È di qualche giorno fa la notizia della morte del maestro di pugilato Domenico Brillantino, una figura importante per il movimento pugilistico campano e nazionale. Da una palestra di Marcianise, provincia di Caserta, Brillantino insieme a un altro paio di maestri ha allenato per anni generazioni di pugili, facendo appassionare adolescenti e sfornando campioni olimpici. Aveva settantasei anni.
Nessuno è mai riuscito a capire cosa significasse il pugilato per Raffaele. Forse per via del nonno. La prima volta che entrò in una palestra, dopo due ore davanti allo specchio a fare i passetti avanti e indietro fu scoraggiante. Dopodiché decise d’insistere e imparò la tecnica in un sottoscala. Era veloce, riusciva a schivare i colpi come se fosse l’istinto a suggerirgli i movimenti. Prometteva bene. Secondo di tre fratelli, il più grande lavorava a Verona e il più piccolo studiava all’istituto tecnico industriale. Lui stava per finire l’ultimo anno di Ragioneria dopo essere stato bocciato. Sua madre lavorava in un’impresa di pulizie e il padre era un imbianchino piuttosto silenzioso. Suo nonno era morto da qualche anno, aveva fatto il contadino per tutta la vita e si era avvicinato al pugilato quando emigrò nel sud della Francia. Raffaele ricordava le sue storie, verso ora di cena, quando nei mesi estivi si ritrovavano insieme seduti sulle cassette della frutta nella sua campagna mentre mangiavano il pane coi pomodori.
Dopo tre anni era ormai diventato un pugile eppure non sapeva ancora spiegare in parole povere questa sua passione. In genere ciò che ti avvicina al pugilato non dipende soltanto dalla tua individualità e spesso non è dettato neanche da una motivazione esplicita di chissà quale spessore. Forse c’è di mezzo la rivalsa. Cominci perché vuoi sfogare qualcosa che tieni dentro. Può darsi che inizi perché sei rimasto ferito da un torto, oppure a causa di qualche umiliazione. Ma è anche perché hai provato almeno per una volta una rabbia assoluta impossibile da esprimere altrimenti. A volte cominci pure perché sei umile di indole, e nei posti in cui era cresciuto Raffaele la gente comune confonde l’essere umili con l’essere fessi. In definitiva è perché senti il bisogno di combattere con quello che tieni tra le mani. Dopodiché assecondi l’istinto, come fece Raffaele anni fa quando entrò in palestra e superò quel primo allenamento noioso, poi il secondo, poi il terzo. Raffaele era insicuro e voleva mettersi alla prova. Prima di tutto voleva sfidare se stesso. Aveva voglia di vedere quanto coraggio teneva, di dimostrare che non era un codardo, che altrove i conti non tornavano, anche se alla fine era tutta una questione di orgoglio.
La voce del maestro era suadente. Un latrato cagnesco e ritmato durante gli allenamenti, una melodia benevola adesso. Raffaele ascoltava in silenzio le sue ultime raccomandazioni, seduto sulla panca di legno dello spogliatoio mentre si toglieva i bendaggi, impregnato di sudore. Nel suo sguardo si sarebbe potuta leggere tutta la sua gratitudine. La coppola nera in testa, il maestro durante gli allenamenti li osservava tutti con attenzione, senza dire niente, e a volte nessuno si accorgeva della sua presenza. Scrutava gli errori degli aspiranti, guardava i movimenti nei dettagli, poi si avvicinava all’improvviso e diceva bisbigliando cosa sbagliavano, e con estrema pazienza li plasmava nel tempo, lentamente, sempre a ripetere le stesse cose, gli stessi passi, gli stessi movimenti. L’indomani si sarebbe alzato prima dell’alba per il turno di mattina, perché lavorava nella nettezza urbana oltre a essere un maestro di pugilato. Poi di nuovo in palestra a spremere gli agonisti prossimi ai combattimenti nei tornei regionali. Dovevano imparare a sopportare quello che in genere chiamano dolore, a portare bene i cazzotti, a smussare la rigidità dei movimenti, a stare bene sulle gambe, ad avere il giusto equilibrio, a incassare, a schivare, a mandare a vuoto, a considerare l’odio come presupposto per rispettare l’avversario. Dovevano essere perfetti atleti ai suoi occhi, altrimenti sul quadrato non sarebbero mai saliti.
La palestra stava in una scuola media, ma non era solo il luogo degli allenamenti. Era frequentata da gente di ogni tipo che passava a dare un’occhiata e dagli altri pugili che incrociavi nello sguardo mentre facevi sparring: ragazzini dell’istituto alberghiero, militari, aspiranti militari o poliziotti, che cercavano di entrare nell’esercito o in polizia grazie al merito sportivo, immigrati dell’est, figli di operai edili, carpentieri. Arroganti di provincia esaltati. Giovani irascibili provenienti dalle frazioni limitrofe, adolescenti rinchiusi nelle case di correzione e ragazzi semplici, a cui bisognava cacciare fuori la giusta dose di collera poiché erano buoni come il pane. Sui muri, oltre alle foto storiche degli incontri, alle medaglie e ai cimeli, stavano appese alcune scritte: “Quello che metti nel sacco quello trovi!”, oppure: “A tutti gli atleti: per un buon allenamento non ci sono problemi, per un cattivo allenamento non ci sono soluzioni”. E ancora: “Non avere paura del tuo avversario: lui non ha nulla in più di te”. Per il resto non dovevi mai dimenticare di alzare quelle mani e stare sempre in guardia. Il maestro non avrebbe mai smesso di dirlo a Raffaele, glielo ripeteva adesso nello spogliatoio, alla fine dell’allenamento, come il padre che ripete al figlio di coprirsi quand’è freddo.
Raffaele pensava al maestro mentre tornava dalla palestra e attraversava in motorino San Marco, un piccolo paese con la piazza dedicata a Gramsci e le vie intitolate a Sacco e Vanzetti, Gagarin e Pietro Nenni. Al centro della piazza, una statua in memoria del pugile campione dei pesi welter Michelone Palermo, poi un salone di barbiere, una macelleria con l’insegna rotta, dei vecchi fuori all’unico bar e un caseificio. L’odore del pollo allo spiedo gli faceva venire sempre fame, anche se non poteva sgarrare in quel periodo. Schiere di villette appena costruite erano in vendita lungo la strada e i ruderi diroccati si reggevano a malapena ai lati di una variante che portava fin dentro Maddaloni. Intorno a San Marco gli altri paesi, collegati soltanto da un vialone trafficato di giorno e pieno di prostitute di notte, coi cartelloni pubblicitari al fianco di quelli dell’ultima campagna elettorale e gli africani a vendere fazzoletti ai semafori. E poi strade secondarie piene di fosse che diventavano pozzanghere quando pioveva. Le giostre elettriche e il circo di Moira Orfei apparivano in certi mesi dell’anno lungo il vialone, non lontano dalla zona industriale.
A un certo punto Raffaele si accorse che tutto era diverso da come l’aveva visto tempo addietro. C’erano voluti anni di allenamento e abnegazione, giorni scanditi dal ritmo della corda, dei guanti, delle ripetute al sacco. Ovunque volgesse lo sguardo adesso, mentre guidava il motorino verso casa, gli sembrava di non appartenere a quel mondo. Era una serata diversa, il giorno dopo l’ansia sarebbe passata, eppure quel preludio era difficile da condividere. Un pugile suo amico gli aveva confidato che al suo primo combattimento per colpa dell’emozione aveva indossato il parapalle al contrario: invece di metterlo davanti lo mise dietro, come a pararsi il culo.
Da quel preciso stato d’animo stava emergendo una consapevolezza mai avvertita prima da Raffaele. Mentre attraversava quello squallido panorama pensava che non gli era mai capitato di sentirsi così solo, così estraneo e allo stesso tempo così eccitato. Si stava confrontando con la paura di un’insidia che non conosci finché non ti si para davanti, ma era questione di ore ormai. L’indomani pomeriggio alle sei in punto, il pugile dilettante Raffaele Maielli, classe 1994, per la categoria dei pesi medi, sarebbe salito sopra al quadrato in occasione di una riunione pugilistica regionale, davanti a un pubblico di appassionati e frequentatori della palestra, solo con se stesso e al cospetto del suo avversario, pronto per combattere il suo primo incontro. (andrea bottalico)
Leave a Reply