Piazza d’Armi, Torino, 5 maggio. I container di lamiera, una ventina posizionati a elle e altri posti di fronte a questi, sono smantellati da due operai. Nel resto del grande parcheggio sterrato della piazza si intravedono camper e accampamenti di fortuna. Come in un’oasi nel deserto due alberi gemelli crescono tra la ghiaia e smuovono con le radici una piccola struttura di cemento che un tempo è stata una centralina o un bagno pubblico. Attorno alcuni uomini si riposano dopo una notte passata all’aperto. Ventiquattro ore prima veniva chiuso, senza preavviso né nuova sistemazione, il punto emergenza freddo prolungato fino a maggio per l’emergenza Coronavirus e gestito dalla Croce Rossa su appalto comunale. Una struttura fatiscente e inadeguata, chiusa negli orari diurni e aperta solo la notte, ospitava quattro persone per container: due letti a castello stile brandina per ogni rettangolo di lastra metallica e due bagni per novantasei uomini e dodici donne ospiti.
Lasciamo la piazza e vediamo un mucchio di oggetti buttati in mezzo allo sterrato. In molti non hanno avuto la possibilità di riprendersi i propri effetti personali, mentre poco distante l’erba del parco viene tagliata meticolosamente: l’amministrazione ha avviato l’opera di pavimentazione e giardinaggio per la ripartenza. La gestione del campo nelle ore notturne è stata affidata ai vigili urbani, così come il monitoraggio dei senza fissa dimora costretti a vagabondare nella città fantasma, tra parchi ed esercizi commerciali chiusi. Spesso gli è stato detto di stare sui marciapiedi nei paraggi dei dormitori o nel parcheggio sterrato dietro i container. Dodici ore al giorno di sospensione di dignità e diritti umani.
Il fabbisogno alimentare degli ospiti era garantito la sera da iniziative auto-organizzate. I rider hanno rinunciato a turni di lavoro per la solidarietà, le associazioni hanno organizzato raccolte fondi o hanno ottenuto donazioni, numerosi volontari hanno partecipato. La strategia istituzionale è stata quella della delega a terzi. Le realtà del terzo settore hanno sopperito alle mancanze del pubblico, sia sulla distribuzione dei pasti in strada e nei dormitori, sia nell’organizzazione degli snodi territoriali per la distribuzione delle cassette alimentari. Necessario notare che tante di queste iniziative sono state finanziate dal bando “Insieme andrà tutto bene” di Compagnia di San Paolo, fondazione da cui proviene l’attuale assessora alle politiche sociali e vicesindaca Sonia Schellino.
I dormitori non hanno ricevuto fondi aggiuntivi per l’apertura di ventiquattro ore (eccetto alcuni casi con misure tardive applicate da metà aprile), né per aumentare i dispositivi di protezione sanitaria e di contenimento della pandemia. Queste mancanze hanno portato a percentuali di positività al virus tra ospiti e operatori disastrose. Emblematico il caso del dormitorio di via Reiss Romoli, diventato un focolaio abbandonato a se stesso fino a costringere gli operatori, quelli che ancora non avevano contratto il virus, a presidiare il dormitorio dall’esterno mentre rimanevano all’interno gli ultimi rimasti senza crisi respiratorie, restii ad andarsene perché non erano state proposte loro alternative. I servizi sociali per la bassa soglia sono stati occasione di propaganda virtuale, ma nella realtà erano servizi esternalizzati e insufficienti.
4 – 11 maggio, piazza Palazzo di Città è chiusa per due terzi da un elegante porticato che termina quando si affaccia su via Milano e su Palazzo Civico. Al centro svetta la statua dedicata al Conte Verde, emblema di estetica sabauda. Nei mesi di isolamento i dehors sono spariti e i passaggi in questo spazio sono sporadici. Il deserto si popola quando, da sud, una trentina di senza fissa dimora cacciati dal rifugio di piazza d’Armi decidono di accamparsi fino a quando non otterranno risposte e una sistemazione. I due lati lunghi dei portici diventano il luogo perfetto per i giacigli: alcuni solo con coperte, altri con tende che gradualmente vengono portate dai tanti solidali. Uomini e donne stanno sotto i banner pubblicitari di “Torino città dei beni comuni”.
Il gradino che circonda l’inferriata della statua è diventato una panchina dove rilassarsi quando il sole non batte. Nei giorni striscioni e cartelli coprono i quattro lati della ringhiera che separa la piazza dalla statua, unica figura istituzionale presente durante tutta la protesta. Verso sera viene appeso il primo, e sarà rimosso dalla Digos all’alba successiva: “Restate a casa ma la casa dov’è? Vergognatevi”. Le giornate passano frenetiche tra gli sforzi per cercare un equilibrio nella convivenza in uno spazio inospitale e nell’attesa di risposte che non arrivano. La bassa soglia – così è chiamata nel gergo la categoria di persone senza fissa dimora e senza documenti che può accedere unicamente ai dormitori – si ribella alla narrazione di generico disagio che non considera mai nelle sue dichiarazioni l’emergenza sanitaria mondiale in corso. Le storie parlano da sole: persone con disabilità, malattie croniche, disagi psichici, tossicodipendenze, persone abbandonate ma seguite sulla carta dai servizi; disoccupati, migranti con permesso di soggiorno o diventati irregolari a causa degli inasprimenti del decreto Salvini o in attesa di rinnovo da mesi, da anni. Tanti si trovano qui dopo lo sgombero dell’Ex-Moi e il disastro annunciato del progetto “MOI-un’opportunità di inclusione”. Uno striscione invoca: “Sanatoria!”.
Brutti da vedere in una piazza così regale. Chissà se dalle finestre del municipio qualcuno ha provato a osservarla senza affidarsi ai soli occhi della polizia il cui ruolo, ormai, si sovrappone costantemente a quello della politica. La strategia delle istituzioni si fonda sulla speranza che la piazza imploda per dimostrare la sua ingovernabilità. I governanti scommettono sulle condizioni di estremo disagio e non hanno intenzione di migliorarle: nemmeno i vicini bagni pubblici vengono ripristinati. Avrebbero preferito che gli ultimi si spargessero nelle periferie, lontani dai riflettori e da forme consistenti di solidarietà. Invece la solidarietà giunge da più parti, rendendo difficili anche le piccole forme di repressione, allontanamento o sanzione che altrove si sarebbero potute effettuare in modo indisturbato.
Il centro della piazza spesso si trasforma in una grande assemblea, che prova a tutelarsi da sé con distanze e mascherine, dove la determinazione cresce e il disagio diminuisce. Alcuni parlano in francese o in inglese, intervallati da traduzioni o da interventi di solidali che partecipano in modo informale ed eterogeneo. «Non andremo via da qui, fino a quando non avremo una risposta per tutti! Ci vogliono dividere, noi invece vogliamo solo una casa e il diritto alla salute», dice qualcuno. I tavolini dei dehors abbandonati la sera diventano il punto logistico per la distribuzione della cena, per le consulenze degli avvocati o per gli screening medici su iniziativa di una onlus. I numeri col passare del tempo aumentano, la città con la sua gestione improvvisata della pandemia lascia indietro e sole centinaia di persone. «Cosa Vogliamo? Casa, salute, dignità!».
L’indifferenza porta gradualmente all’esasperazione i solidali esausti, ma stimola la nascita di una ritrovata consapevolezza da parte dei senza dimora. Dopo sette giorni il presidio è quasi del tutto auto-organizzato, pulito nonostante le condizioni avverse e si ritrova in assemblea per organizzarsi e rivendicare i diritti. Si rifiuta la modalità dell’inserimento caso per caso adottata negli ultimi giorni dal Comune, incapace peraltro di comunicarla se non tramite le forze dell’ordine. Sulla balconata di Palazzo Civico è appeso l’arcobaleno amico dei bimbi: “Andrà tutto bene”. Sulla strada invece tre uomini con la mascherina tengono con le mani ben salde uno striscione: “Non c’è virus peggiore della mancanza d’umanità”.
Le sollecitazioni all’amministrazione sono numerose e trasversali: lettere aperte e comunicati di Asgi, Ordine dei Medici e associazioni del terzo settore; altre sono invettive o richieste irreali, strumentali a goffi calcoli elettorali in vista delle comunali del 2021. Intanto la risposta politica arriva dal consiglio comunale attraverso dichiarazioni scollegate dalla realtà. La questura e la prefettura fremono e decidono, durante la riunione del comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza, di sgomberare il presidio. Il metodo è quello collaudato: un intervento soft e massiccio. All’alba del 12 maggio le persone, a cui come sempre non è specificato dove andranno né perché, vengono censite e trasportate quasi tutte nel padiglione 5 di Torino Esposizioni.
12 maggio, padiglione di Torino Esposizioni. Il padiglione si trova tra il lembo del Parco del Valentino che si affaccia su corso Massimo d’Azeglio e l’inizio di Torino Esposizioni. Nonostante il sostantivo lasci pensare a facili riconversioni ospedaliere, coerenti con questa fase, altro non è che un parcheggio vuoto, sporco e con bagni malridotti. Salvo la facciata principale, interamente di vetro e visibile dalle ringhiere, lo spazio è sotterraneo. Blindatissimo, possono accedervi solo le forze dell’ordine e la Croce Rossa, anche gli avvocati devono insistere e fare pressioni per entrare. Dentro ci sono alcune tende, portate direttamente dalla piazza senza sanificazione, mentre gli effetti personali di chi era a lavoro sono stati buttati per “protocollo”.
Lo stato vergognoso dello stabile emerge solo grazie alle testimonianze di chi è dentro, impossibilitato a uscire, ma libero di utilizzare il telefono. Per rappresentare la città in quest’operazione che nasconde lo sporco e la merda sotto il tappeto, appare un cortigiano dell’assessorato al welfare. Quest’ultimo aveva già brillato per la sua incompetenza e strafottenza nei pochi scambi concessi ai bordi della piazza nei nove giorni precedenti. Possiamo affacciarci solo dalle ringhiere del tetto per parlare con i presidianti, e ci sembra si trovino in carcere. Padiglione Guantanamo, lo chiama qualcuno. Trascorrono altre ventiquattro ore abbondanti di sospensione di dignità e diritti umani.
A tutti viene effettuato il tampone, ma i referti saranno impossibili da reperire anche nelle settimane successive. Gradualmente gli uomini e le donne vengono inseriti tra Cas (centri di accoglienza straordinaria), dormitori e strutture varie di accoglienza senza che alcun termine sia definito. La precedenza va ai cittadini italiani, per gli stranieri è previsto anche un passaggio in questura per accertamenti. «Hanno portato A. in un ufficio della polizia per controlli, non ci risponde più al telefono», affermano al mio fianco. Recuperiamo le informazioni in modo frammentario, agli avvocati non è concessa un’interlocuzione diretta, un canale chiaro con cui interfacciarsi, le persone vengono prelevate e trasportate non si capisce mai bene dove. Sono mobilio in un trasloco. Dopo aver ricostruito approssimativamente i trasferimenti dalla prigione, scopriamo solamente la mattina dopo che A. è stato portato al Cpr, il centro di permanenza per il rimpatrio: il primo ingresso, pare, dopo la sospensione durante l’isolamento. Punirne uno per educarne cento. Intanto il silenzio viene rimpiazzato da comunicati stampa entusiasti per l’ennesima gestione sicura ed eccezionale, dove grazie agli sforzi delle varie istituzioni è stata trovata una soluzione anche per “gli ultimi”. «Sul tema della solidarietà Torino continuerà a essere in prima fila. Ci sono e ci saranno delle difficoltà, certo. Ma questo non pregiudicherà in alcun modo la difesa delle persone più fragili», afferma il sindaco Chiara Appendino. Un colabrodo che presto si scioglierà al sole. (ilaria magariello)
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