Seduto su una balla di fieno, guardo il concerto di Vinicio Capossela allo Sponz Fest di Calitri, in Irpinia, a fine agosto. Il concerto è meraviglioso, ancora una volta, come tanti anni fa. Adesso i frammenti spuri e disordinati della poetica di Vinicio hanno raggiunto una forma coerente, l’iperrealismo meridionalista steampunk e il contrappunto rinascimentale si armonizzano in un’architettura sublime, in cui trovano posto Dylan e Moby Dick, Dante e Matteo Salvatore, il chitarrista di Tom Waits e il canto agropastorale di Totarella. E il messaggio di tutto questo è sovversivo, sia nel linguaggio estetico che in quello verbale, culminando nelle Nuove tentazioni di Sant’Antonio, dove il santo subisce le stesse tentazioni che stanno devastando noi: “Fare un deserto in ogni uomo / E riempirlo di televisione / Niente più drago e serpente / Il deserto è pieno di niente / Con il morso della mela / Fare del mondo una clientela / Tutta in rete, tutta connessa / Tutta visibile, fatta dai social”.
Giro gli occhi dal palcoscenico e mi guardo intorno, mentre Capossela canta La Torre di Battiato, che vuole buttare giù dalla torre tutti gli artisti, gli attori e i registi, e salvare solo chi non sa fare niente e non vuole fare niente. La dedica ironicamente «a questa nostra simpatica società dello spettacolo». Ma quella che ho intorno non è solo la società dello spettacolo. Qui non si può ballare, è proibito per il Covid, nonostante ci abbiano chiesto il green pass almeno dieci volte prima di arrivare ai nostri posti. Non ci si può alzare in piedi, ogni spettatore è afferrato alla sua balla di fieno come se fosse un profilo social, alcuni piegati su quella del vicino o della vicina: hanno tutti gli occhi puntati in avanti, come nella famosa foto di Life degli occhialetti 3D. Anche girarmi all’indietro mi sembra una trasgressione. Siamo presidiati da tutti i lati da cordoni di energumeni in maglietta nera e radiolina: controllano che nessuno fumi perché non si incendi il fieno, che nessuno balli perché non si diffonda il Covid, che nessuno beva non ho capito bene perché. C’è sempre una tragedia alle porte, e poi qualcuno potrebbe denunciare.
Mi ricordo lo Sponz di cinque anni fa: una massa di corpi che vibrava al ritmo del Ballo di San Vito, lui dal palco che ci fomentava, ma lo spettacolo eravamo noi, il pulsare dionisiaco dei piedi tra la polvere e i torsi nudi, sponzati e annaspanti. Ora siamo tutti paralizzati, dentro un labirinto di staccionate bianche con i check-point alle entrate, che divide tutta l’area del festival in zone organizzate in base ai documenti da presentare. In un’area si entra solo con il pass, in un’altra con il green pass, in un’altra con il biglietto, in un’altra con il cartellino al collo; nella parte davanti delle balle non si può bere a partire dalle 22, in un’altra si mangia solo seduti, in un’altra si fuma, in un’altra no. Alcune di queste regole mantengono una parvenza di senso, la maggior parte no, zero. L’intera costruzione è infernale: ci presidiano coorti di sicurezza, carabinieri e buttafuori, alcuni dei quali sembrano avere l’ordine specifico di dare fastidio con qualunque scusa, mi dice una persona dell’organizzazione. L’intera area del festival, poi, da qualche anno è segregata dal paese di Calitri, dove si svolgeva negli anni passati. Intanto Vinicio canta dal palco: “Di Sant’Antonio la Tentazione / Punire la coscienza / E premiare la delazione / Avvelenare la natura / Bloccare il mondo con la paura / E nel nome del Paradiso / Fare un inferno e morirci dentro / Con chi vuoi tu”.
Immagino quanto possa essere doloroso, per chi organizza, dover bloccare tutto per obbedire alle richieste insensate di qualche Covid manager imposto dalla Regione, probabilmente come condizione per il finanziamento concesso al festival da De Luca. Una volta costruita questa gabbia, dentro le zone “protette” nessuno controlla le possibilità di contagio: come quando, durante un dibattito, chi prendeva parola avvolgeva il microfono nella mascherina – il modo migliore per mischiare tutti i droplet. L’obiettivo è imporre una struttura che divide, impedire che ci si connetta, non che ci si contagi; ribadire il discorso mediatico sull’emergenza, e il diritto delle istituzioni a controllare tutto. È specialmente doloroso qui allo Sponz, un festival che mirava proprio a riconnettere, a immaginare di ripopolare l’osso d’Italia, a riportare la cultura nei paesi abbandonati. E questa fantasia a tratti sembrava reale, con il Teatro delle Albe sulla rocca, i diables catalani subito fuori dalle porte, le feste nelle taverne, nelle grotte. Invece, già da alcuni anni il paese e la sua rocca sono deserti, nello stesso splendido isolamento di tutto il resto dell’anno, con gli abitanti che tengono le poche botteghe aperte in attesa di visitatori. I calitrani perdono tutto l’introito e la visibilità, gli artisti arrivano in paese ma salgono subito al festival, così si evita anche il contatto imbarazzante tra mondi diversi.
Un concerto a pagamento è sempre escludente: chi non paga non può entrare, e sono pochi gli eventi artistici e culturali proprio universali. Da piccolo adoravo imbucarmi ai concerti e ai festival attraversando le reti, o arrampicarmi per vedere i concerti gratis; due estati fa, proprio a un concerto di Capossela a Pisa, diverse centinaia di persone hanno scavalcato le transenne per reclamare il diritto alla cultura gratuita. Ma i concerti sono rituali conviviali, la musica e il ballo riconnettono le persone tra loro, con il luogo, con il contesto. L’industria dello spettacolo fa il possibile per disattivare le potenzialità sovversive di questi momenti per estrarne profitto, ma deve negoziare con la voglia di stare insieme e di rompere le barriere. Ora un intero festival, e chissà quanti altri, sono stati schiacciati in una griglia fatta apposta per separare, parcellizzare, riorganizzare lo spazio e le persone. Il lasciapassare, la patente vaccinale, chiesta insistentemente a ogni posto di blocco, è l’ultimo assalto in questa battaglia anti-conviviale mossa contro ogni segnale di risveglio della società. Si impone di mantenere certe distanze, di evitare gli incontri inaspettati, così come di parlare di alcuni temi e di temere ciò che non è immediatamente riconoscibile – la paura ora non è più dei terroristi ma dei non vaccinati, ma la struttura è la stessa. Questi contenitori escludenti sono pensati per assorbire e schiacciare definitivamente il contenuto, cioè ogni possibile spunto per cambiare i rapporti sociali. «Non ci sono più posti dove la gente possa discutere delle realtà che li riguardano – scrive Débord in un commento del 1984 alla Società dello spettacolo –, perché non possono più liberarsi durevolmente della schiacciante presenza del discorso mediatico e delle varie forze organizzate per trasmetterlo».
Sotto lo sguardo vigile delle forze di sicurezza, seduti sulle nostre balle di fieno, un pomeriggio abbiamo sentito un intervento straordinario di Carlo Ginzburg, il più importante storico italiano. Dopo avere raccontato il lavoro sulla stregoneria nel Cinquecento, basato sui verbali dell’Inquisizione, Ginzburg spiega di quando scoprì i “benandanti”, gruppi di contadini del Friuli che dichiaravano all’Inquisizione di riunirsi in sogno nel campo di Iosafat per lottare contro le streghe e gli stregoni e garantire la fertilità della terra. Quando venivano accusati di stregoneria, i benandanti rispondevano di essere non streghe e stregoni ma i loro nemici. Nel corso dei processi, però, gli imputati iniziarono ad adottare il discorso degli accusatori, dichiarando di essere loro stessi streghe e stregoni. Alla fine della conferenza un ragazzo fa una domanda difficile: «Chi sono i benandanti oggi?». Ginzburg dice di non saper rispondere. Gente che oggi sogna di riunirsi in un campo per combattere una guerra immaginaria contro streghe e stregoni? Mi guardo intorno: eccoli qui i benandanti, seduti su queste balle di fieno. Viaggiando in questo posto lontano dalle nostre città, riunendoci in rituali notturni, in parte reali e in parte onirici, sogniamo di star lottando contro i demoni che stanno desertificando il mondo, contro la stregoneria capitalista, e in qualche modo ci assicuriamo un anno lavorativo più fertile, più tollerabile. Ma come i benandanti schiacciati dalle categorie e dalle definizioni degli inquisitori, anche noi stiamo scivolando nel punto di vista dei nostri nemici. Questo campo ora è pieno di streghe, e non si capisce più se siamo in guerra contro di loro o se siamo diventati streghe e stregoni anche noi. La tentazione di Sant’Antonio: “Metter la morte fuori dai vivi / Che non danneggi la produzione / Tenerla a parte negli ospedali / Togliere i santi e mettere i preti / Togliere il sacro, lasciare i decreti”.
La mia esperienza allo Sponz non è stata l’unica di questo tipo, durante l’estate, e vale la pena rifletterci. Ora che le critiche al green pass iniziano a diffondersi un po’ di più, magari non si toccheranno più questi livelli: ma non dimentichiamoci cosa abbiamo vissuto, perché alzare barriere e transenne è più facile che buttarle giù. Durante l’estate ci sono stati comunque molti momenti conviviali, pubblici e privati, che hanno sfidato frontalmente o clandestinamente questa guerra alla società. Immagino che ce ne saranno ancora, ma probabilmente molti saranno illegali. Forse è arrivato il momento di riconoscere la stessa cosa che, molti anni fa, è stata riconosciuta dal movimento Genuino Clandestino per quanto riguarda il cibo: è impossibile produrre cibi genuini rispettando le leggi vigenti. La stessa cosa avviene con la cultura: dentro i regolamenti e le norme attuali, in questo momento è impossibile avere vera condivisione e convivialità, che sono le basi della cultura. Se non cambiano le leggi, la cultura sarà solo clandestina. Dentro i recinti e le transenne di questi decreti avremo solo “questa simpatica società dello spettacolo”. (stefano portelli)
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