaborata e riparata con generale soddisfazione.
Ieri ho picchiato un amico, però ha voluto lui, perché fece una cosa che non doveva fare, e a me dispiace. In questa scuola non si usano la violenza e neanche le armi: questo vale per tutti gli alunni.
…mi dispiace di Fernando. Io fra nove mesi penso che avrò rapporti con tutta la scuola. Sarò un ragazzo non felice, perché non è possibile essere felice senza la mamma, ma sereno; riesco a trattare con gli altri senza batterli e mi sono fatto tre amici sinceri. Farò l’esame per prendere la licenza media, e forse pian piano riuscirò anche ad andare d’accordo con mia sorella.
Il capannone dove si svolge la tumultuosa vita di Chance dovrà accogliere Mimmo, la sua sorella minore Pina, l’intera famiglia che in qualche modo ha percepito tutta quanta di avere trovato uno spazio (compresa la madre con amante e figlioletta al seguito, le cui esibizioni, per restare nel paragone letterario, non sfigurerebbero in un dramma elisabettiano). Il capitolo che nelle scuole perbene si intitola “rapporti scuola-famiglia” culmina nella giornata in cui un maldestro intervento dei servizi sociali sottrae a Mimmo e Pina i due fratellini più piccoli trasferendoli d’autorità in un centro d’accoglienza: è il momento in cui Mimmo fugge da scuola dichiarando di voler uccidere la madre, poi torna per piangervi tutte le sue lacrime. Pina invece si assenta per parecchi giorni, e non mangia più, forse per punirsi di aver trascurato il suo ruolo di madre per essere, a Chance, una ragazza come le altre. Gli altri ragazzi e ragazze piangono e soffrono insieme a Pina e Mimmo, perché si riattivano in quella mattinata tanti vecchi traumi.
Questi e altri episodi hanno fatto somigliare molte volte Chance più a un teatro che a una scuola: sarebbe stato opportuno stabilire confini più netti? Forse: ma se non si fosse offerta la scena per il dramma della sua famiglia, Mimmo avrebbe potuto sentire la scuola come uno spazio insieme di accoglienza e di protezione? (A sua madre è stato fisicamente impedito l’ingresso a scuola, alla terza incursione). E, quindi, avrebbe accettato di svolgervi le attività “didattiche”, che sono consistite prevalentemente in una continua rielaborazione della sua storia in diversi generi narrativi, e nella produzione di oggetti, dalla pagina scritta ai fiori di ceramica, concepiti ed eseguiti come doni per le persone a lui care?
Nessuno sa dire che cosa scattava in lui quando improvvisamente smetteva le sue attività “di disturbo” e si ritirava da solo con il suo quadernone; certo è che quelle pagine erano messaggi diretti a un interlocutore. Lo spazio insieme accogliente e protettivo della scuola gli ha permesso di sperimentare che la piena delle emozioni può essere trattenuta e dominata quando le si da una rappresentazione simbolica anziché tradurla in azioni: è troppo poco, come programma di terza media?
Mimmo è rimasto sempre a Chance, totalizzando uno dei più elevati indici di frequenza. E rimasto anche dopo l’episodio più violento di tutta l’annata, che lo ha visto protagonista insieme ad un compagno. La risposta è stata un “allontanamento” di due giorni, di più non avrebbe tollerato. È interessante a questo proposito il paragone con l’andamento scolastico “normale”, e cioè la diffusa pratica di sospendere questo tipo di ragazzi “con obbligo di frequenza”, resa necessaria dal fatto che la sospensione è vissuta in genere dal punito come la desiderata autorizzazione a stare a casa: l’attaccamento dei ragazzi di Chance alla loro scuola era dichiarato nel modo più plateale quando minacciavano, se li avessimo cacciati, di “appicciare tutto”. Questa impossibilità di cacciarli, risultata evidente da subito, è stata il problema più tormentoso, che ogni giorno riproponeva in nuove forme una medesima domanda: fino a dove?
Un anno dopo, è stato possibile riconoscere senza difficoltà che l’unico limite da osservare era quello della capacità del gruppo docente di reggere l’urto senza disgregarsi.
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