Del libro di Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca, parliamo a pagina 14 di questo numero. A Cesare Moreno, che di Carla è stato compagno di vita e che ha curato il volume per l’editore Sellerio, abbiamo chiesto di tornare sui temi del libro e sulle sorti dei “maestri di strada”, ora che il progetto Chance è terminato ma si apre la prospettiva di un nuovo intervento nella zona orientale.
Il libro di Carla Melazzini raccoglie osservazioni ed esperienze vissute in trent’anni di insegnamento a Napoli e in provincia, ma si concentra in particolare sugli ultimi dieci anni, quelli dell’intervento dei maestri di strada…
«Nel progetto Chance scrivere di quello che si faceva era fondamentale, serviva a rielaborare l’esperienza – che non è quello che ti capita, ma quello che fai delle cose che ti capitano. Carla, avendo un’esperienza diretta con i ragazzi e una capacità di osservazione psicologica, oltre alle sue conoscenze letterarie – che non vuol dire insegnare la letteratura ma usare la letteratura nel contesto – riusciva a scrivere cose abbastanza efficaci. In passato aveva collaborato con un giornale che si chiamava Reporter. Avevamo fatto insieme una serie di inchieste a Napoli, uno dei servizi era sui bambini sottoproletari e il lavoro, un altro sull’uccisione di Moro vista dai bambini. Erano discussioni fatte in una scuola elementare di San Giovanni con i bambini della classe di mia madre. Poi c’era il lavoro che facevo in classe a Barra con i miei bambini, di cui pure discutevamo. Poi avevamo fatto un’inchiesta per il Censis sulla dispersione scolastica nell’84, con molte interviste a casa dei ragazzi. In seguito cominciammo a collaborare con il mensile Una Città. Durante Chance i materiali elaborati all’interno del progetto venivano arricchiti per essere pubblicati sul mensile. Quindi la conoscenza approfondita dell’antropologia del quartiere proveniva da molte fonti, io sapevo che mettendole insieme sarebbe venuto qualcosa di buono. È venuto fuori un libro che era due volte e mezzo quello attuale, dopodiché ho lavorato, io e un’altra persona che non vuole essere nominata, per cercare di dargli un andamento più narrativo. Abbiamo fatto un montaggio per dare una successione non dico cronologica ma almeno tematica. C’è, per esempio, un capitolo che ha il titolo Hic sunt leones, che si usava nelle carte geografiche quando non sapevano chi ci stava in qualche parte o ci stavano i selvaggi, e il capitolo descrive come sono fatti i leoni. Poi c’è Un ponte sull’abisso, che parla delle difficoltà dei ragazzi a superare l’abisso che c’è tra noi, sedicenti civilizzati, e loro, che vivono una vita selvaggia sotto molto aspetti; quindi anche sulla pretesa illuministica che tu spieghi alla gente come è bello il mondo civile, e quelli dicono: “Oh, che bello il mondo civile”, e vengono dalla tua parte, senza rendersi conto che tra te e loro c’è un abisso con lingue di fuoco, mostri e draghi… Carla su questo batteva molto, perché spesso proprio gli insegnanti bravi, quelli che vorrebbero fare la rivoluzione attraverso la scuola, sotto certi aspetti sono peggio degli altri.
«Il capitolo Trespassers will be prosecuted, dice che a Barra ci sta un bel giardino, ma quelli che abitano a tre metri di distanza non ci entrano mai, perché è psicologicamente insostenibile un bel giardino per uno che vive nella merda, anche se il giardino è accessibile. Il messaggio per gli insegnanti? Non vi illudete che le cose belle di per sé aiutino, per poter fruire delle cose belle c’è bisogno di creare uno spazio di pensiero e di parola dentro le persone. Poi c’è il Pane e le brioche, questa idea che molti hanno che il giovane si educa se lo faccio soffrire, se lo tengo a stecchetto, “mazze e panelle fanno i figli belli”, allora chi dà le brioche viene considerato un corruttore della gioventù, in realtà le nostre brioche facevano parte di un discorso di accoglienza, ma anche di fermezza: io ti posso punire in modo intelligente se ti do qualche cosa, ma se non ti do mai niente, la punizione in che consiste? Poi c’è l’ultimo, I parametri del successo, dove si parla di un ragazzo che dopo quattro anni con noi dice: ho imparato a non mangiare, ho imparato a camminare, ho imparato a sudare, e Carla dice che questi sono tre grandi obiettivi dell’educazione, perché significa riconciliarsi con il proprio corpo. Da questo punto di vista il libro presenta un percorso, dal fatto che loro sono leoni… in gabbia, potremmo dire, quindi da una situazione di agiti incontrollabili, di rabbia che esplode da tutte le parti, a una in cui finalmente sono padroni delle loro azioni e da cui si può ripartire… Nel libro si vede bene la combinazione tra l’attenzione all’individuo e il percorso collettivo, che di solito viene vissuto come negazione mentre è un potenziamento dell’individuo, si vede bene la pendolarità tra l’individuo e il gruppo, e non solo tra i ragazzi, ma anche tra gli operatori. Questo libro porta il nome di Carla Melazzini, perché l’elaborazione individuale l’ha fatta lei, quindi era giusto che ci fosse il suo nome, però in qualche modo sintetizza il lavoro di trenta persone».
Il libro può essere utilizzato per un discorso che riguarda l’intera città?
«Intanto vale per Napoli, ma vale per tutti i posti dove ci sono dei ragazzi che invece di vivere la gioventù, l’infanzia e l’adolescenza, vivono una situazione di conflitto. Serve per leggere la realtà dei ragazzi, ma soprattutto propone un metodo con cui vedere questa realtà e intervenire. È anche il superamento del discorso “amici e nemici”, perché per chi non l’avesse capito i ragazzi di cui parliamo sono tutti organici al Sistema o molto vicini al Sistema, e se io li dipingo solo ed esclusivamente come dei criminali li ho perduti per sempre. Su Facebook c’è questa lettera dal carcere che mi ha scritto Mario, uno che è stato con noi e che poi ha fatto il criminale e ora sta in galera. Legge il libro e dice: “Mi sono commosso, ho capito che ci stanno delle cose buone che comunque mi sono preso”. Significa che il seme è stato gettato».
Il progetto Chance non esiste più. È stato fatto un bilancio pubblico di questi undici anni?
«Se tu fai un’indagine, se cerchi un documento scritto in cui il comune dice, noi non finanziamo più, tu questo documento non lo troverai, è stato fatto tutto come se fossimo trasparenti. Mi hanno fatto un’intervista subito dopo la vittoria della destra alle regionali e mi volevano per forza far dire che il progetto Chance l’aveva distrutto la destra, io ho detto: non è vero, è stato distrutto dalla sinistra; non hanno preso in considerazione la cosa, loro capiscono soltanto che ciò che fa bene alla sinistra fa male alla destra, ciò che fa bene alla destra fa male alla sinistra.
«Il bilancio pubblico non è stato fatto, anche se poi viene fatto attraverso una documentazione amplissima che esiste, e di cui questo libro fa parte. A luglio dell’anno scorso abbiamo fatto un convegno, intitolato Saperi di strada, con esperti di dodici università italiane, dove ci siamo confrontati sulle metodologie. Poi abbiamo continuato a seguire i ragazzi. Abbiamo la possibilità di dire, a dieci anni di distanza, che fine hanno fatto i primi allievi di Chance… Io in questo momento sto riapplicando quelle metodologie con dei miglioramenti. Il nuovo progetto si chiamerà Evai: Educazione, Volontà, Accoglienza, Integrazione, però è anche un grido di incoraggiamento: “E vai! Datti da fare”, oppure: “E vai, ti è riuscita una cosa e vai avanti, no?”. In tre mesi ho messo in piedi una squadra di ventuno giovani universitari, psicologi oppure educatori. Naturalmente c’è un nucleo di quelli che erano stati a Chance che sono stati importanti per fare l’innesto. Con il vecchio nucleo ho fatto come si fa con la maionese impazzita: quando la maionese impazzisce, fai una nuova piccola maionese non impazzita, a poco a poco ci versi dentro la maionese impazzita e recuperi tutto».
In cosa consiste il nuovo progetto?
«Lavoriamo con le scuole, con gli insegnanti ordinari, formiamo dei supporti per riflettere sull’esperienza e un aiuto per gestire la classe. Facciamo un’azione di screening di tutti i ragazzi di scuola media in un territorio, in mezzo a questi ne individuiamo una cinquantina che hanno bisogno di sostegno per arrivare alla scuola superiore, poi questi almeno in parte confluiranno in due classi di scuola superiore in cui noi facciamo esattamente quello che facevamo con Chance, cioè ci mettiamo un educatore, un genitore sociale, molta attività di laboratorio con esperti pagati da noi, le attività territoriali, lo psicologo che aiuta gli insegnanti a riflettere sull’esperienza, il pedagogista, ci mettiamo tutto quello che noi chiamiamo la seconda linea, che nella scuola non esiste, invece qui occupa almeno un terzo delle ore complessive. Abbiamo scelto di concentrare l’azione sulle scuole di San Giovanni, Ponticelli e Barra. Ho avuto un’ottima accoglienza da nove scuole medie della zona. L’anno scorso non siamo riusciti a fare un protocollo con il comune, adesso quello che mi interessa è che ci sia lo stemma del comune, lo stemma della repubblica e quello dell’associazione che fa la cosa, perché deve essere chiaro che questa è un’azione pubblica, per il pubblico. Poi i soldi vengono dal privato ma questo non importa: da una fondazione di Verona e da una fondazione che fa capo al giornale Vita, e poi vari “spiccioli”: dall’associazione degli albergatori italiani di Monaco, da una scuola elementare di Matera, con i bambini che hanno sottoscritto cinquecento euro. In più è finanziata da me, perché ci lavoro senza stipendio…».
Tornando a Chance, cosa ha lasciato agli insegnanti? E quali obiettivi non è riuscita a raggiungere?
«Agli insegnanti che ci sono stati ha dato molto, però quando abbiamo cercato di trasformare gli insegnanti che hanno fatto Chance in promotori non ci siamo riusciti. Quello che succede spesso quando partecipi a un progetto così grande, è che quelli che ci stanno dentro sono come i miracolati di Lourdes, cioè sanno gridare al miracolo però non sanno fare il miracolo. Loro continuano a vedere una luce. Tutti i nostri docenti che sono tornati nelle scuole stanno applicando quelle metodologie, con enormi difficoltà naturalmente, perché manca il gruppo, mancano i sostegni…
«Il problema della dispersione scolastica è peggio della monnezza, quello della monnezza non lo stanno risolvendo, perché prendere una nave e spedirla in Norvegia, solo in termini di petrolio e di soldi che paghiamo, non è una soluzione ecologica. Il problema della dispersione è peggio, noi creiamo monnezze umane prima ancora di averle usate, allora è un tale crimine questa cosa, ed è un tale collettivo crimine, che nessuno ne vuole parlare, si rimuove il problema. Invece di dire “la dispersione scolastica”, dovremmo parlare di dispersi. Dovremmo avere una task force. Per esempio, con quarantamila euro possiamo conoscere nome, cognome, ritratto, tendenze dei cinquanta ragazzi che sono in difficoltà nella zona orientale. Su scala cittadina, quanti sono i casi gravi, cinquecento? Quelli meno gravi, altri cinquecento? Con duecentomila euro si risolve il problema. In questo momento il Censis sta facendo l’ennesimo esperimento per un milione e settecentomila euro in due scuole di Napoli, finanziato dal ministero dell’interno. Assurdo. Il progetto Chance interveniva su quarantacinque ragazzi all’anno: una presa in giro, doveva intervenire su cinquecento ragazzi all’anno; magari ne rimangono fuori altri cinquecento, però possiamo dire che abbiamo fatto un intervento in tutta la città. Se il comune non ha soldi in cassa, si mette in partnership con chi vuole lui, se andiamo in giro i soldi li troviamo. Io vorrei che de Magistris dicesse, costruiamo un gruppo che si occupa della dispersione scolastica, mentre invece questa cosa non è all’orizzonte, l’argomento non viene proprio trattato».
Come si relaziona questo discorso con la scuola dell’obbligo? Vuole distruggerla, cerca di cambiarla…
«Se fossi il direttore generale del Miur a Napoli, se fossi l’assessore regionale, provinciale, farei una sola cosa, raccoglierei tutti i fondi e direi: “Da oggi in poi i fondi servono a sostenere gli insegnanti”. O meglio, a sostenere la riflessione degli insegnanti. La provincia di Trento, che ha abbastanza soldi, impegna gli insegnanti con tutta una serie di attività, e di fatto gli insegnanti di Trento prendono una volta e mezzo gli stipendi degli altri. Se io riuscissi a dare non dico a tutti gli insegnanti, ma a una fetta consistente, un consistente aumento di stipendio, con l’obiettivo di avere un consistente impegno di seconda linea, se facessi questo con gli insegnanti attuali, otterrei dei risultati dieci volte superiori».
Quindi tu dici di cambiare la testa degli insegnanti?
«Aiutare gli insegnanti ad affrontare le difficoltà. Noi dobbiamo partire dal presupposto che anche l’insegnante nella prima classe, nel primo liceo classico, si trova in difficoltà, perché la società è cambiata, perché il ministro sfotte, il preside rompe, i genitori sono antipatici, i ragazzi provocano… Nella situazione attuale l’insegnante si deve arrangiare, allora lui dice: vita mea, mors tua, si difende, uccide i ragazzi, e uccide anche quelli che vanno bene a scuola… Il metodo Chance è basato sulla collegialità operativa degli insegnanti, giorno per giorno, non sul collegio docenti ogni quindici giorni; noi continuamente riflettiamo sull’esperienza, sbagliamo e riflettiamo… Se veramente ci fosse questa idea che la scuola la fanno gli insegnanti che insegnano, non quelli che fanno mansioni amministrative, che scrivono il progetto, eccetera, ma l’insegnante che sta in classe e spiega ai ragazzi la Divina Commedia, come faceva Carla… Se noi mettiamo la scuola in mano agli insegnanti e diciamo che possono funzionare soltanto se fanno un lavoro di gruppo, noi avremmo una trasferibilità del metodo Chance. In modo che qualsiasi cosa accada nella scuola sia oggetto di riflessione, e non oggetto di applicazione di regolamenti, in questo modo tu trasformi la scuola da struttura che trasmette qualche cosa, a struttura che crea qualche cosa, a luogo dove si interagisce tutti quanti, e questa qui è una scuola di comunità, una scuola ricca di relazioni umane. Oggi gli insegnanti non sono una categoria che riflette, sono una categoria che, più o meno, è reattiva, come sono reattivi i ragazzi. Berlusconi aumenta il numero degli alunni? Ah, Berlusconi ha aumentato il numero degli alunni. Berlusconi riduce l’orario? Ah, Berlusconi ha ridotto l’orario. Non dico che Berlusconi fa bene, ma le uniche idee sono quelle che si oppongono alle stupidaggini che fa Berlusconi, non ci sta un’idea che non sia di pura difesa dello status quo. Attraverso questo libro, e le reazioni che sto avendo mi confortano, possiamo contribuire alla formazione degli insegnanti, di nuovi educatori, ma ci sono tanti vecchi educatori che già si comportano così, e che attraverso questo libro prendono coraggio. Facciamo in modo che gli insegnanti, come gruppo, possano veramente gestire la scuola. Di insegnanti bravi ce ne stanno, però sono clandestini». (luca rossomando)
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