Felipe Arnulfo Rosa, venti anni; Benjamin Ascencio Bautista, diciannove anni; Jose Angel Navarrete Gonzalez, diciotto anni; Miguel Angel Mendoza Zacarias, trentatre anni; Christian Tomas Colón Garnica, diciotto anni; Marcial Pablo Baranda, venti anni; Jorge Antonio Tizapa Legideño, diciannove anni. Sono solo alcuni dei quarantatre giovani studenti, tutti fra i diciotto e i trentatre anni, che la notte tra il 26 e il 27 settembre sono stati fatti sparire nelle vicinanze di Iguala, stato di Guerrero, Messico.
Venerdí 26 settembre, un’ottantina di studenti della Escuela Normal Rural “Raul Isidro Burgos” del municipio di Ayotzinapa stavano raccogliendo fondi nel capoluogo municipale, Iguala, per poter partecipare alla manifestazione commemorativa del 2 ottobre a Cittá del Messico. È pratica abituale, tra gli studenti normalistas, organizzare collette per raggiungere la capitale del paese e marciare al fianco di migliaia di persone nel giorno in cui si ricorda il massacro di centinaia di studenti avvenuto nel 1968 nella piazza di Tlatelolco.
Il giorno dell’accaduto si stava svolgendo un evento istituzionale diretto dalla moglie del sindaco di Iguala, José Luis Abarca Velazquez, del Partido de la Revolución Democratica (PRD). Senza alcun preavviso la polizia municipale – accompagnata da civili armati, identificati come elementi del crimine organizzato – ha iniziato a far fuoco sugli studenti che si trovavano a bordo di alcuni autobus e che intendevano occupare l’area per un’azione di protesta. La caccia all’uomo è proseguita fino a notte fonda con attacchi successivi, uno di questi mentre gli studenti davano una conferenza stampa per denunciare l’abuso. Secondo le prime dichiarazioni del sindaco la polizia municipale avrebbe sparato in aria senza lasciare feriti nè morti. Gli ayotzinapos, come dispregiativamente vengono chiamati gli studenti della Normal Rural di Ayotzinapa, secondo il sindaco sarebbero da identificarsi come provocatori.
Sei persone assassinate, diciassette ferite – di cui un ragazzo raggiunto alla testa da un proiettile che si trova in stato vegetativo – e quarantatre fatte sparire nel nulla dalla polizia locale. Julio Cesar Fuentes Mondragon, anche lui giovane studente normalista, è stato trovato il giorno seguente con evidenti segni di tortura, senza occhi e con il volto scuoiato. A inizio ottobre l’arresto e la confessione di diversi poliziotti ha portato al rinvenimento di varie fosse clandestine ai margini della città, gettando luce sulla probabile sorte dei ragazzi desaparecidos. Anche se l’identità dei corpi ritrovati – in gran parte carbonizzati – non è ancora sicura, la convinzione che appartengano agli studenti si fa ogni giorno lugubremente piú certa.
Il saldo dell’assalto più che smentire le affermazioni del sindaco ne risalta il sadismo e l’arroganza di chi sa di avere in mano il potere. D’altronde le prime parole di Enrique Peña Nieto (Partido Revolucionario Institucional – PRI) rimettono alla stessa arroganza: stando alle parole del presidente messicano, gli studenti della Normal Rural sarebbero stati “danneggiati” e i loro diritti violati. Nessun accenno ad assassinii, torture, massacri.
Nei fatti di Iguala il vincolo indissolubile tra stato e narcotraffico fa capolino per tornare poi a sfumarsi lasciando una marea di interrogativi. Il sindaco Abarca Velazquez, che a pochi giorni dall’accaduto si è dileguato facendo perdere le proprie tracce, è accusato di corruzione e nepotismo, oltre a essere ritenuto responsabile dell’omicidio di due esponenti dell’organizzazione Unidad Popular di Iguala, avvenuto nel maggio 2013. Stando alle dichiarazioni del governatore di Guerrero, Angel Aguirre (ex PRI, ora PRD), la polizia di Iguala sarebbe al servizio del cartello dei Guerreros Unidos, cellula scissionista del piú grande cartello della droga della famiglia Beltran-Leyva. Sorge spontaneo chiedersi come mai, conoscendo la situazione, non siano mai state prese misure cautelari nei confronti delle autoritá, tanto locali quanto statali. Chi detta legge nello stato di Guerrero, gode di una rete di protezione in cui gli interessi della classe politica e del crimine organizzato si compenetrano, scontrandosi o coincidendo.
La (probabile) morte di Felipe, Jhosivani, Jorge Antonio e dei loro compagni fa paura. Non tanto per la sua incontemplabile efferatezza ma per quello che arriva a silenziare dietro l’apparenza di pura gratuità, di violenza per la violenza, di estremo nonsense. Se è una realtá che in Messico la violenza stia raggiungendo dimensioni inquietanti, rimane il fatto che a esserne principale bersaglio sono “i soliti noti”. I prescindibili, gli scomodi, con geografie e storie precise. Contro l’accettazione della barbarie come mero sintomo di irreversibile irrazionalità, restituire il presente caricandolo dell’ombra che getta nel passato è un primo passo utile per cercare di delineare il senso di quanto accaduto. In quest’esercizio genealogico di reinserimento della storia nel presente, un primo elemento è che i fatti in questione interessano uno degli stati con il piú alto tasso di omicidi dall’inizio del nuovo governo. Anteposto a questa tragica statistica, sta il fatto che Guerrero è tra gli stati piú emarginati e indigeni del Messico, nonché culla di molteplici movimenti di resistenza. In questo panorama, le Escuelas Normales Rurales sono una spina nel fianco particolarmente fastidiosa per le autorità e la recente repressione non è che l’ultima di una lunga serie. Le Normales Rurales vennero istituite negli anni Venti con l’intenzione di favorire l’accesso all’educazione e la formazione di insegnanti nelle zone contadine e indigene del paese. Lo studio e la vita in collettivo – le normales offrono la possibilità di residenza – hanno fatto sì che in queste istituzioni si sviluppasse una presa di coscienza profonda rispetto alle condizioni di emarginazione strutturale da cui proviene la maggior parte degli alunni. Quello che aveva preso il via come progetto paternalista, si è trasformato in un cammino verso l’autodeterminazione. Non a caso è in questi contesti educativi che si sono formati leader storici della guerrilla studentesca e contadina come Lucio Cabañas e Genaro Vazquez.
Come segnala la storica Tanalis Padilla, giá negli anni Quaranta il disprezzo verso le Normales Rurales circolava senza troppa riserva. Identificate come luoghi dove “la sommossa, il delitto e la spazzatura sociale hanno trovato rifugio”, le normales hanno imparato a sopravvivere facendo i conti ora con l’indifferenza ora con la repressione dello stato. Da quando, sempre negli anni Quaranta, il governo smise di contribuire economicamente, gli studenti hanno implementato forme di autogestione per provvedere al mantenimento delle scuole. Alla coltivazione, allevamento e vendita dei prodotti agropecuari ottenuti, si sommano le collette come quella del 26 settembre scorso a Iguala. Va da sé che altra pratica puntuale dei normalistas è denunciare la precarietà in cui sono costretti. La storia di rappresaglie – chiusura delle scuole, taglio di luce e acqua, espulsioni, sospensione di borse di studio – è lunga. Basti qui ricordare il 12 dicembre 2011, quando due studenti della Normal di Ayotzinapa furono freddati dalla polizia durante un blocco stradale organizzato per esigere migliori condizioni di studio e di lavoro.
L’8 di ottobre l’intero paese è stato costellato da manifestazioni e azioni di protesta. Tra i molteplici slogan e messaggi scritti su striscioni e cartelli, il Vivos se los llevaron, vivos los queremos, ovvero la richiesta dell’apparizione con vita dei giovani desaparecidos, non può non rieccheggiare impotente e fragile dinnanzi alla probabilità sempre meno remota che i corpi delle fosse siano i loro. Opacità, smentite, incongruenze scandiscono i giorni. Giorni eterni per i familiari degli studenti che davanti alla tradizionale ignavia delle istituzioni hanno dovuto muovere da soli i primi passi alla ricerca dei propri cari, mettendo a repentaglio la propria vita.
L’ingiustizia, diceva il filosofo equadoregno Bolivar Echeverría, ovvero l’emarginazione, lo sterminio dell’“altro”, si presenta come condizione tecnica della riproduzione del mondo moderno. Una sorta di “cinismo spontaneo” contrassegna la nostra epoca: per sopravvivere, per riaffermarci come individui, non solo contempliamo come possibile l’ingiustizia che ci circonda ma diventiamo partecipi di una “volontà di ingiustizia” che si installa come fondamento stesso della vita. In Messico la “sparizione forzata” continua a essere pratica comune. La massività e la costanza con cui ciò accade, unite al fatto di essere trattata in sordina o relazionata al narcotraffico in forma semplicistica e comoda, ne stanno facendo una sorta di routine, nutrendo un nuovo folklore in cui si può persino essere “piú o meno morti”. (caterina morbiato)
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