Verso le tre raggiungo la piazza centrale di St. Étienne, città di centosettantamila abitanti non lontana da Lione, nella regione della Loira. Ho un intero sabato da passare qui, dopo un incontro sul Marocco in un museo di un paese vicino. Un amico francese mi ha detto: «Non sai cosa fare sabato in Francia? Dovresti sapere che la settimana lì ormai è: lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, gilets jaunes, domenica!». Immaginavo di dover andare a Lione per vedere una manifestazione, ma una ragazza che ha studiato qui mi dice che St. Étienne è ancora più interessante: circondata da grandi miniere di carbone, ormai chiuse, che alimentavano le fornaci con cui si producevano tutte le armi della Francia, la città conserva ancora una gran parte di popolazione operaia. L’università di Lione vi ha aperto una succursale, e il giovedì sera, prima che gli studenti tornino dalle famiglie per il fine settimana, tutto il centro è invaso dalla movida studentesca. Si notano i segni di una riqualificazione incalzante: l’antica scuola di belle arti in collina è diventata una residenza per artisti, il mercato è stato riconvertito a bar e locali, intorno al centro sorgono nuovi edifici di design, e la città piena di cartelli che inneggiano alla trasformazione urbana.
Ma le facce alla manifestazione dei gilet gialli riflettono il passato operaio. Molti anziani, molti gruppi di donne, barbe incolte e denti rovinati. Assisto subito a un diverbio in mezzo alla piazza: gli altri sabati si partiva dalla rotonda all’ingresso della città e si arrivava in centro, ma questo sabato si è deciso di fare il contrario. Un gruppo vorrebbe rimanere lì, ma la maggior parte vuole manifestare. Si discute animatamente, e alla fine si decide di partire. Non mi pare ci siano capi o referenti a cui si delega: osservo come si prende la decisione, come si media tra le parti, e mi piace. Abituato alle manifestazioni in Italia, dove percorsi e strategie sono sempre scelte dagli “organizzatori” e obbedite dal resto, mi rincuora vedere una piazza in grado di autogestirsi. Prendo un volantino che dice: “Vogliamo vivere dignitosamente dei frutti del nostro lavoro. Tetto dignitoso per tutti. Protezione sociale e servizi pubblici di prossimità. Salari, traitement e pensioni in linea con i prezzi. Siete d’accordo con questi punti? Benvenuti, siete dei gilet gialli! Macron dimissioni, viva la democrazia diretta”. Il volantino è firmato “42 coordi-gj” (il 42 è il distretto di St. Étienne), e il gruppo Facebook dove si discute è “La Loire en colère”. È la sedicesima settimana di mobilitazione.
Alla testa del corteo, che blocca il traffico sul corso principale, uno striscione tenuto da due ragazzi dice: “Se il clima fosse una banca l’avremmo già salvato”. È uno slogan geniale, diretto anche a chi accusa il movimento di essere antiecologico, perché le proteste sono iniziate contro la tassa sul carburante. Davanti allo striscione c’è un gruppo di ragazzetti con le facce coperte, alcuni potrebbero avere anche solo tredici o quattordici anni: rappresentano i famosi casseur, adorati da giornali e televisioni. Intorno scoppiano petardi, anche molto forti, e ogni tanto si vede volare un cono spartitraffico o un fumogeno. Niente polizia in vista. Si canta “La la la les gilets jaunes” e cori contro Macron. Un terzo dei partecipanti porta il gilet giallo, e sulla schiena molti hanno scritto a pennarello slogan o simboli. Tranne uno fastidiosamente sessista, su tutti gli altri metterei la firma: “Enfoiré on veut le riches”, “Ils ne sont grands que parce-que nous sommes de génoux”, “Entre fin du monde et fin du mois on ne choisit pas”. Alcuni ragazzi hanno le fascette e gli zaini con la scritta “Medic”. Dalle finestre, molti agitano i gilet gialli, e molte macchine suonano il clacson e salutano, nonostante si blocchi il traffico. Inizia a piovere, ma nessuno si scompone. A occhio mi pare ci siano quattro o cinquecento persone. Sono molti meno del solito, mi spiegano, perché tantissimi sono andati a Lione alla manifestazione regionale. «Ma perché non protestate anche in Italia?», mi chiede uno. «Basta mettersi un gilet giallo e andare in mezzo a una rotonda, poi gli altri verranno!».
Finalmente si arriva alla rotonda. Si bloccano quasi tutti gli accessi. La rotonda è diventata importante perché in mezzo c’era un accampamento fisso, una vera e propria casetta di legno fatta con i pallet ma con tantissima cura, con varie stanze e isolata dal freddo: alcuni vi hanno dormito per due mesi di fila, d’inverno. Si vedono ancora i segni dei falò, ma la costruzione è stata demolita dal Comune: ora ce n’è un’altra, molto più piccola, che occupa l’angolo di un parcheggio di un complesso di case popolari. Un grande striscione, giallo come la baracca, dice: “Non vogliamo discutere, vogliamo decidere!”. Mi avvicino; in un grande falò bruciano dei pallet, intorno una ventina di persone, in piedi o su vecchi divani. Un paio sono in sedia a rotelle. Molti anziani, molti gruppetti di giovani e anziani, tutti parlano con tutti, molti immigrati. Si beve il caffè e i succhi di frutta, frappe e panini, tutto a venti o cinquanta centesimi. Parlo con una signora, nata in Francia da una famiglia di emigrati italiani. «Andiamo avanti da novembre! Ora ci stiamo strutturando, facciamo delle riunioni per capire come organizzarci. Partiti e sindacati hanno provato a prendere il controllo, ma abbiamo sempre detto no». Un altro, di origine siciliana, mi fa: «È un movimento mondiale. Ci sono proteste anche in Algeria, contro il quinto mandato di Bouteflika. Dobbiamo fare qualcosa qui, in solidarietà con l’Algeria». Chiedo: «Ma dicono che c’è tanto razzismo, che siete contro i migranti». «Cosa? – risponde la signora –. Siamo tutti mezzi italiani, spagnoli, arabi, di tutto. Pure gli zingari. Siamo il popolo». Le fa eco un grosso graffito sul muro dietro: “Pouvoir au peuple”.
Scendiamo di nuovo sulla rotonda. Si parla di tagliare l’autostrada, ma alla fine si decide di no. Un gruppo piuttosto nutrito va a bloccare il centro commerciale dove c’è Ikea. Gli altri si dividono tra la rotonda e il falò, mentre dall’impianto si sente prima Bella Ciao, poi i Mano Negra, poi un rap scritto apposta per il movimento. Un ragazzetto ha staccato quattro palloncini gialli dagli alberi della rotonda e la donna che li stava attaccando lo sgrida. Guardandola negli occhi glieli buca tutti uno a uno, in segno di sfida. Lei torna alla manifestazione e parla con un gruppetto di uomini, che vanno a prendere il ragazzetto per un braccio e lo spingono via. Tra la rabbia e il pianto, questo si siede su una delle barricate che bloccano l’accesso alla rotonda, accanto agli amici che lo prendono in giro. Un altro con il gilet giallo lo raggiunge per calmarlo, spiegandogli che deve rispettare la manifestazione. Vista l’enorme varietà di persone coinvolte, i conflitti saranno tantissimi, ed è importante vedere come li gestiscono. Chiedo alla donna italiana: «Come fate a controllare i casseur?». E lei: «Un po’ li lasciamo anche fare. Senza casseur non avremmo ottenuto niente. C’è bisogno anche di un po’ di violenza». Commentiamo la situazione in Italia, che i suoi genitori seguono in tv. «Difficile che attecchisca il movimento lì. La gente ha troppa paura!». Poi se ne va, lasciandomi con un altro gruppo. «Stasera ho il corso di danza country. Non posso arrivare con l’odore del falò addosso».
Penso com’è difficile, in Italia, parlare dei movimenti fuori dalle frontiere nazionali. Giovedì ero a a Barcellona a una manifestazione contro il processo ai politici catalani, in carcere da un anno per delitti d’opinione: dall’Italia non possiamo essere solidali, perché il movimento è considerato borghese e separatista. Oggi sono nella Loira a una manifestazione contro i tagli ai servizi pubblici e l’aumento delle tasse: ma in Italia si considera un movimento populista e xenofobo. Ci vanno bene sempre solo le cose organizzate dai nostri amici e alla prima contraddizione troviamo la scusa per rimanere a casa. Mi viene in mente una frase di Gramsci che ho letto ieri: “Leonardo sapeva trovare il numero in tutte le manifestazioni della vita cosmica, anche quando gli occhi profani non vedevano che arbitrio e disordine”. È il Quaderno n. 20, dove critica la “concezione storico-politica scolastica e accademica, per cui è reale e degno solo quel moto che è consapevole al cento per cento e che anzi è determinato da un piano minutamente tracciato in antecedenza o che corrisponde (ciò che è lo stesso) alla teoria astratta”. Come il percorso della manifestazione. “Ma la realtà è ricca delle combinazioni più bizzarre ed è il teorico che deve in questa bizzarria rintracciare la riprova della sua teoria, ‘tradurre’ in linguaggio teorico gli elementi della vita storica e non viceversa la realtà presentarsi secondo schema astratto. Questo non avverrà mai e quindi questa concezione non è che una espressione di passività”. (stefano portelli)
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