Il 23 luglio scorso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha indirizzato una circolare ai propri uffici in cui detta le “linee di intervento” riguardo le “aggressioni al personale”. Un atto sottotraccia che cade in un momento particolare per la storia del mondo penitenziario, segnato dalle recenti indagini sulle torture avvenute nel carcere di Torino – indagini che hanno coinvolto anche i vertici dell’istituto piemontese, il direttore Domenico Minervini e il comandate della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza, rimossi dall’incarico – e a poche settimane dalle indagini ancora aperte sui fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che sembrano rincorrere anche in questo caso la pista della tortura. Un sistema penitenziario scosso dall’emergenza Covid-19, da quattordici detenuti morti nel corso delle proteste di marzo, da un cambio di vertice giunto a seguito di pressioni mediatiche dal forte sapore populista.
Dopo quanto accaduto, confidare che una circolare possa migliorare lo stato di cose è come sperare che un’aspirina curi una malattia grave. Allo stesso tempo ci sono atti che hanno un valore simbolico che va ben oltre il loro contenuto tecnico. Se n’è accorta l’associazione Antigone che ha commentato il provvedimento: “La circolare emanata dal Dap nei giorni scorsi disegna un modello di gestione del conflitto interno alle carceri interamente schiacciato sulla repressione, spingendo verso una gestione di tipo disciplinare della vita penitenziaria e una reazione esclusivamente repressiva degli episodi, anche violenti, che possono verificarsi in carcere. È un modello che amplifica il conflitto invece di lavorare alla sua decostruzione”. Secondo Antigone un clima penitenziario sereno “non si costruisce con l’uso massivo dell’isolamento disciplinare, con trasferimenti e con le punizioni esemplari bensì proponendo una vita penitenziaria piena di senso, con attività lavorative e culturali e con operatori capaci di instaurare relazioni di prossimità fondate sulla conoscenza delle persone detenute e delle dinamiche di sezione, come indicato dagli organismi internazionali con il concetto di sorveglianza dinamica”. Ci siamo già interrogati, in passato, sulla sospensione delle politiche penitenziarie che continua a danneggiare la tenuta di un sistema in sovraffollamento, frustrato da mesi di “ozio forzato” e abbrutito dalle violenze. Ma cosa dice questa circolare, che sembra essere adottata per trovare un’intesa con i sindacati di polizia penitenziaria?
Con la circolare, il Dap richiama gli agenti e i dirigenti a intervenire rapidamente per isolare i detenuti che compiono atti violenti di insubordinazione, attuando il cosiddetto “approccio integrato (che sarà approfondito con futuri interventi)”. A tale fine, comunica l’Ufficio, è stata istituita il 25 giugno un’équipe di lavoro che ha l’obiettivo di elaborare nuovi regimi di custodia specifici per ogni istituto. La necessità è quella di evitare la diffusione di un clima di impunità che andrebbe a influire negativamente sull’ordine e la disciplina interna.
Pertanto, nei casi gravi e urgenti si può agire anche in via cautelare, quindi prima degli accertamenti del Consiglio di disciplina (l’organo collegiale che ha il compito di verificare le contestazioni e impartire la sanzione, art. 40 O.p), con l’isolamento del detenuto. Il direttore dovrà procedere velocemente evitando la decadenza della contestazione.
Il Dap in sostanza non lascia spazio a incertezze e manifesta anzi apertamente un’esigenza di controllo centralizzato, attraverso la raccolta delle informazioni. Oltre agli “eventi critici”, si dovranno infatti comunicare anche i “procedimenti disciplinari”, tutti dati che costituiranno il materiale grezzo del nuovo gruppo di lavoro, impegnato a immaginare nuovi segmenti detentivi per la conservazione dell’ordine nelle prigioni. Inoltre, il Dipartimento chiama i provveditorati regionali a monitorare semestralmente l’andamento del sistema disciplinare specifico di ogni carcere. Altre indicazioni riguardano i “trasferimenti disciplinari”, che già in piena Fase 1, in assoluta contraddizione con le esigenze provocate dall’emergenza epidemica, avevano precedenza rispetto a quelli per motivi sanitari. Dovranno essere comunicate tempestivamente le richieste di trasferimento al provveditorato competente e alla Direzione generale dei detenuti; quest’ultima controllerà con note specifiche gli andamenti e gli esiti dei provvedimenti con cadenza trimestrale. In ultimo, una “nota di colore” raccomanda alle direzioni degli istituti la predisposizione di presidi medici e di assistenza psicologica per il personale vittima delle violenze.
Forse a questo tipo di intervento preferivamo il silenzio, un simile inquadramento va a rafforzare soltanto una componente del sistema penitenziario, la sola a essere presa in considerazione in questi anni. Il personale in divisa proviene da una particolare formazione e quindi è addestrato a risolvere i conflitti attraverso metodi definiti e limitati. Il suo punto di vista è assolutamente parziale rispetto alla configurazione generale dell’ordinamento penitenziario che prevede – per una precisa scelta politica di sistema – ai vertici delle catene di comando soggetti vincitori di concorso pubblico che non indossano la divisa. Accanto agli agenti, ci sono operatori giuridico-pedagogici (personale nevralgico per la gestione dei detenuti e da sempre trascurato), psicologi, mediatori, figure ancora oggi dimenticate dall’agenda dei ministeri. Pertanto, schiacciare fino a confondere i bisogni e le strategie di tutto il mondo penitenziario con le esigenze della polizia è una scelta gravissima. Infatti, il carcere emerso in questi mesi è segnato da ferite profonde, sintomatiche di contraddizioni latenti e violentissime la cui risoluzione può essere attuata solo attraverso modifiche strutturali. Invece, l’irrigidimento mostrato dal Dap nell’ultima circolare consolida un’idea di carcere militarizzato e disciplinante.
Gli eventi drammatici, le quattordici morti, gli episodi di tortura emersi nelle indagini, potevano costituire occasioni per una riflessione sui metodi di contenzione della polizia penitenziaria (e delle forze dell’ordine in generale), sulle zone grigie degli abusi, sui poteri e sulle funzioni dei pubblici ufficiali che hanno facoltà di agire sui nostri corpi. Ancora una volta il contenimento è l’unico immaginario possibile, frutto di una visione miope e semplificata dei problemi complessi che riguardano le nostre libertà. “Sono convinto che la questione penitenziaria […] si collochi in un punto strategico e di forte crisi di questo nostro mondo dopo Cristo (come lo ha chiamato Marchionne per dire ai dipendenti Fiat che era finita l’epoca dei diritti), con una espressione che temo non voglia dire, come è d’uso, dopo l’apparizione di Cristo, ma dopo la sua sparizione”. Lo scriveva Alessandro Margara quasi dieci anni fa, perplesso per la barbarie dilagante. (dario stefano dell’aquila / luigi romano)
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