Prima che cominciasse l’emergenza Covid avevamo in cantiere il numero de Lo Stato delle città da far uscire ad aprile. L’indice era in gran parte dedicato a cronache, analisi e reportage sui movimenti sociali intorno al cambiamento climatico e sulle mobilitazioni popolari in corso in tante parti del mondo, dalla Francia al Libano, dal Cile alla Catalogna fino a Hong Kong. Abbiamo buttato nel cestino quell’indice e siamo usciti, con un mese di ritardo, con un numero speciale di emergenza. Ma pensiamo sia importante proporre questo reportage da Hong Kong. Sebbene frutto di un viaggio di qualche mese fa, quel che racconta è ancora attuale e molto utile per orientarsi in una situazione in costante evoluzione.
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Hong Kong Special administrative region of China, fine settembre-inizio ottobre 2019. Ho scelto la settimana giusta per tornare.
I poliziotti in borghese e in anti-sommossa trascinano dei giovani – alcuni giovanissimi – e ne spingono altri a terra, a decine. Uno per uno, raccolgono mucchietti di ossa sparpagliati sullo stradone di fronte al Legislative Complex di Hong Kong, il parlamentino della città più ribelle della Cina. Li schierano lungo il muro del parlamento, spalle alla strada, viso rivolto verso l’istituzione che dovrebbe garantire l’autonomia di Hong Kong, il cui edificio è, guarda caso, adiacente al quartier generale della People’s liberation army. Dopo ore di barricate e lacrimogeni, sul suolo giacciono maschere antigas, k-way, proiettili di plastica e macchie di benzina.
Kids against the police. Solo che i kids tutto sommato, rischiano grosso: per rioting, si può restare fino a dieci anni in prigione. Senza contare le possibili ritorsioni: esclusione dall’educazione superiore, proscrizione, ritiro del passaporto. E più Hong Kong diventa “cinese”, più i rischi si fanno concreti.
È venerdì. Oggi si festeggiano i cinque anni della rivoluzione degli ombrelli, quel movimento che in stile “occupy” aveva piantato migliaia di tende nel mezzo di Hong Kong per rivendicare il suffragio universale. Domenica c’è la “marcia globale anti-totalitaria” e martedì 1 ottobre si festeggiano i settant’anni della Cina popolare.
Ho riallacciato alcuni legami di cinque anni fa, organizzato alcune interviste con persone incontrate all’epoca:Claudia Mo Man-chin, che incontrai durante il movimento degli ombrelli, parlamentare pro-democrazia mainstream ma eletta nel distretto popolare di Mong Kok. Ho scritto anche a “Long Hair” Leung Kwok-hung, ex-parlamentare guevarista, la cosa più simile alla sinistra rivoluzionaria a queste latitudini. Ha sessantatre anni, immigrato poverissimo dalla Cina da bambino, è un grande cultore di calcio: cinque anni fa mi prestò una biografia di Garrincha.
I leader studenteschi dell’epoca di Occupy, gente come Nathan Law, Agnes Chow, Joshua Wong, che avevo incontrato nel 2014, non sono più in città. Sono fuggiti all’estero, o rasentano i muri. Parecchi di loro sono passati dalla prigione, altri sono andati via, negli Stati Uniti o in Canada. Altri sono rimasti, ma ormai contano poco.
Joshua Wong continua a farsi vedere ovunque in tv, il poster boy della rivolta hongkonghese… all’estero. Al contrario di cinque anni fa, non ci sono più le figure carismatiche ad assumersi da sole il triplice peso dell’iniziativa, della repressione e della mediatizzazione. Il Civil and human rights front, cartello dell’opposizione, è il soggetto che si assume le dichiarazioni in questura, la sua sostanza è formale, un paravento. I palchi con impianto, microfono e tecnico del suono ci sono ancora, ma poi in strada è un’altra musica a dettare i passi.
I sindacati studenteschi e i loro derivati – tra cui Demosisto, la formazione di Wong, Law e altri –, cosi come i guru della disobbedienza civile come Benny Tai, sembrano aver perso il loro peso specifico. Tai, che pure è un tranquillo professore democratico, di quelli che piacciono a Repubblica e fanno furore alla Biennale democrazia di Torino, è stato arrestato due volte nel giro di un anno, mentre scrivo è ancora dietro le sbarre. Colpiti dalla repressione e dalle difficoltà, queste figure ormai vagano impotenti nell’atmosfera surriscaldata dai gas lacrimogeni.
UN MOVIMENTO LIQUIDO
L’organizzazione del movimento è fluida, decentrata. I canali Telegram sono seguiti da centinaia di migliaia di persone e funzionano in maniera splendidamente efficiente. È difficile per me capire il funzionamento interno del movimento, abituato come sono alla realtà strutturata dei movimenti europei. C’è un che di gilet jaunes nel modo in cui il movimento avanza per spinte e scossoni, nel modo in cui pratica l’orizzontalità; ma anche nel modo in cui si fa intrappolare in piazze decise dalla polizia.
La liquidità del movimento tuttavia non impedisce forme altamente auto-organizzate. Scopro un canale Telegram dedicato alla stampa: gestito da studenti, mette in relazione giornalisti con potenziali fonti. Cerco di saperne di più e mi trovo a intervistare Emily*, trentenne attivista ed ex-impiegata di banca. È moderatrice su LIHKG, un forum gigantesco anonimo e studentesco, una vera e propria base virtuale del movimento. Cerca “gilets jaunes” sul forum, ride perché i risultati sono troppi, ride ancora quando mi traduce un post in cui si celebra il fatto che poche centinaia di gilets jaunes fossero riusciti, nel 2018, a causare milioni di euro di danni durante una giornata di scontri nei pressi di monumenti. «Forse anche noi dovremmo cercare dei monumenti storici!»
Tutte le persone al di sotto dei quarant’anni che ho incontrato sono per l’indipendenza dalla Cina. In forme spesso diverse tra loro – c’è chi assume la rottura politica più totale e chi si limita a constatare una supposta differenza culturale. La democrazia non è sempre la rivendicazione principale. Talvolta è una ragione, talaltra una conseguenza. La mancanza di leader e strutture è la spia di quest’ambiguità. Un leader probabilmente ci sarebbe: Edward Leung. Solo che è in prigione, senza speranza di uscirne presto.
La parabola di Leung rappresenta l’evoluzione politica più sorprendente tra tutte quelle sopraggiunte dal 2014. All’epoca, il movimento era pacifico e non-violento, incardinato sulla rivendicazione della democrazia rappresentativa a suffragio universale, terreno sul quale la Cina di Xi Jingping non ha nessuna intenzione di concedere il minimo frammento d’unghia. Tra le varie barricate che hanno tenuto le strade per più di tre mesi, quella che frequentai di più era a Mong Kok, un quartiere popolare crocevia di traffici e commerci al limite della zona centrale di Hong Kong. Era la barricata più “radicale”; a Central, nei pressi del parlamento, c’era quella più grande; a Causeway Bay quella degli artisti; a Mong Kok, c’erano scazzi ogni giorno. Al mattino, dei tizi allenavano i manifestanti al wing chun per imparare a difendersi dagli scagnozzi delle triadi che ogni tanto, la sera, venivano in gruppo a pestare i barricaderos. Altre volte erano i poliziotti a creare tensioni, ma mai si sparò un gas, nel 2014 a Mong Kok. Certo la sorveglianza c’era, ma con tatto. Era lì che c’era una piccola, minuscola, irrilevante frangia estremista che passava come ala “nativista” o “localista” – qualche decina di persone, all’epoca. Un gruppetto di pazzi che faceva sue le parole d’ordine della necessaria indipendenza di Hong Kong e non disdegnava una certa retorica razzista nei confronti dei cinesi della mainland. Fu l’inizio di una valanga.
Nel 2016, Edward Leung, all’epoca venticinquenne, ha fondato un partito per l’indipendenza di Hong Kong: gli “indigeni di Hong Kong”. La formazione si è distinta in una serie di scontri con la polizia, in particolare durante quella che, sempre nel 2016, è passata alla storia come la rivolta delle fishballs di Mong Kok. Leung si è poi presentato alle elezioni nel bizantino sistema elettorale di Hong Kong, che permette una piccola quota di oppositori alla Cina di entrare in parlamento, senza che questo provochi il benché minimo problema a Pechino.
Leung ha ricevuto un sacco di voti, ma il governo ha deciso di escluderlo dal processo elettorale per le sue dichiarazioni a favore dell’indipendenza di Hong Kong, e lo ha poi messo in galera col pretesto degli scontri con la polizia. Da allora Leung è rimasto in galera, ma il suo slogan, Liberate Hong Kong: revolution of our time (libera Hong Kong: la rivoluzione del nostro tempo), è di gran lunga lo slogan più conosciuto, declamato e apprezzato nelle manifestazioni di questi mesi.
Il suo volto è uno stencil onnipresente laddove passano i cortei, le sue parole d’ordine universalmente condivise, l’ammirazione nei suoi confronti senza limiti. La mitologia indigenista, che a doppia elica si interseca con quella della personalità e del carisma di Leung, è di fatto egemonica nel movimento, anche se per ora si limita a una questione di immaginario più che di pratica politica.
In ogni caso, cinque anni dopo Occupy, l’indigenismo è politicamente quasi egemone. Il loro mindset ha conquistato la larga maggioranza dei giovani, in particolare degli studenti. A loro vantaggio, il fatto che siano stati i primi a leggere l’evolversi della repressione a comportarsi di conseguenza. Durante le fishballs predicarono e praticarono la resistenza attiva, buttarono alle ortiche la disobbedienza tranquilla di Central, il loro stile era “hardcore Mong Kok”.
LUNGHI CAPELLI PARLA
Domenica. Fa un caldo bestia. La marcia anti-totalitaria, prologo della grande manifestazione del primo ottobre, dovrebbe partire dal quartiere commerciale di Causeway Bay, vicino a Central. Arrivo in anticipo, prevedendo la chiusura della metro, misura ormai abituale. La manifestazione è vietata e la polizia sorveglia attentamente tutto quello che si muove, armata con fucili a proiettili di gomma. Ma non può impedire alla folla di ingigantirsi, secondo dopo secondo. Poi arriva Long Hair, acclamato dalla folla, con gli altri del Civil & Human Rights Front, e la manifestazione comincia. Cinque minuti dopo, scoppiano i primi lacrimogeni. Presto appaiono le molotov, gli schieramenti, la falange di ragazzini vestiti di nero, le maschere antigas dietro agli ombrelli. Avanti e indietro per gli stradoni del quartiere finanziario, gli schieramenti anneriscono il bitume con le tracce di benzina e saturano l’aria col pop-pop dei proiettili di gomma.
Alla sera, la situazione si calma. La polizia mette in azione posti di blocco su tutti i punti di passaggio, alle stazioni dei bus e al casello del tunnel che divide Hong Kong in due. Ogni individuo dall’aria studentesca viene perquisito. I trasporti sono quasi fermi. Macchinate solidali raccattano giornalisti sperduti come me, o giovani altrettanto smarriti per nasconderli chi a casa, chi in albergo. Be water.
Long Hair ha girato l’America latina sulle tracce del Che, ricordo che le fotografie di quel viaggio adornavano il suo ufficio in parlamento. Ora l’ufficio non c’è più. È stato espulso dal parlamento a causa della sua popolarità e della sua opposizione radicale alla élite pro-Pechino che governa Hong Kong. Mi riceve in un anonimo palazzo di periferia, sede dell’Hong Kong League of Social Democrats. Indossa ancora la tenuta da calcetto, deve avere finito da poco una partita. «Il terreno comune per gli hongkonghesi che protestano – dice – è la violenza della polizia», che la maggioranza giudica rivoltante, se non indice della dominazione di Pechino.
Un dato che lo preoccupa. Perché la resistenza alla polizia occupa il centro della narrazione, dando vita a coreografie e parole d’ordine che hanno ispirato movimenti ai quattro angoli del globo, ma che restano, secondo lui, inconsistenti. «Non si può sempre essere acqua – dice Long Hair, facendo riferimento a uno degli slogan più famosi del movimento: Be water, be shapeless (sii acqua, sii senza forma), una citazione di Bruce Lee ispirata da Lao Ze, e presto eletta a tattica per sfuggire alla repressione –. Se ti versano sopra centinaia di tonnellate di terra sopra la testa, poco importa che tu cambi la tua forma: l’acqua scompare. Una tattica deve essere legata a una strategia, e una strategia a una qualche forma di analisi».
Per ora, tutto ciò manca, secondo Long Hair. Il che risulta in un’ambiguità di fondo: «Questo movimento è per il suffragio universale o per l’indipendenza di Hong Kong? Per ora, non è per niente chiaro». I dubbi di Long Hair non gli hanno per ora impedito di partecipare a tutte le manifestazioni, spesso facendo da “scudo” istituzionale quando si è trattato di sfidare i divieti della polizia hongkonghese. Ma è una generazione intera – la sua – a essere disorientata e incerta.
La generazione dei Long Hair, dei Benny Tai, dei Chan Kin-man (prete e figura importante dello schieramento pro-democrazia), che ha diretto l’opposizione a Pechino da Tienanmen in poi, era abituata al gioco delle istituzioni. Pur sotto il controllo cinese, le istituzioni mediatiche e politiche di Hong Kong lasciavano una serie di pertugi che gli attivisti erano spesso abili a sfruttare, senza tuttavia mai mettere in pericolo la fedeltà dell’ex-colonia alla madre patria.
Nel 2014, Occupy aveva bloccato per mesi le strade attorno al parlamento. La battaglia era istituzionale: implementare le libertà previste dal trattato anglo-cinese del 1997. La pressione era sulle istanze rappresentative. L’orizzonte, quello delle elezioni locali che si sarebbero tenute poco dopo, alle quali si presentarono diversi candidati provenienti dalle fila del movimento studentesco.
Cinque anni dopo, i candidati studenteschi sono stati espulsi, persino una vecchia volpe come Long Hair è stato buttato fuori dal parlamentino, e il parlamento non è stato circondato, ma attaccato, assediato e occupato, sebbene per breve tempo. Uno scenario al di là dell’impensabile per chiunque abbia frequentato anche brevemente questa zona del mondo nel corso degli ultimi dieci anni. Ancora nel 2008, quando il Sichuan e altre zone limitrofe della Cina erano scosse da terribili alluvioni, gli hongkonghesi lanciavano imponenti raccolte di fondi all’insegna dello slogan “il sangue è più spesso dell’acqua”. Un’altra epoca. Oggi l’acqua, l’essere acqua, è ben più importante del sangue.
«Non siamo lo stesso popolo, è chiaro», riassume lapidariamente una studentessa di giornalismo. Per questa ventenne, colta e intelligente, questo enunciato non è il risultato di un’analisi, né la conseguenza di alcunché, bensì un semplice dato di fatto, un postulato. È chiaro. È ovvio.
TRE CENTIMETRI DAL CUORE
Martedì primo ottobre, settantesimo anniversario della Cina popolare. I trasporti sono interamente bloccati, e si prevedono enormi cortei ovunque in città. I negozi sono chiusi, le scuole e le università anche, il parlamento è un susseguirsi di jersey e barricate. Dopo aver vagato per Central, un corteo di diverse centinaia di migliaia di persone raggiunge il parlamento. Il LegCo è l’unico obiettivo raggiungibile, ma imprendibile, separato dalla folla da alte passerelle accessibili solo in scala mobile, prontamente bloccate da decine di poliziotti armati. In mezzo al caos di gas e pietre e molotov, scorgo un centinaio di giovani intenti a prepararsi dietro a un angolo, nei pressi delle scale mobili. Aprono gli ombrelli, come un grande scudo multicolore, una falange di pezza. Pian piano, barcollando, avanzano verso la scala. I poliziotti armano e puntano i fucili, sui quali è scritto a grandi lettere: “arma meno letale”. Un grido, e la falange raffazzonata si lancia sulle scale, all’assalto. Pop-pop dei proiettili di gomma, poi gli scoppi delle granate lacrimogene, i giovani continuano a salire, mancano pochi metri ai poliziotti (mi chiedo cosa succederà dopo). Il pop-pop del caucciù sul nylon si fa più persistente, la falange arretra lentamente.
Nello stesso istante, dall’altro lato della città, nel corso di un altro corteo, un gruppo di studenti riesce ad arrivare a contatto con un gruppo di agenti. Nel corso dei tafferugli, un poliziotto estrae la pistola, punta al petto di uno studente di diciotto anni e spara. Il proiettile passa a tre centimetri dal cuore.
Al penultimo giorno del mio viaggio, incontro Paul (non è il suo vero nome). Ha sedici anni, e si definisce un frontliner. È capo-gruppo, nel senso che una piccola squadra di rioter fanno capo a lui nel mezzo degli scontri. Si occupa di curare gli altri, come i medic dei videogiochi. È appena uscito di galera. Lo sono venuti a prendere dopo la marcia anti-totalitaria, «per non farmi partecipare alla manifestazioni», dice lui. Lo accompagno a rifornirsi di materiale a Mong Kok. Bisogna riprendere le scarpe, «impermeabili per difendersi dall’acqua urticante» lanciata dai blindati della polizia, uno zaino ben fornito di tasche, un tascapane… Paul è figlio di un medico. «Middle class», dice. Ha scritto una lettera d’addio ai suoi genitori e agli amici, nel caso tra polizia e sparizioni sospette le cose dovessero mettersi male per lui. Nella missiva, si scusa per non essere stato un buon figlio, chiede ai suoi di essere fieri del fatto che abbia avuto il coraggio di battersi per un ideale, «our Hong Kong», e gli intima di non bruciare libri né altri ammennicoli al funerale (pratica tradizionale cinese). «Bruciate per me un paio di sneakers e una playstation 4».
Gli chiedo se secondo lui sia più importante la democrazia o l’indipendenza, ma risponde che senza l’una non si può avere l’altra, e che qui sta il contributo della sua generazione di militanti rispetto alla precedente. Gli chiedo se secondo lui non siano le diseguaglianze incredibili di Hong Kong il vero problema, e che le istituzioni siano un aspetto secondario. Mi guarda come se parlassi arabo: «In ogni caso, prima dobbiamo essere liberi».
Paul se ne va, ha una riunione a cui deve partecipare. Settanta ragazzini pronti a mettere a fuoco e fiamme la città, presi in un processo di indipendenza ambiguo, tra democrazia e indipendenza, nazionalismo e anticolonialismo. Kids against the police. (filippo ortona)
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