All’alba dello scorso 23 settembre un contingente formato da cinquecento agenti della Guardia Civil spagnola venuti da Madrid ha fatto irruzione in diverse città e paesi delle regioni di Osona e del Vallès, nell’entroterra catalano. Era lo stesso giorno del vertice ONU sui cambiamenti climatici, e la vigilia dell’ufficiale scioglimento delle camere del mancato governo Sánchez, che prelude alle nuove elezioni programmate per il 10 novembre. Gli agenti, tra cui il corpo di artificieri TEDAX, hanno chiuso le strade con i blindati; poi, incappucciati e mitra alla mano, hanno sfondato con gli arieti le porte di diversi appartamenti, spesso a fatica e senza ragione. In uno dei video della polizia si sente la voce di un bambino da dietro la porta, che grida: «Se aspettate vi apro!».
Tutte le case sono state perquisite a fondo, alcune per oltre otto ore. Al termine della retata sono state arrestate nove persone, tra i trentacinque e i cinquant’anni. La Guardia Civil ha sequestrato oltre un quintale di esplosivi, fucili a ripetizione e bombe a mano, nelle fantasie a occhi aperti dei mandanti dell’operazione. Nella realtà, purtroppo, l’unica cosa che l’enorme spiegamento di forza pubblica è riuscito a portare a casa sono un’urna del referendum del 1 ottobre e i resti dei fuochi d’artificio usati per la festa del paese di Sabadell, finita il 9 settembre, rimasti nel locale perquisito, e che sfigurano anche nei video con cui si giustifica l’operazione. Dopo gli arresti, la polizia ha dichiarato di aver avviato la raccolta di prove che dimostrerebbero l’intenzione degli arrestati di preparare attentati terroristici in occasione dell’anniversario del referendum del 1 ottobre. Ma le prove si dovrebbero raccogliere prima degli arresti, non dopo.
Le accuse sono di ribellione, terrorismo, e possesso illegale di esplosivi. Finora tuttavia la Guardia Civil ha dichiarato di aver trovato solo “materiale preliminare” alla preparazione di esplosivi, ma il dato è sufficiente per annunciare finalmente sui giornali che l’indipendentismo dispone di armi, o potrebbe disporne, che è notoriamente la stessa cosa. Impedire attentati è l’ultima delle preoccupazioni per le forze dell’ordine spagnole (e catalane: sono noti ormai i legami dei servizi segreti con il “cervello” dell’attacco terrorista sulla Rambla di Barcellona dell’agosto del 2017); molte energie sembrano invece impegnate nell’immaginare attentati per criminalizzare il movimento indipendentista. I principali quotidiani del paese, e a pappagallo quelli italiani, hanno riportato la velina della Guardia Civil, che sostiene che gli arresti di questi “estremisti” sono motivati dalla presenza di materiale “adatto a fabbricare esplosivi” e da non meglio definiti, e sempreverdi, legami con “ambienti anarchici internazionali”.
Due dei nove detenuti sono stati rilasciati dopo poche ore, con l’accusa di terrorismo ancora in piedi; una pratica giudiziaria stravagante, quella di trattenere presunti terroristi un paio d’ore per poi lasciarli liberi di preparare i temutissimi attentati. Gli altri sette sono stati condotti all’Audiencia Nacional di Madrid, il tribunale (non ci stanchiamo mai di dirlo) erede diretto del Tribunal de órden público della dittatura franchista. D’altra parte, anche la Guardia Civil era la polizia personale di Francisco Franco, che si sarebbe dovuta sciogliere con la fine della dittatura. La situazione dei detenuti è ancora incerta dopo oltre trentasei ore di isolamento, senza che i loro avvocati sappiano se sono passati a disposizione del giudice. L’operazione è partita dal Tribunale centrale n.6 dell’Audiencia Nacional, che dichiara di aver indagato per un anno e mezzo sulle attività dei Comitati di difesa della Repubblica, le associazioni di cui facevano parte tutti gli arrestati. Se dopo tanti mesi di indagini queste sono le uniche prove trovate contro migliaia di membri dei CDR, la natura di queste assemblee dovrebbe essere più che evidente.
I CDR sono assemblee territoriali aperte e pubbliche, nate poco prima del referendum del primo ottobre, con il fine di promuovere nella società civile il diritto all’autodeterminazione della Catalogna (ne abbiamo parlato qui e qui). I tentativi di criminalizzazione sono iniziati poco dopo il referendum; nell’aprile 2018 furono arrestati due membri dei CDR, Tamara Carrasco di Viladecans e Adrià Carrasco di Esplugues (entrambi municipi vicini a Barcellona), che avevano partecipato al blocco di un’autostrada. Tamara rimase quarantott’ore in isolamento a Madrid, poi le fu ordinato di non allontanarsi da Viladecans per un anno. Le prove raccolte contro di lei erano fischietti, maschere di carnevale e stringhe per le scarpe, che la polizia sostiene servissero – che novità – a preparare esplosivi. Per evitare il carcere preventivo, Adrià fuggí in Belgio: a Bruxelles sono ancora esiliati il presidente Puigdemont e il consigliere Felip Puig, che rischiano decenni di carcere, nonché il rapper anticapitalista maiorchino Valtònyc, ventitré anni, condannato a tre anni e mezzo di carcere per incitamento all’odio, apologia di terrorismo e vilipendio alla corona, a causa dei testi delle sue canzoni pubblicate su Youtube. L’educatrice e deputata della CUP, Anna Gabriel, invece si è dovuta rifugiare in Svizzera per accuse analoghe.
La ragione per cui lo stato spagnolo non trova prove di delitti violenti perpetrati dai CDR o dagli indipendentisti, banalmente, è che durante i due tesissimi anni di proteste non c’è stato nessun atto violento, tranne le cariche della polizia. La linea non violenta, che mantengono strettamente sia gli attivisti della società civile che i dirigenti politici, è una caratteristica che definisce tutto il movimento; ma manda in tilt i meccanismi repressivi dello stato spagnolo, che – come ogni stato – ha bisogno di un nemico da combattere per giustificare la propria esistenza. Non c’è un equivalente dell’ETA in Catalogna: l’ultima organizzazione armata indipendentista, Terra Lliure, faceva azioni simboliche e si è sciolta quasi trent’anni fa, dopo aver erroneamente ucciso una persona. Non trovando terrorismo indipendentista, sono costretti a immaginarlo. Ma a furia di evocarlo quotidianamente su giornali e televisioni di tutto lo stato, chissà che prima o poi non riescano a farlo nascere. O a costruirlo.
La Catalogna intera intanto attende la sentenza del processo ai dirigenti indipendentisti, alcuni dei quali rischiano oltre venti anni di carcere per ribellione – senza aver commesso nessun atto violento. Così, si fa più tesa l’aspettativa per il secondo anniversario del referendum del 1 ottobre, in occasione del quale la Guardia Civil era certa che sarebbero avvenuti attentati. In solidarietà ai nove detenuti, decine di migliaia di persone sono già scese in piazza in piú di trenta comuni, e nella città di Girona i Mossos d’Esquadra hanno caricato sui manifestanti. La sostanziale armonia d’intenti delle forze dell’ordine catalane e spagnole è apparsa evidente già durante le audizioni del procès, quando il massimo dirigente dei Mossos dichiarò di essersi attenuto agli ordini del Ministero dell’interno spagnolo per tutta la durata delle proteste indipendentiste.
I Mossos continuano a reprimere duramente sia manifestazioni indipendentiste che picchetti contro gli sfratti, esattamente come la Guardia Civil, la polizia nazionale spagnola, e la Guardia Urbana del comune di Barcellona. Sugli ultimi arresti, e sull’evidente assenza di prove che giustificassero l’operazione, non si sono ancora espressi né il presidente del governo, il socialista Pedro Sánchez, né i dirigenti di Podemos, Pablo Iglesias e Íñigo Errejón, né la sindaca di Barcellona Ada Colau. (stefano portelli/victor serri)
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