Il 26 settembre di cinque anni fa, quarantatré studenti della Scuola normale rurale Raúl Isidro Burgos di Ayotzinapa venivano fatti sparire durante quella che è passata alla storia come “la notte di Iguala” (la cittadina dello stato di Guerrero in cui avvennero i fatti). Oltre ai giovani scomparsi vennero uccise sei persone – tra cui tre studenti normalisti, uno dei quali brutalmente torturato – e ne furono ferite almeno quaranta.
Quello di oggi è il primo anniversario presieduto dal governo di Andrés Manuel López Obrador, eletto a luglio del 2018 ed entrato in carica il primo dicembre dello scorso anno. Già in campagna elettorale, e poi con l’inizio del suo mandato, López Obrador ha dedicato un’attenzione particolare al caso Ayotzinapa, incontrando periodicamente i genitori degli studenti e creando una Commissione ad hoc, finalizzata a mettere ordine nella montagna di prove inquinate e tra le testimonianze fabbricate con violenza attraverso le quali si è portato avanti il processo negli ultimi anni. Infangato all’inverosimile dal precedente governo di Enrique Peña Nieto, il caso Ayotzinapa è diventato uno dei punti forti della trasformazione politica – ma anche sociale e culturale – propugnata da López Obrador. Non è un caso che sia stato più volte menzionato anche durante i festeggiamenti dell’indipendenza del Messico, lo scorso 15 settembre. Dopo il tradizionale grito, infatti, scandito da López Obrador con l’immancabile «Viva México!», ce ne sono stati altri inediti, come quello dedicato alle comunità indigene, fino alla performance della cantante Eugenia León, che ha intonato a cappella un popolare tema di fine ottocento, La Paloma, adattandolo all’attualità: «Nelle nostre mani sta il futuro, costruiremo ponti non muri. Colomba, vola per tutta la mappa, si farà giustizia ad Ayotzinapa», recitava uno degli ultimi versi.
Che la strofa appassionata si trasformi in realtà, è tutto da vedere. Dopo cinque anni il caso Ayotzinapa ristagna in un pantano giuridico: il 30 agosto è stato assolto uno dei principali accusati, Gildardo López Astudillo, alias El Gil, uomo chiave dei Guerreros Unidos e tra i principali accusati. Secondo la versione elaborata dal governo di Peña Nieto – la cosiddetta “verità storica”, rifiutata dai parenti delle vittime – l’organizzazione criminale sarebbe responsabile di aver assassinato gli studenti e bruciato i loro corpi nella discarica del municipio di Cocula, vicino a Iguala, per poi gettarne le ceneri nel fiume San Juan. La liberazione di El Gil sembra aver innescato un effetto domino. Nell’ultimo mese settantasette dei centoquarantadue indagati sono stati scarcerati e un procedimento simile è da attendersi anche per quelli ancora detenuti. La mancanza di prove e il sospetto che le confessioni siano state estorte sotto tortura sono gli argomenti alla base della liberazione degli imputati.
L’ultima tranche di scarcerazioni – ventiquattro, annunciate il 14 settembre scorso – è stata seguita dalle dichiarazioni di Alejandro Encinas, sottosegretario ai diritti umani del Ministero degli interni, e presidente della Commissione per la verità di Ayotzinapa. Il giudice che ha disposto la scarcerazione aveva ordinato che entro dieci giorni fosse applicato, nei confronti degli indagati, il Protocollo di Istanbul, ovvero quell’insieme di linee guida che servono per la documentazione di casi di tortura e di trattamenti disumani o degradanti. Si trattava, evidentemente, di un tempo troppo troppo ridotto perché il procedimento (che implica delicate analisi mediche, psicosociali e legali) potesse essere messo in atto con l’adeguato rigore. Il pubblico ministero di Ayotzinapa aveva a quel punto chiesto una proroga, e proposto che fosse un organismo indipendente come la Commissione dei diritti umani di Città del Messico l’incaricato a vigilare sulla corretta applicazione del Protocollo. Entrambe le proposte sono state rigettate dal giudice. Secondo Encinas, pretendere un’applicazione così sbrigativa del Protocollo avrebbe finito con privilegiare i diritti dei presunti perpetratori dei crimini rispetto al diritto alla giustizia di cui dovrebbero godere le vittime, i loro familiari e il popolo messicano. Durante la conferenza stampa convocata il 15 – giorno in cui l’attenzione dei messicani era in buona parte concentrata sull’attesissimo grito –, il sottosegretario ha definito la sentenza come un insulto: una manovra che fomenta il silenzio e l’impunità, dimostrando il profondo livello di decomposizione del sistema di giustizia messicano. «Il giudice ha interpretato la legge con negligenza, causando gravi danni alla ricerca della verità. Questo atteggiamento non fa che rappresentare la corruzione, l’inettitudine e la parzialità del regime anteriore, e deresponsabilizza coloro che hanno inquinato l’indagine e che hanno commesso i delitti», ha commentato Encinas. «Per garantire il diritto alla verità, le misure di riparazione e le garanzie di non ripetizione, ci vediamo obbligati a una revisione profonda del sistema di giustizia».
Secondo Luis Tapia, avvocato del centro per la difesa dei diritti umani Miguel Agustín Pro Juárez e assistente legale dei genitori degli studenti, ci si trova in un vicolo cieco. Basandosi su irregolarità processuali, violazioni ai diritti umani, confessioni false e arresti arbitrari, le indagini condotte durante il governo precedente non potevano che produrre un incagliamento del caso. Ayotzinapa è diventata una fabbrica di colpevoli e innocenti attraverso l’accumulazione di prove torbide e insufficienti per determinare condanne definitive.
Intanto, nello stato di Guerrero, la settimana è iniziata con una serie di proteste. Madri e padri dei giovani scomparsi, accompagnati da studenti di varie normales e membri di organizzazioni della società civile, hanno manifestato davanti al Palazzo di giustizia di Iguala. Gli slogan sono sempre gli stessi, da cinque anni a questa parte: giustizia e verità per i crimini di quella notte, presentazione con vita dei quarantatré giovani. I genitori hanno anche preteso la consegna delle registrazioni fatte dalle videocamere di sicurezza del Palazzo di giustizia che la sera del 26 settembre del 2014 avrebbero documentato l’attacco a un gruppo di normalistas e la loro sparizione.
Come ha ribadito Felipe de la Cruz, portavoce dei genitori, quei video – che conterrebbero prove inoppugnabili per inchiodare alcuni dei responsabili – sarebbero stati nascosti e non cancellati, come è stato fatto credere in questi anni. Che tutti i funzionari coinvolti vengano realmente indagati è un altro dei punti su cui i manifestanti hanno insistito; i nomi sono quelli dei soliti personaggi eccellenti: l’ex governatore di Guerrero, Ángel Aguirre Rivero, l’ex titolare della Procura generale della Repubblica, Jesús Murillo Karam e l’ex titolare dell’unità speciale di inchiesta per il caso Ayotzinapa della Procura, José Aarón Pérez. Ma soprattutto, si esige che venga messo a processo l’ex presidente Enrique Peña Nieto, considerato come il maggior responsabile del muro di gomma su cui è impattato il caso Ayotzinapa.
In seguito al fallimento giudiziario dell’ultimo mese, la settimana scorsa il governo di López Obrador ha annunciato il ritorno delle indagini a un “punto zero” e l’intenzione di punire penalmente tutti coloro che negli anni precedenti hanno gestito le indagini con effetti così deleteri, inclusi funzionari di alto rango. La speranza è che a questo peregrinare ciclico dei genitori degli studenti scomparsi venga messo un punto, capace di segnare la fine dell’impunità, e di far luce su una delle notti più infami della recente storia messicana. (caterina morbiato)
1 Comment