La Campania è l’unica regione d’Europa in cui le scuole sono chiuse da quasi due mesi. Il 16 ottobre scorso, vista la propria incapacità di adeguare il sistema sanitario e quello dei trasporti alle necessità di un’emergenza in corso da mesi, il presidente della Regione De Luca le ha sbarrate con un’ordinanza, la numero 80, che ha disposto l’attivazione della didattica a distanza per i successivi quindici giorni. Nel resto del paese le scuole sono rimaste aperte.
Dieci giorni dopo tutti gli istituti italiani del secondo ciclo d’istruzione sono stati costretti ad adottare la didattica a distanza almeno al 75%. Le scuole elementari e materne hanno continuato le lezioni in presenza. In Campania no. Solo il 25 novembre hanno riaperto le prime elementari e le materne.
Dopo l’estate, l’apertura delle scuole in Campania era slittata a fine settembre a causa delle elezioni regionali. Nessuno si era preoccupato di attivare altre sedi, pur avendo a disposizione alcuni mesi per farlo. A Napoli poi, altri tre giorni sono stati persi per le “allerte meteo”, che il Comune decreta ormai ogni volta che le previsioni indicano maltempo invece di provvedere alla manutenzione della città. Dal mese di marzo 2020 bambini e ragazzi in Campania hanno frequentato le aule scolastiche per circa quindici giorni. Quindici giorni in nove mesi.
Già a fine aprile un gruppo di insegnanti, genitori e bambini era sceso in piazza a Napoli per chiedere che le scuole riaprissero prima dell’estate. L’8 maggio manifestavano in piazza Cavour e a Bagnoli, chiedendo un “ripensamento radicale”, non solo della scuola ma dell’intera organizzazione delle città, e lanciavano un Manifesto per i desideri e i diritti di bambini, bambine e adolescenti.
A maggio e giugno le mobilitazioni campane si sono unite a quelle diffuse in tutta Italia, che hanno portato alla nascita del coordinamento Priorità alla scuola. Preso atto del rifiuto del governo a riaprire prima dell’estate, il coordinamento ha mantenuto alta l’attenzione sulla riapertura autunnale, nonostante un racconto mediatico improntato all’allarmismo e alla confusione.
Il giorno dopo l’ordinanza del 16 ottobre, che ha chiuso tutte le scuole campane, genitori, insegnanti e bambini si sono ritrovati a Santa Lucia, sotto il palazzo della Regione, per chiederne la revoca immediata. Le proteste sono continuate per tutta la settimana. Il venerdì successivo, 23 ottobre, nel rituale monologo in diretta Facebook, il presidente De Luca ha annunciato, per sua autonoma iniziativa, un’imminente chiusura generalizzata della regione. Quella sera, due eterogenei cortei si sono formati nelle strade del centro di Napoli per confluire in direzione di Santa Lucia. Le minacce di De Luca avevano attirato in strada centinaia di persone che altrimenti non avrebbero partecipato alla manifestazione, terminata poi davanti alla sede regionale con prolungati scontri con la polizia.
La reazione finalmente era arrivata. Lunedì 26 ottobre genitori e insegnanti erano di nuovo in piazza, ma da quel giorno le manifestazioni, spesso spontanee e frammentate, si sono moltiplicate in tutta Napoli, e una dietro l’altra anche nelle principali città italiane. De Luca, nel frattempo, ha prorogato la chiusura delle scuole fino al 14 novembre (una prassi, questa della proroga a singhiozzo, funzionale anche a vanificare i ricorsi al Tar ciclicamente intrapresi contro le chiusure).
Nei giorni seguenti altri gruppi hanno preso l’iniziativa per dissentire sulla chiusura. Il comitato dei genitori dell’istituto comprensivo Cuoco-Schipa, per esempio, ha organizzato il flash-mob “Non appendiamo gli zainetti al chiodo!”, cui hanno aderito genitori e bambini di varie scuole mettendo in atto uno sciopero della Dad.
Venerdì 13 novembre la Campania è stata dichiarata zona rossa dal governo. In Italia, nelle zone rosse le scuole materne, elementari e la prima media restano aperte. In Campania no. Lo stesso giorno – con una lezione simbolica in piazza Plebiscito davanti a una distesa di banchi vuoti – i comitati per la riapertura hanno evocato la “scuola fantasma”, chiedendo anche un utilizzo didattico degli spazi pubblici all’aperto. Per la prima volta a un’iniziativa del genere ha fatto capolino la giunta de Magistris, nella persona dell’assessore alle politiche giovanili Alessandra Clemente, candidata a sindaco nelle prossime elezioni comunali.
Il 16 novembre l’assessore regionale all’istruzione Lucia Fortini, anche lei tramite diretta Facebook, ha annunciato che il 24 novembre le scuole materne e le prime elementari avrebbero forse riaperto i battenti, ma non prima di sottoporre a test antigenici, su base volontaria, la popolazione scolastica coinvolta, familiari degli alunni compresi. Nel corso della diretta l’assessore ha ricordato alle famiglie che la scuola dell’infanzia è comunque facoltativa e ha più volte precisato che le scuole non avrebbero riaperto se i risultati dei test non fossero stati “rassicuranti” o se il numero dei test sui bambini fosse stato insufficiente. “Sono giorni delicati in cui è necessario scegliere tra la tutela della salute e il diritto all’istruzione”, ha scritto sul post che introduceva la diretta, facendo intendere che tenere i bambini chiusi in casa per mesi ne avrebbe preservato la salute.
Per lo screening della popolazione nell’area dell’Asl Napoli 1 è stata designata un’unica sede, nell’Ospedale del Mare a Ponticelli, periferia est della città. Il numero verde per prenotare il test è andato subito in tilt. In un contesto fatto di Asl latitanti, medici di base evanescenti e ospedali al collasso, l’assessore Fortini si è affrettata a dare la colpa del black-out a chi chiamava il numero verde per avere anche altri tipi di informazioni. In ogni caso, dopo un paio di giorni, il punto screening ha cominciato ad affollarsi. Genitori e bambini di tre, quattro, cinque anni sono rimasti fino a quattro ore in fila nell’attesa di effettuare il test. A quel punto, il 20 novembre, De Luca ha dichiarato che era comunque improbabile che le scuole avrebbero riaperto. Il punto screening si è nuovamente svuotato. Il giorno dopo genitori e insegnanti sono andati a manifestare davanti all’Ospedale del Mare: “Abbiamo fatto il tampone, ora vogliamo che i nostri bambini tornino a scuola”.
Il 24 novembre le scuole non hanno riaperto, ma l’Unità di crisi della Regione, visti i risultati dello screening a campione – 10.600 test con 35 positivi, lo 0,33% – e l’andamento dei contagi per la fascia d’età 0-6 anni, ha anticipato l’ordinanza del presidente annunciando che le materne e le prime elementari avrebbero riaperto mercoledì 25 novembre. Dov’era l’inghippo? Semplice: nel passaggio dell’ordinanza, poi emessa da De Luca, in cui si faceva salva “l’adozione di misure restrittive da parte dei comuni in relazione all’andamento epidemiologico nel singolo contesto territoriale”. Ecco quindi – immediate, a cascata – le ordinanze dei sindaci di comuni piccoli e grandi. Ad Avellino, a Salerno, a Benevento, scuole chiuse. Non così a Napoli, dove de Magistris avrebbe perso definitivamente la faccia.
Il 24 novembre i comitati sono tornati davanti alle scuole di Napoli affiggendo locandine di “benvenuto” ai portoni e chiedendo l’apertura di tutte le altre classi. Il 25, primo giorno di riapertura, in un clima non certo sereno, l’affluenza dei bambini è stata scarsa in numerosi quartieri.
Nei giorni seguenti, sull’esempio dei loro coetanei in tutta Italia, hanno cominciato a muoversi anche gli studenti napoletani delle medie e delle superiori. Quelli del Vico e del Genovesi, licei classici, hanno fatto lezione nel parco della Floridiana; quelli del Labriola, liceo scientifico, prima che arrivasse la Digos a intimidirli avevano posizionato banchi e sedie nel cortile di scuola reclamando il ritorno alle lezioni in presenza.
Nel primo pomeriggio di sabato 28 novembre, con un post su Facebook, l’assessore regionale Fortini ha comunicato la proroga della chiusura per tutte le classi, dalla seconda elementare fino alla prima media, fino al 7 dicembre, senza fornire a sostegno di questa decisione alcun dato epidemiologico pubblico. L’ordinanza n. 93 di De Luca ha confermato quanto preannunciato dal suo assessore. Il comune di Napoli, da parte sua, nei primi giorni di dicembre ha richiuso le poche aule aperte decretando una raffica di allerte meteo.
Questa breve e lacunosa cronistoria di uno stato d’eccezione umiliante e ingiustificato chiama in causa non solo il greve opportunismo dei principali decisori politici, il presidente regionale, la sua giunta, il suo partito, il modo degradante – per sé stessi ma di riflesso per tutti noi – in cui hanno gestito la situazione, ma coinvolge una lunga trafila di attori singoli e collettivi, solo in fondo alla quale – in sostanziale isolamento – ritroviamo genitori, bambini e ragazzi, sullo stesso piano gli uni e gli altri: quelli diffidenti, chiusi in sé stessi, spaventati e disorientati da chi avrebbe dovuto guidarli e rassicurarli; e quelli che invece non hanno mai smesso di presidiare lo spazio pubblico per affermare, come ormai dovrebbe essere chiaro, non il semplice “diritto allo studio”, ma ben altre esigenze che riguardano la vita di relazione, la salute psico-fisica, l’aspirazione a un’esistenza piena e dignitosa per le persone più giovani.
Sono tutti coinvolti, tutti responsabili. Dal ministero dell’istruzione, che ora afferma di volere le scuole aperte ma non è stato capace di dotarle in tempo utile del personale necessario, di risorse adeguate, di protocolli chiari e applicabili, fino agli enti locali, in particolare l’amministrazione comunale del capoluogo, che avanza solo ora qualche timida e sfocata obiezione, ma che da anni è incapace di garantire il funzionamento delle scuole per tutto quanto è di sua competenza: dalla puntualità del servizio mensa (inficiando così l’attivazione del tempo pieno) all’agibilità e la manutenzione degli edifici, dall’assistenza agli alunni disabili al pagamento delle cedole librarie; e che nell’emergenza in corso non è stata capace di predisporre l’utilizzo di spazi esterni per le scuole, né di garantire l’accessibilità di spazi verdi per i più giovani; ha attivato però la “Dad solidale”, un raffazzonato espediente per volgere di fatto lo sguardo dall’altra parte, con la solerte adesione di molte associazioni del terzo settore, che una volta di più, rifiutandosi di prendere posizione su questioni politiche sostanziali, hanno mostrato la loro subalternità, e in sostanza la loro irrilevanza in un contesto sociale esigente come quello napoletano. Per non parlare poi delle poche figure di intellettuali che pure hanno visibilità e diritto di parola nell’asfittico panorama napoletano – e che in molti casi provengono proprio dagli ambienti educativi –, oggi inesorabilmente muti, guardinghi, di fronte a scelte che provengono da una precisa parte politica e che stanno facendo a pezzi un quadro sociale già critico in condizioni ordinarie. Li troveremo immancabilmente, a riprendere il filo dei loro vaghi e interessati discorsi, quando il peggio sarà alle spalle.
Restava infine la speranza di un supporto dalle reti sociali napoletane, che sembrano invece voler perdere anche questa occasione per provare a intercettare, dandogli forza e respiro, una lotta già ben avviata, con la possibilità di allargare di molto il numero delle persone coinvolte, e soprattutto con una controparte politica chiara, mai come ora in grande difficoltà. Si è scelto invece di sfogliare all’infinito il libro dei sogni, imbracciando parole d’ordine tutte incentrate sulle richieste economiche, con basi sociali distanti e difficili da mobilitare, di fatto senza controparti reali. Si è scelto di restare immobili nell’unico campo dove poteva darsi qualche vantaggio e prospettiva, adottando lo slogan ipocrita della “riapertura delle scuole in sicurezza”, formula degna magari di un sindacato come la Cgil – che infatti l’ha adottata prontamente –, non di un movimento sociale antagonista.
Il 5 dicembre i comitati campani preparano una manifestazione regionale, in accordo con quella nazionale convocata dal coordinamento Priorità alla scuola. In Italia, in vista del Natale, ancora una volta tutto è pronto a riaprire meno le scuole. (luca rossomando)
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