Paolo Scaroni, ultras del Brescia, entra in coma il 24 settembre del 2005. Tra i trentadue feriti provocati dalle cariche della polizia nella stazione di Verona, dopo la partita di campionato contro il Brescia, è lui a uscirne peggio, rimettendoci quasi la vita. Le dichiarazioni dei dirigenti della questura di Verona nelle ore successive al fatto raccontano di una carica conseguente all’occupazione di un binario da parte degli ultras lombardi, con l’intento di “far rilasciare due arrestati”. Il processo smantellerà queste ricostruzioni: la storia dei binari occupati non ha alcun fondamento, i disordini hanno avuto inizio quando i reparti della Celere presenti in stazione hanno lanciato (secondo testimonianza di alcuni agenti della Polfer) “lacrimogeni all’interno di uno scompartimento dove c’erano anche donne e bambini”. Durante le cariche, la polizia utilizza i manganelli impugnati al contrario per fronteggiare gli ultras. Paolo Scaroni finirà in coma dopo essere stato colpito (stando ai referti medici) “sempre e solo alla testa”.
Corpo a corpo è un bel film scritto e diretto da Francesco Corona, che racconta la storia di Paolo, seguendo il suo destino in un arco di tempo lunghissimo, i dodici anni che vanno dai giorni successivi all’incidente fino alla vittoria di una sfida fondamentale per il protagonista, ex campione regionale di arrampicata su roccia: quella di tornare a scalare una montagna. Non è un film sulle rivendicazioni ultras né un documentario “di denuncia” rispetto alla condotta della polizia, ma ha la capacità di toccare entrambe le questioni senza mai abbandonare quella centrale: il percorso di riabilitazione di Paolo, la sua sfida personale, la riconquista graduale del suo corpo e della sua vita.
La forza del film è nelle immagini della campagna bresciana (Paolo è un allevatore di tori), le stazioni ferroviarie, gli striscioni degli ultras nella nebbia all’esterno dell’ospedale, le dita e le mani del protagonista che ricominciano lentamente a muoversi, la sala di rianimazione con il papà di Paolo immobile a fianco del letto del figlio. E allo stesso modo, i suoni: quello costante del passare dei treni, quello carico di rabbia, alternato ai silenzi, dei cori degli ultras, quello del dialetto lumbard parlato velocissimo e a tratti impossibile da seguire. Corona decide saggiamente di lasciare spazio alle immagini, amministrando con parsimonia i silenzi e il non detto. La musica è quasi assente, non ci sono interviste, il racconto di quanto accaduto è affidato ai dialoghi tra Paolo e i suoi medici, a poche parole dette velocemente e che si comprendono poco, lasciando la vicenda sullo sfondo eppure non defilandosi dalla responsabilità di dover affrontare una questione che è pubblica oltre che privata.
Il percorso personale di Paolo Scaroni è infatti anche un percorso collettivo, negli anni in cui, dopo gli interventi legislativi dei ministri Pisanu e Maroni, il mondo ultras ha ricevuto colpi da cui sembra impossibile riprendersi. Le concessioni rispetto a un uso della forza indiscriminato da parte della polizia sono solo uno dei tanti elementi (oltre ai Daspo, la flagranza differita, le limitazioni del diritto alla mobilità, ecc.) che compongono il programma repressivo degli ultimi quindici anni, e che cercano invano una risposta nella lotta per l’applicazione dei numeri identificativi sulle divise degli agenti. Quello di Scaroni è stato un caso-simbolo per tante tifoserie, ben prima del fronte comune formatosi per la battaglia (finita abbastanza male) contro la tessera del tifoso e l’articolo 9. Questo aspetto è rappresentato dalle immagini di un grande raduno di ultras di tutta Italia, a Brescia, nel febbraio successivo al fatto, e dalle incursioni nella realtà di Cava de’ Tirreni, una delle più sensibili negli anni rispetto al caso Scaroni. Alla fine sarà un viaggio di Paolo a ri-unire i due filoni narrativi, quando l’ultras bresciano porterà proprio a Cava, tra gli ultras campani, la testimonianza della sua vicenda.
Il finale del film è un’efficace metafora di tutto l’accaduto. Il processo che ha preso in esame i fatti della stazione di Verona si è concluso con l’assoluzione dei poliziotti per insufficienza di prove, nell’impossibilità di identificare gli agenti che hanno massacrato Paolo. La sentenza però parla di un “pestaggio gratuito e immotivato”. Uno scenario in cui risulta impossibile avere una piena giustizia, anche a causa dell’assenza di elementi normativi (ancora i numeri sulle divise) che possano bilanciare il peso delle azioni e le responsabilità delle due parti. In questo contesto c’è la lotta individuale di Paolo. La forza di uscire dal coma, di affrontare la rianimazione e la riabilitazione, la fisioterapia e gli allenamenti per vincere una battaglia che potrebbe sembrare impossibile per le sue condizioni: scalare una montagna. Una resistenza che senza retorica o pietismo manda un messaggio chiaro non solo individuale ma collettivo, rispetto alla possibilità di portare avanti, e vincere persino, battaglie che sembrano impossibili. (riccardo rosa)
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