Baby Gang, il gioco della città di Diego Miedo offre a tutti noi una squisita soluzione a un problema terribile e allarmante che, con una regolarità pendolare, fa scattare una delle tante emergenze che costituiscono la nostra vita quotidiana: facciamo che questi ragazzi si ammazzino tra di loro, ma in un modo regolato e spettacolare, così che le loro morti possano allietare le serate della cittadinanza e dare a tutti un arguto e ricco argomento di conversazione. Allora le baby gang diventano protagoniste di un Reality che mette in gioco le loro vite per un milione di euro: chi sopravvive prende tutta la posta.
Non più spauracchio delle serate a teatro, non più incubo da viaggio in metropolitana, non più persecutori di venditori ambulanti, molestatori della borghesia mondana della città, ma eroi della televisione, beniamini di un pubblico che non li teme più, ma ne segue con trepidazione le esistenze, si emoziona, sobbalza, trattiene il respiro, si esalta e si dispera con loro.
Tutto sommato con un solo milione di euro si otterrebbero risultati che il welfare cittadino fino a ora non si è neanche potuto sognare. L’indotto pubblicitario potrebbe alleggerire notevolmente l’abnorme debito di una città come Napoli. Gli educatori attualmente impegnati nei servizi cittadini potrebbero aggiornare le loro mansioni all’interno del gioco in direzione di un counselling motivazionale, spronando i partecipanti a uccidersi con impegno, dedizione, senso di responsabilità e soprattutto consapevolezza etica.
Del resto il nostro sindaco, come tanti protagonisti della vita politica locale e nazionale, non ha niente da invidiare in termini di narcisismo al Sindaco del libro. Sarebbe bene allora coglierne l’intuizione: con il Reality il Sindaco non cerca di affrontare la violenza, di disinnescarla, ma trova il modo di incanalarla, si potrebbe dire di addomesticarla. Nel fare questo dà luogo a una grande catarsi: spettacolarizzata, ricondotta a regole di mercato comprensibili e condivisibili per tutti, la violenza diventa accettabile, gradevole, giusta. Quello che consente al Sindaco di reclutare il Teschio, dedicare una piazza a Rodolfo e fare di Gennaro, che aveva provato a ucciderlo, l’elemento di punta della seconda stagione di Reality è il trait-d’union tra il mondo nel quale si svolge la storia raccontata nel libro e il mondo nel quale viviamo noi: la violenza strutturale che informa, a ogni livello, la nostra vita e le nostre relazioni.
Nella realtà che viviamo tutti i giorni, masse fluttuanti di giovani occupano lo spazio urbano senza troppo riguardo per la politesse che il mondo adulto pretenderebbe. La loro presenza fisica è ingombrante, rumorosa, fisicamente disturbante. Privi di una cornice di senso che gli apra una prospettiva verso il futuro, invadono il presente divorandolo come un blob e così spaventando tutti coloro che del presente si sentono padroni. Nel grande caos che contraddistingue il movimento dei giovani emerge periodicamente la violenza, a volte brutale, che essi esercitano tra di loro o su altri soggetti, spesso molto vulnerabili. Questa brutalità genera orrore, a volte panico, si ricorre alla categoria dell’emergenza, si invoca l’esercito, quello con la divisa, oppure, con maggiore ipocrisia, si immaginano eserciti di educatori… Eppure la violenza è un elemento basilare che connota ogni momento della nostra vita: viviamo in un mondo in guerra, con masse di disperati che vengono lasciati morire un po’ ovunque, l’Italia firma accordi e sostiene logisticamente ed economicamente assassini, stupratori, mercanti di schiavi, interi continenti vengono ridotti alla fame per consentire a una piccola parte del mondo di mangiare cinque volte al giorno, di lavarsi tre volte al giorno e di spendere per il pranzo del proprio cane quello che un operaio di quei continenti guadagna in un mese. Gli stessi educatori, invocati in ordinate falangi, sono stati la categoria lavorativa più tartassata dal lavoro precario prima della comparsa dei rider. Cosa dovrebbe fare l’esercito di educatori se i ragazzi che si dice appartengano alle cosiddette baby gang non fanno altro che mettere in scena la violenza delle relazioni sociali? Convincerli della possibilità di una pacifica risoluzione dei conflitti in un tritacarne che sin dal primo vagito li ha destinati all’insignificanza?
Molto più scaltro, il Sindaco intuisce il potenziale spettacolare della violenza brutale che cova nelle vite marginali di questa massa enorme di giovani e la utilizza per ricavarne consenso. Il Sindaco è amato perché con il Reality offre ai cittadini uno strumento di pacificazione delle proprie coscienze: la violenza delle pistole non è più il riflesso della violenza di classe, cessa di essere la reazione di chi subisce una condizione ineluttabile di subalternità, per diventare un prodotto in sé. La marginalità diventa il requisito di accesso al Reality, l’esito brutale del modo di produzione capitalista diventa brand, credenziale, titolo. Ma a questa trasformazione di senso non corrisponde nessuna promozione sociale, nessuna nobilitazione personale: il marginale resta tale e il prezzo della trasformazione di senso è la spettacolarizzazione della sua morte.
Non c’è differenza di senso tra il Reality e la richiesta di invadere le strade con un esercito di educatori, al fondo c’è la stessa ipocrisia. I progetti socio-educativi vengono finanziati, poco e male, perché il loro scopo non è rimuovere le condizioni di disagio che li rendono necessari, ma fare sì che questo disagio sia tollerabile. Nel libro o nella nostra realtà il meccanismo è lo stesso: scardinare la violenza su cui si fondano le relazioni sociali significherebbe rivoluzionare tali relazioni. È molto più economico addomesticare la violenza.
Se l’educatore non prende coscienza della natura ambigua del suo lavoro finirà per essere un portatore di violenza perché, a partire dalla sua condizione di precarietà, porta con sé la stessa violenza che connota tutte le relazioni sociali. Se si vuole che i ragazzi non siano violenti bisogna metterli nelle condizioni di vivere relazioni non violente e non sono solo le armi, i calci o i pugni a fare la violenza. In un contesto meritocratico nel quale il migliore vince, il Reality ha piena cittadinanza, come hanno piena cittadinanza le baby gang: se io so usare le mani o il coltello meglio di te vuol dire che merito di comandare in questo vagone della metropolitana.
Bombolone vuole vincere un milione di euro per comprarsi un paio di scarpe che costano quattrocento euro: questo è uno dei momenti più veri e profondi del libro, nel non sequitur di Bombolone sta la dimensione tragica della sua esistenza. Gli educatori dovrebbero aiutare i ragazzi a liberarsi da questo orizzonte esistenziale claustrofobico, che si nutre di pochissimi elementi, sempre gli stessi, sempre assolutamente interni alla dimensione di marginalità in cui sono intrappolati. Ma per accompagnare i ragazzi in un percorso di emancipazione gli educatori dovrebbero innanzitutto lavorare per la propria, di emancipazione. Se l’emancipazione è un processo soggettivo che si situa in una dimensione collettiva, la questione dirimente, allora, non è se l’educatore lavora in un ente del privato sociale o se è militante in uno “spazio liberato”, ma che livello di consapevolezza ha del suo ruolo e della sua collocazione nel modo di produzione e che capacità ha di agire collettivamente.
Se le baby gang sono una manifestazione della violenza intrinseca alle relazioni sociali, il lavoro educativo o è rivoluzionario o non è. (emiliano schember)
Leave a Reply