La via Dor Dor ve-Dorshav costeggia ville tranquille fra ulivi e mandorli appena sfioriti; auto dal metallo cromato sono parcheggiate accanto a muri di pietra ocra. Un ortodosso con una parrucca festosa mi benedice e mi augura buona fortuna, poi passano due ragazze con capelli dai mille colori. Oggi è Purim, festa di maschere. Gerusalemme, di norma città austera, brulica di supereroi, pompieri, Minnie e Topolino, pochi profeti. Ieri sera, fuori dalle mura della città vecchia, alcuni ragazzi israeliani passeggiavano arroganti camuffati da fellahin palestinesi, altri con la kuffiah e una chiave disegnata sulla maglietta si fingevano rivoltosi da Intifada.
In Dor Dor ve-Dorshav esploro l’ambiente che ha ispirato la trilogia della casa di Amos Gitai, regista e architetto israeliano. Nel 1980 Gitai ha girato Bayit (Home) per raccontare la storia di una casa in via di ristrutturazione. La macchina da presa s’aggira nel cantiere, una voce intervista un muratore arabo e il proprietario ebreo, l’architetto e uno scalpellino. Poi sullo schermo appare il dottor Mahmoud Dajani, palestinese, che abitò la casa sino al 1948. Dajani è seduto in auto, ha occhiali dalla montatura nera e barba rada sul mento, indica fuori dal finestrino: «Here is the old house, this is the house». Un martello pneumatico batte in sottofondo. Gitai domanda quando Dajani abbia visto la casa per l’ultima volta. «Deve essere stato nel ’48. Siamo andati via a causa degli spari, sai. C’erano spari fra gli arabi e gli ebrei, allora dovevamo andarcene. Le persone temevano di essere colpite dalle milizie degli ebrei». Dopo la fondazione di Israele i territori abbandonati dai palestinesi in fuga furono denominati “absentee properties”, proprietà assenti, e passarono sotto il controllo dello stato. Il film fu censurato dalla tv israeliana.
Nel 1998 Amos Gitai torna in Dor Dor ve-Dorshav e gira A House in Jerusalem. Vedo nuovi lavori di ristrutturazione: operai arabi scalfiscono pareti sospese sui tetti di Gerusalemme. La macchina da presa segue le venature dei massi squadrati di pietra palestinese alla ricerca dell’enigma nascosto fra le linee degli edifici. Gitai intervista il vicino di casa: «Non ho mai ricercato nulla a proposito dei vecchi abitanti». Fuori dall’immagine una voce chiede: «Non vuoi risvegliare i vecchi spiriti, vero?». Poi compaiono il figlio e la nipote di Mahmoud Dajani: visitano la casa, camminano incerti presso l’ingresso. L’uomo si gira: «Non si possono spiegare i nostri sentimenti. Non credo vi sia una parola in alcun linguaggio: non in ebraico, né in arabo, né in inglese». Ora, nel giorno di Purim, ritrovo la casa di Gerusalemme: intorno cresce la lavanda, oltre s’alzano pini marittimi e un ulivo selvatico s’allarga alla rinfusa da un ceppo tagliato.
News from Home/News from House conclude nel 2005 la trilogia. Sullo schermo tornano i protagonisti dei film precedenti: l’abitante ebrea di origini turche, il vicino artista, la famiglia Dajani, gli operai intervistati nel 1980. Accanto alla casa giovani lavoratori arabi costruiscono una nuova abitazione. Sento la voce di Gitai commentare i lavori: «I documentari sono come un sito archeologico umano in corso d’opera. Scavi, dissotterri finché non trovi il frammento di un osso, di una storia, o trovi tracce di case sepolte dalla polvere». Intanto un operaio fissa assi di legno. «Il ruolo di un documentario è quello di scavare per delineare i contorni e le configurazioni celate dal presente». Lungo la scarpata accanto alla casa, perso fra detriti e cartacce, trovo un proiettile arrugginito con una scanalatura alla base. Che sia giunta a me una traccia del fuoco israeliano del 1948? «Ma no – dice un amico ebreo che ha combattuto una guerra – questo è un proiettile per fucili automatici di oggi».
L’abitazione di Gerusalemme è un microcosmo, forse un’allegoria di popoli che hanno dimora, di popoli che vagano in diaspora attendendo il ritorno. In Bayit (1980) osservo i due ebrei algerini che abitavano la casa prima della ristrutturazione: sono seduti vicino alla soglia, lui ha un cappello appoggiato sul capo, lei sorride stretta in un maglione. «Siete tristi?», chiede Gitai. «E perché dovremmo essere tristi?». I nuovi abitanti sono facoltosi e i due ebrei sefarditi, giunti qui negli anni Cinquanta, da poco si sono trasferiti altrove: «Quando siamo arrivati qui avevamo solo due stanze. Ora la stanno ricostruendo completamente e tutto sarà nuovo. Grazie a Dio sono felice dove sto adesso: è bello e caldo, con riscaldamento centralizzato e acqua calda. Siamo contenti della nostra nuova casa. Se rimpiango questa? Non rimpiango niente. Se i vecchi proprietari sono venuti qui? Sì, dopo la guerra dei sei giorni, nel 1967, sono venuti, cercavano una cisterna d’acqua». «Non erano arrabbiati poiché stavate vivendo nella loro casa?», domanda ancora Gitai. Sorridono: «Chi lo sa. Forse lo erano nel cuore, ma non lo mostrarono. Non potevano cambiare la situazione». In A House in Jerusalem (1998) l’artista che abita vicino racconta: «Ora tutta la zona è diventata un quartiere ricercato, perché c’è un’atmosfera caratteristica. I prezzi sono saliti». Adesso nel prato vedo spuntare i papaveri, ma sospetto che niente resista alla spremitura del profitto.
Risalgo la collina su cui poggia la casa di Gerusalemme. Ecco inatteso mi appare lo scheletro di una nuova abitazione: ci sono colonne di cemento armato, otto archi squadrati per le future porte e finestre, s’incrociano in alto le assi che sosterranno il tetto; a terra sono sparsi sacchi di calce, detriti e mattoni pronti all’uso. Questa è la nuova casa di Gerusalemme: la mia esplorazione scava ancora nel cantiere umano di Gitai. Il nome della via, Dor Dor ve-Dorshav, in antico ebraico significa “generazione dopo generazione, un interprete”, o “ogni generazione ha un interprete”. È un detto talmudico e ricorda che il testo sacro non è entità stabile, ma un campo aperto dove ogni generazione rinviene nuove interpretazioni. Così ogni scavo aumenta il cumulo dei significati.
Quando torno in strada, sento il richiamo lontano di un muezzin mescolato al ritornello di una canzone di successo. Seguo la musica e discendo l’altura: in pochi passi raggiungo un vecchio edificio in pietra con un tendone e ombrelloni disposti davanti. All’ombra una dj si muove a ritmo, mentre uomini e donne si spostano fra bancarelle che offrono cibarie di qualità: fragole, olive, birre, roast beef succulento. In un’aria di festa inciampo nei binari di una ferrovia: le rotaie fiancheggiano lo stand del miele e della frutta secca. Alzo lo sguardo e osservo la facciata di pietra, ornata di un quadrante d’orologio fermo nel tempo. Sono nella vecchia stazione di Gerusalemme, dismessa. Qui i treni partivano, sfioravano al-Walaja, passavano da Battir e poi correvano sino al mare. Dai caratteri moderni ebraici decifro: “La prima stazione”. E sotto, in inglese: “A place for food and culture”. Nel negozio di souvenir – là dove c’era la sala d’attesa, o la biglietteria – trovo una foto in bianco e nero che ritrae l’inaugurazione del tratto ferroviario Gerusalemme-Jaffa. Dalla stazione nuova pendono orgogliose bandiere con mezzelune ottomane.
In Bayit (1980) incontro uno scalpellino palestinese, magro con un berretto da cui spunta una matita spessa. «Da dove vieni?», chiede in arabo una voce fuori campo. «Da al-Walaja. Gli ebrei presero il nostro villaggio nel 1948. Lo abbiamo ricostruito a nostre spese: lo chiamiamo Nuova Walaja ed è vicino a Beit Jalla». E prima dov’era al-Walaja? «Era vicino a Battir, nel distretto di Gerusalemme. Lo hanno preso nel ‘48 e poi ci hanno lasciato un ritaglio di terra, viviamo lì dal 1950. Le vecchie case sono state tirate giù dai bulldozer e così l’odio riempie i nostri cuori. Hanno distrutto la mia casa senza lasciare una sola pietra e il mio villaggio è irriconoscibile. Ora dobbiamo lavorare per sopravvivere: so che questa casa apparteneva alla famiglia Dajani, mi tocca l’anima e mi spezza il cuore». In News from Home/News from House (2005) Gitai raggiunge al-Walaja e ritrova lo scalpellino Mohamad Said El Arj. È anziano ormai e indossa una kuffiah rossa: «Dall’altra parte della valle mio padre aveva una pianta di carrube buone, grandi, carnose. Le aprivi e usciva lo zucchero. All’epoca il posto era tappezzato di viti e meli. Quando ci sono tornato ho visto gli israeliani piantare pini». L’uomo cammina in un paesaggio di rocce e cespugli di timo. «Mi faccio una passeggiata, l’intera collina è nostra. Se vuole vedere la sorgente, gliela mostro».
Sono su un pulmino lungo la strada fra Betlemme e al-Walaja, ora rasentiamo il muro che separa la colonia di Har Gilo dai territori palestinesi. Il governo israeliano ha deciso di spostare il checkpoint vicino al villaggio di al-Walaja, così da sottrarre ai palestinesi la sorgente di Ein Hania – dove l’acqua sgorga fra resti bizantini sorgerà un nuovo parco archeologico per il pubblico israeliano. A marzo le colline sono verdi contro un cielo pesante di foschia, dal pulmino osservo il muro di cemento piegare verso nord e trasformarsi in un’alta rete metallica munita di filo spinato. «Dalla colonia di Gilo, sulla collina laggiù, gli abitanti dicono che le lastre di cemento rovinano il paesaggio. Allora hanno costruito una barriera di metallo che non offenda gli occhi», mi dice Omar di al-Walaja.
«Ti mostro casa mia», continua Omar. Salgo sul furgoncino e seguiamo una strada stretta che porta alle pendici del muro. La barriera incombe in alto, ma poco sotto intravedo un cancello. Il figlio di Omar scende con le chiavi e apre la grata: entriamo in un tunnel. «Ho la casa dall’altra parte del muro, gli israeliani hanno costruito un tunnel per la mia famiglia». Passiamo e siamo in un territorio incerto, fra il muro d’Israele e la linea verde degli accordi internazionali; intanto il figlio più giovane prende il pallone per giocare a calcio nel tunnel. La casa ha un terrazzo con vista sulle colonie, a Gilo sono in costruzione quattro palazzine: «Ospiteranno centinaia di famiglie». La collina, almeno fino alla strada, appartiene ad Omar ed è coltivata a olivi. Vicino alla stalla delle capre noto piccoli vasi con virgulti dalle foglie appuntite, verde acqua. «Prima di costruire il muro gli israeliani mi hanno offerto un assegno in bianco per comprare la terra, ma io ho detto no perché questa è la casa di mio padre e di suo padre prima di lui». Omar mi poggia una mano sulla schiena e mi fa segno di voltarmi: «Vedi laggiù fra quegli alberi? Lì era il vecchio villaggio di al-Walaja prima che lo distruggessero».
Torno a Gerusalemme, alla casa di via Dor Dor ve-Dorshav, perché Purim è finito e oggi è giorno di lavoro. La nuova casa di Gerusalemme è costruita da operai arabi: sento i loro richiami sul tetto, ancora e ancora batte il martello. Generazione dopo generazione le contraddizioni si ripetono. «C’è una sensazione diffusa di sfinimento storico», commenta Gitai in News from Home/News from House. Ho un amico israeliano, sfinito, che abita a Tel Aviv dove i grattacieli alzano al cielo braccia lunghe come gru. Mi ha raccontato una storia: «Un uomo vive al confine con l’Egitto e il suo terrazzo dà a ovest, così vede le manovre dei soldati egiziani, sente i richiami di comando perché l’esercito è schierato in Sinai per combattere contro Daesh. Ogni mattino l’uomo guarda fuori, è preoccupato. Ma il suo vicino di casa ha il balcone che dà a est e vede solo il silenzio delle dune, e gli dice: “Perché sei così inquieto? Tutto è calmo”. Io mi sento come il vicino con il balcone a est: non guardo i telegiornali, l’ultima volta che sono entrato in West Bank era due anni fa con te. Non voglio saperne più niente». Davanti a dune silenti rimane poco da dire: tutto procede in movimento inesorabile e stanco. (francesco migliaccio)
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