In questi giorni i giornali parlano di massicce migrazioni dalla Tunisia verso l’Italia, e in rete gira un video di nove minuti in cui il ministro degli esteri Di Maio spiega dal suo punto di vista cosa sta succedendo in Tunisia e definisce la politica italiana verso questo paese.
La parola centrale del suo discorso è “rimpatri”, concetto che il ministro accompagna con quello di assoluta fermezza nei controlli delle migrazioni da gestire con la collaborazione del governo tunisino. Una collaborazione che è ritenuta imprescindibile al punto che il governo italiano ha sospeso l’elargizione dei fondi della cooperazione allo sviluppo destinati a questo paese – sei milioni e mezzo di euro – in attesa che la Tunisia fornisca maggiori garanzie nel controllo delle frontiere. Una decisione che appare quanto meno azzardata in un momento in cui il paese è allo stremo dal punto di vista economico, ed è privo di un governo dopo che il primo ministro Elyes Fakhfakh ha rassegnato il 15 luglio le dimissioni, a meno di cinque mesi dal suo difficile insediamento, mostrando la grande frammentarietà che domina il panorama politico.
D’altronde è lo stesso Di Maio, dopo aver detto che la Tunisia è un paese sicuro, dove non ci sono guerre e persecuzioni, e dove dunque i migranti possono essere rimpatriati, a sostenere che le persone che lasciano le coste tunisine lo fanno in seguito a una crisi politica ed economica. Tuttavia il ministro non delinea i contorni di questa crisi, un punto centrale invece per capire cosa sta accadendo nel paese e perché si migra.
Dalla rivoluzione del 2010-2011 in Tunisia è in corso una gravissima crisi economica, acuita quest’anno dalla pandemia da Covid-19 che ha evidenziato tutte le fragilità del paese. La crescita del Pil è rimasta molto al di sotto delle aspettative del tre per cento, e quest’anno a causa dell’epidemia è previsto che si fermerà attorno all’uno per cento, se non al di sotto. Il debito pubblico è quasi raddoppiato dal 2011 al 2018, passando al settanta per cento rispetto al Pil, e la situazione andrà peggiorando. Infatti, per affrontare le sfide della transizione i governi che si sono susseguiti dalla rivoluzione a oggi hanno chiesto a più riprese – l’ultima volta è stato a fine marzo 2020 nel pieno della pandemia – l’aiuto del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, che hanno concesso prestiti complessivi per oltre cinque miliardi di dollari. Anche l’Italia a fine marzo ha concesso un credito, di cinquanta milioni di euro, che rientra nel quadro del più ampio Memorandum of Understanding Italia-Tunisia siglato nel 2017, che dovrà essere ripagato dal governo tunisino. I fondi internazioni versati per aiutare la Tunisia a uscire dalla crisi non sono a fondo perduto e vanno di pari passo con un programma di revisione delle spese che si ripercuote sui redditi delle famiglie con tagli significativi sui prodotti di prima necessità e un abbassamento del potere di acquisto dei tunisini a causa della pesante svalutazione del dinaro tunisino. La disoccupazione è al quindici per cento, il tasso più alto in tutta la regione nordafricana. La disoccupazione giovanile arriva al trentacinque per cento, in particolare nelle regioni del centro e del sud del paese che sono le più povere e quelle da cui era partita la rivoluzione del 2010-2011.
In pochi anni i giovani, che erano stati considerati gli “eroi” della rivoluzione ed esaltati nella narrazione nazionale, oggi sono considerati una minaccia alla stabilità nazionale, in quanto attori delle proteste che infiammano il paese, possibili candidati alle migrazioni che i partner europei e in primis l’Italia vorrebbero fermare, ed eventuali prede dell’estremismo violento. Sempre più lontani dalla politica formale, disertano le urne (eccezion fatta per le presidenziali dell’autunno 2019 che hanno visto l’elezione a sorpresa del cosiddetto candidato anti-sistema Kais Saied), e sono spesso protagonisti di manifestazioni e sit-in che con regolarità infiammano il paese e in particolare le regioni del centro-sud. Dal 2010-2011 a oggi non si sono infatti mai arrestate le proteste nel paese, e neanche la pandemia è riuscita a fermarle. Il rapporto mensile del FTDES (Forum tunisien des droits économiques et sociaux) sulle proteste nel paese nel mese di marzo ha mostrato che, malgrado le scelte di confinamento della popolazione operate dal governo, la carta sociale della contestazione non si è modificata, ma è stata confermata, con picchi di proteste nelle regioni interne di Kairouan, Sidi Bouzid, Jendouba.
A fine marzo 2020 importanti sono state le manifestazioni dei lavoratori del settore informale, che, piegati dalla crisi economica, sono scesi in piazza per chiedere il sostegno dello stato. Solo il 30 marzo il governo ha cominciato a distribuire aiuti finanziari. Con la fine del confinamento, le manifestazioni sono poi aumentate in tutto il paese. I fronti delle proteste sono vari: per l’acqua nelle località rurali, per il versamento dei salari dei lavoratori del turismo a Gerba o nella zona industriale di Zaghouan, per il lavoro nel bacino minerario di Gafsa. Particolarmente significative a giugno e luglio sono state le proteste nella zona di Tatouine dove la disoccupazione raggiunge il trenta per cento. Le proteste sono scoppiate per fare applicare l’accordo che nel 2017 il movimento El Kamour era riuscito a ottenere affinché venissero realizzati una serie di posti di lavoro nelle compagnie petrolifere che operano nella zona.
Le proteste di queste ultime settimane vengono dunque da lontano e si inseriscono in una complessa dinamica nazionale di opposizione e conflittualità sociale che però non trova espressione in un’alternativa politica. Questi continui e diffusi movimenti di protesta esprimono la disillusione e la rabbia verso le élite di governo che non hanno saputo rispondere alle richieste di occupazione, servizi, sicurezza, istruzione, e non si sono impegnate per ridurre le diseguaglianze e il divario tra centro e periferia, zone costiere e zone interne, che caratterizza la storia del paese dall’indipendenza a oggi. Le regioni dell’interno rimangono fortemente sfavorite rispetto a quelle della costa in termini di servizi (incluso l’accesso all’acqua, che in particolare in questi mesi estivi scarseggia o è del tutto assente in diverse aree), di occupazione e di povertà. Nel 2015, alcune comunità, in particolare nella Tunisia centro-occidentale, avevano tassi di povertà in media due volte superiori a quelli del paese nel suo complesso: è il caso di el Kef (nord-ovest), Kasserine (centro-ovest) e Beja (nord-ovest), mentre in posti come Tataouine, Jendouba e Kasserine, la disoccupazione era due volte la media nazionale
Questo quadro di disuguaglianze e instabilità sembra essere destinato ad aggravarsi, perché la Tunisia si aspetta ora – a causa della pandemia, sebbene l’abbia affrontata meglio degli altri paesi nordafricani – la peggiore recessione dai tempi dell’indipendenza, con un ulteriore impoverimento della classe media e uno sprofondamento delle condizioni materiali delle classi basse. Di fronte a questa situazione che sta inducendo diverse persone a lasciare il paese la risposta non può essere il blocco delle frontiere, i rimpatri, la sospensione degli aiuti della cooperazione, ma il rilancio di una politica seria verso la Tunisia. Piuttosto che preoccuparsi per un sottosegretario agli esteri che confonde libici con libanesi, l’attenzione dovrebbe essere posta in questi giorni sull’analisi della politica italiana verso i paesi del Mediterraneo e sul tentativo di ri-orientarla superando quell’approccio securitario che domina l’operato dell’Italia nella regione, a discapito dei principi democratici e dei diritti umani come dimostra, in ultimo, l’accordo di rifinanziamento della guardia costiera libica, il cui coinvolgimento nel traffico di esseri umani e nel sistematico esercizio di violenze e torture nei centri di detenzione è sostenuto da più parti. (renata pepicelli)
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