È in scena in questi giorni, fino a domani sera, a Milano, presso Campo Teatrale, lo spettacolo L’Avvoltoio, prodotto da Sardegna Teatro e diretto da César Brie. Il testo, scritto da Anna Rita Signore, è l’esito di un lungo lavoro di indagine e di raccolta di documenti, atti di processi e testimonianze intorno alle vicende del Poligono Interforze di Salto a Quirra, a un centinaio di chilometri a nord est di Cagliari.
Proprio a Cagliari ho avuto occasione di assistere al debutto dello spettacolo al Teatro Massimo, a fine novembre. Cominciava a fare freddo, il cielo prometteva pioggia e il maestrale scompigliava le palme davanti al porto. C’erano due navi ormeggiate: un traghetto della Tirrenia, bianco e rosso, e una nave militare, di una tonalità poco più scura del cielo. Erano giornate di preparativi natalizi, comparivano addobbi simili a quelli delle città del Nord, ma a pochi passi dal mare; le luci sulla Rinascente di via Roma, gemella di quella milanese, e il mercatino natalizio in piazza Yenne.
Alle spalle di via Roma, nelle vie tra la chiesa di Santa Eulalia, la moschea e la sede del Comando militare autonomo della Sardegna, il clima era diverso. Nessun addobbo, la fila fuori dalle trattorie tradizionali all’ora di pranzo, b&b misti a case sovraffollate e fatiscenti, negozi indiani e africani al piano terra. Sui muri, scritte sull’apertura della nuova sede di Casa Pound, alcune a favore, altre contro, alternate a qualche altra contro le basi militari. I manifesti di A Foras!, la rete “contra s’ocupatzione militare de sa Sardigna”, li avevo già visti fuori dall’aeroporto di Elmas, e poi in un’altra occasione nella zona frequentata dagli universitari intorno al bastione di San Remy.
Aspettando l’inizio dello spettacolo in un bar, su un tavolino, noto una copia dell’Unione Sarda che riporta la notizia di una vecchia nave carica di esplosivi, battente bandiera danese, andata a sbattere la sera prima contro un segnalatore marittimo del portocanale di Cagliari.
Una volta dentro, scopro che il teatro è una stanza piccola, buia, con nove rettangoli di terra battuta disposti a distanza regolare tra loro. Su sette di questi sono sdraiati gli attori, si riesce appena a intravederli nell’oscurità. In attesa dell’azione torno con la mente alle immagini di Materia oscura, il documentario del 2013 di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Un film quasi privo di dialoghi, di grande poesia, dove le immagini girate dai due registi si alternano a video di repertorio sulle esercitazioni che varie forze militari conducono già a partire dagli anni Cinquanta nel Poligono Interforze di Quirra. Il ricordo di quelle immagini si interrompe quando inizia l’azione, ancora al buio. Parole rubate al marketing territoriale sulla Sardegna – sole, spiagge, mare, abitanti rudi ma dal cuore grande, mirto, eccetera – seguite da un paio di frasi che catturano l’attenzione dello spettatore: «L’Italia è una mega portaerei che si affaccia sul Mediterraneo, si sporge a est e sbircia a Oriente. All’interno di questa mega portaerei c’è la Sardegna, che fa parte della portaerei, ma non ha il fastidioso problema della gente e delle città…». Sembra la lettura di un documento, forse militare, uno dei tanti recitati dai sette attori che formano un coro e poi spariscono per lasciare spazio a scene individuali, come quella, intima, del soldato sardo che lavora nel Poligono e scopre di avere il Morbo di Hodgkin a causa della costante esposizione a metalli pesanti; è lo stesso destino che tocca a molte delle bestie del padre, pastore, che però sentenzia: «Meglio un figlio morto che un figlio disoccupato». Ancora, la scena del tecnico, un chimico incaricato dai militari di condurre le analisi sul suolo, e quella del procuratore che apre le indagini, nonostante le resistenze locali e non solo. «Sembrava la neve, ma senza il freddo» recita il coro ossessivamente, muovendosi nel poco spazio a disposizione, come in una danza collettiva. «Sembrava il deserto, ma senza la sabbia»: è il paesaggio di Quirra su cui cadono le polveri dopo le esplosioni.
Tra il pubblico, una donna inizia a tossire, forse ha respirato un po’ di quella terra battuta sollevata dagli attori nei loro movimenti, o forse è solo suggestione. Poi usciamo, in silenzio, dopo cinquanta minuti che lasciano senza fiato. Fuori dalla sala c’è un banchetto dei ragazzi di A Foras!, vendono magliette e opuscoli sui poligoni militari di Quirra, di Teulada, sulla Logistic, sulla RWM, la fabbrica di bombe di Domusnovas, nel Sulcis, al centro dell’attenzione mediatica dopo un reportage del New York Times di fine dicembre.
Torno a casa con alcune delle frasi del coro che non vogliono uscire dalla testa, con le facce dei ragazzi antimilitaristi negli occhi, ma soprattutto con una domanda: perché quel titolo? Faccio una ricerca disordinata, su internet, e trovo una canzone contro la guerra degli anni Sessanta, scritta da Italo Calvino. Il ritornello fa: “Dove vola l’avvoltoio? /Avvoltoio vola via/ vola via dalla terra mia/ che è la terra dell’amor”. Chissà se César Brie e Anna Rita Signore hanno scelto quel titolo per la canzone, o se avevano in mente altro. Sono tentata di andare a Campo Teatrale a chiederglielo. E anche a vedere come reagisce il pubblico milanese, così lontano da Quirra, da Cagliari, dalle scritte sui muri contro i militari, dalle facce dei ragazzi di A Foras! e da quelle degli operai di Domusnovas. (gloria pessina)
L’avvoltoio è la colonna sonora del primo documentario sull’installazione del poligono di Quirra, “inchiesta a Perdasdefogu” di Giuseppe Ferrara.