La scuola è stata la prima a chiudere per il Covid-19. Nelle prime regioni colpite il provvedimento è arrivato in due giorni. Bar, ristoranti, luoghi culturali, eventi, negozi, uffici, località turistiche hanno avuto più di due settimane di tregua, dalle conseguenze tragiche, alimentata da enfatici appelli alla resistenza in nome della produttività e del consumo e alla sdrammatizzazione del rischio. Fabbriche e cantieri sono andati avanti ancora più a lungo, e molte aziende (fino al cinquanta per cento) non hanno mai chiuso, comprese quelle di armi, nonostante il pesantissimo regime di clausura e distanziamento fisico imposto alla popolazione.
La prospettiva è incerta, perché i dati e le informazioni che dovrebbero dimostrare l’efficacia o meno di determinate politiche in diversi paesi sono inaffidabili, sospetti. Ma appare sempre più probabile che la diffusione del contagio continui molto più a lungo di quanto sia lontanamente sostenibile mantenere un regime di chiusura così severo. Anche paesi più solidi dell’Italia non riescono a elaborare risposte chiare sull’assetto futuro delle misure di contenimento, ma qui in particolare sta prendendo forma la spinta ad allentare il più presto possibile i vincoli che bloccano produzione, commercio e turismo (e quindi le persone che li fanno girare), e a tenere stretta la morsa sul resto della popolazione. Le persone potranno – o dovranno – progressivamente muoversi non in funzione del ripristino delle libertà e dei diritti fondamentali, ma solo in funzione del contributo che sarà loro richiesto di dare all’economia, in veste di lavoratori o consumatori. In particolare la scuola, ferma dal 22 febbraio in Lombardia e progressivamente nel resto d’Italia, sembra pacificamente destinata a essere l’ultima a riaprire. Il principale argomento a favore di questa chiusura è la didattica a distanza, attivata velocemente a tutti i livelli ed equiparata in toto alla scuola, intesa come luogo fisico.
DISEGUAGLIANZA PROGRAMMATA
Chiunque insegni, abbia figli o abbia chiesto a docenti e studenti si rende conto che, nonostante gli ammirevoli sforzi compiuti dalla grande maggioranza delle persone coinvolte – insegnanti, studenti e genitori – l’e-learning non può essere considerato altro che una soluzione di pura emergenza, e non è accettabile prolungarlo oltre l’estate, a meno che la letalità del virus non costringa a tenere chiuse anche tutte le altre attività. E questo non perché in casi circoscritti non possa dare buoni risultati, ma perché produce diseguaglianza. La scuola pubblica italiana, nonostante tutti i suoi problemi e i tagli pluridecennali, ha tuttora la funzione di costruire e fornire pari opportunità per tutti gli studenti. Senza alcun bisogno di ricorrere ai discutibili risultati dei test Invalsi, sappiamo che da anni le diseguaglianze nella scuola, tra ricchi e poveri, tra famiglie presenti e assenti, tra studenti del nord e del sud, dei centri urbani e delle periferie, continuano ad aumentare. Ma la didattica a distanza non fa che peggiorare la situazione, perché è strutturalmente inadeguata a colmarle. E non solo, come si vuole far credere, a causa del digital divide. L’Istat rileva che un terzo degli studenti italiani non possiede computer, ma la gara di social washing tra aziende, associazioni e politici che regalano device non arginerà l’esclusione vissuta dai bambini o ragazzi che abitano in case affollate, con famiglie che non sono in grado di supportarli, o che hanno problemi di attenzione, di iperattività, di qualunque altro tipo. L’abisso tra questi studenti e quelli con madri, padri, nonni dedicati, insegnanti privati assoldati per supplire con lezioni di musica, matematica, inglese, latino online e offline, si approfondisce ogni settimana, e ha dei costi sociali enormi. Gli insegnanti, anche i più ottimisti e volenterosi, sono sottoposti a uno sforzo che non trova conforto nei risultati: la relazione umana diretta con una classe è irriproducibile su una piattaforma spesso anche difettosa, e l’inevitabile presenza, occulta o manifesta, dei genitori è inibitoria e poco dignitosa per chi lavora.
SCUOLE E CONTAGIO
L’altro grande argomento a favore della chiusura a oltranza delle scuole è la presunta impossibilità di imporre distanze di sicurezza ai bambini, il che si tradurrebbe in una diffusione molto più rapida del contagio rispetto agli altri spazi chiusi popolati da soli adulti. Ma ci sono molte evidenze che contraddicono questa ipotesi: «Deve essere chiara una cosa – afferma Ernesto Burgio, uno dei medici che si è espresso in maniera più chiara sul tema – essendo un virus respiratorio, il novanta per cento dei contagi avvengono tra persone che hanno un rapporto diretto, che hanno un’esposizione ravvicinata, in ambienti chiusi. Cioè: famiglia, luoghi di lavoro e purtroppo ospedali». E anche tutti gli altri spazi al chiuso densamente popolati, come palestre, piscine, negozi, bar, ristoranti, centri commerciali, supermercati, luoghi dello spettacolo, musei, località turistiche, mezzi di trasporto collettivo, fiere ed eventi. Mascherine, sanificazioni e distanziamento sono palliativi per la condivisione, soprattutto prolungata, di ambienti chiusi. E chiudere solo le scuole nelle prime due settimane in Lombardia non è servito a molto, con il resto che continuava ad andare.
Con la differenza che, stando ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità, il segmento di popolazione sotto i cinquant’anni corre un rischio molto più basso di contrarre il virus in maniera grave (in tutta Italia 178 su 14.860 decessi al 6 aprile), e in particolare i bambini risultano estremamente resistenti in tutte le statistiche mondiali. Il professore Russel Viner dell’istituto pediatrico dell’University College London spiega che «la chiusura delle scuole è efficace nei casi in cui il virus è caratterizzato da bassa trasmissibilità e da alti tassi di infezione tra i bambini: esattamente l’opposto del Covid-19. Abbiamo dati limitati sull’effetto della chiusura delle scuole sull’epidemia, ma da quello che sappiamo il suo impatto è presumibilmente piccolo rispetto ad altre misure come l’isolamento dei casi positivi e ha senso solo se associato ad altre misure di contenimento». La riapertura delle scuole avrebbe quindi un impatto più leggero sul servizio sanitario rispetto alla riapertura di strutture commerciali o produttive, a una condizione fondamentale: che dal contagio scolastico vengano protette le fasce di popolazione fragile, vale a dire che il personale scolastico sopra i cinquant’anni, o con problemi di salute, venga sostituito da supplenti per qualche mese, e che i bambini vengano isolati dai nonni.
PIANIFICAZIONE NECESSARIA
Quello che in altri paesi con un welfare pubblico più solido e meno appoggiato sulla solidarietà familiare sembra un discorso razionale, su cui eventualmente dibattere per valutarne i pro e i contro, in Italia assume una sfumatura irreale e tragica: separare i nipoti dai nonni è un tabù, anche se si tratta di salvare la vita della fascia più a rischio. Non solo le istituzioni, ma persino molti genitori preferiscono separare i bambini dagli altri bambini, privarli della socialità, piuttosto che dividerli dai nonni. Nella comparazione tra costi e benefici, la compromissione della salute mentale di bambini e ragazzi privati di una socialità minima e spinti a vivere sempre di più qualunque rapporto con l’esterno attraverso i device, vale meno dell’irreale pretesa di mantenersi completamente sterili dal contagio. Eppure sono molti gli studi scientifici che attestano la sproporzione tra i vantaggi di un lockdown prolungato e i danni e rischi che produce su bambini e adolescenti, oltre che sugli adulti.
È un assurdo ripiegamento nella sfera ristretta familiare che si spiega in parte con l’ossessione per la sicurezza, penetrata a fondo in ogni meandro del tessuto sociale e culturale di questo paese, ben oltre le sfere che alimentano il successo leghista. Ma la cieca adesione a delle regole basilari, riassumibili in slogan emozionali, è anche la conseguenza di anni e anni di denigrazione e distruzione della critica. Se a Milano i più accaniti persecutori dei runner e dei bambini a passeggio sono gli stessi che pochi giorni prima avevano gridato entusiasti #milanonsiferma, quelli che oggi accettano con la più passiva rassegnazione (o addirittura sostengono) la necessità di tenere le scuole chiuse per mesi, o anche anni se il vaccino tarda a comparire, sono quelli che più sbraitavano fino a poco fa sull’inefficienza e “scarsa competitività” della scuola pubblica italiana, spesso senza alcun rispetto per il lavoro e i risultati spesso sorprendenti ottenuti da una delle classi di insegnanti più malpagata e vessata a livello mondiale.
In altri paesi le scuole si preparano a riaprire: Taiwan, Norvegia, Giappone, Danimarca, Francia, persino in Cina. In altri si comincia almeno a discutere seriamente dell’argomento, e si costruiscono strategie per minimizzare il rischio al rientro: turni ridotti e differiti, eliminazione della ricreazione e dei momenti di assembramento, supplenze extra per sostituire il personale più a rischio, ottimizzazione nell’uso dello spazio nelle aule in rapporto al numero di studenti, sanificazioni. Sono misure che richiedono moltissima organizzazione e devono essere finanziate.
È quello che dovremmo fare anche noi, perché se si rimandano discussione e pianificazione il rischio è che non ci saranno le condizioni per riaprire neanche a settembre. Il momento di affrontare la questione è ora, per difendere il diritto allo studio sancito dalla Costituzione, e assicurare a chi ne è escluso quell’elemento democratico fondamentale che è l’accesso a uno spazio comune, lo spazio di un’aula “in carne e ossa”. (lucia tozzi)
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