A Jacarezinho c’è la guerra ma Juliana non ha intenzione di rinunciare alla festa del suo trentasettesimo compleanno. Per arrivare a casa sua bisogna inoltrarsi a fondo nella grande favela situata nella zona nord di Rio de Janeiro. Superati i binari della linea ferroviaria Central-Belford Roxo percorriamo un centinaio di metri lungo la strada principale fino a una piazzetta che forma un bivio, ma all’imbocco di un gomitolo di vicoletti transitabili solo a piedi o in motocicletta il mio orientamento si perde rapidamente. Ma sono con il bonde di Thiago e i fratelli, nipoti della festeggiata, non c’è da preoccuparsi. Gran parte del quartiere è al buio. Qualche “cortesia” di piombo tra i narcotrafficanti e la polizia ha colpito alcuni trasformatori di energia disposti lungo le strade su pali di legno da cui partono matasse caotiche di cavi elettrici. Ci facciamo strada con le torce dei cellulari, qualche scarno esercizio commerciale è illuminato da generatori. Lungo il percorso, baracche di legno coperte da teloni di plastica blu riparano dalla pioggia di questi giorni i banchi di vendita di marijuana, crack, loló e cocaina. Motociclette e adolescenti armati di fucili mitragliatori e radiotrasmettitori ci passano accanto in piena “attività”. Giriamo un angolo e l’allegria della festa ci travolge, siamo giunti a destinazione.
Célio è il marito di Juliana, ci accoglie sorridente e ci invita a metterci a nostro agio. Una tavola è colma di pietanze preparate, frutta a volontà e grandi casse di polistirolo piene di birra gelata: «Solo non abbiamo contrattato il garçon, per cui dovrete servirvi da soli» ci dice ilare. La strada è interamente occupata da una cinquantina di parenti di tutte le età riuniti attorno a tavoli di plastica da bar, i bambini si divertono a saltare su una piccola rete a molla disposta sul fondo. L’odore del churrasco, la carne alla brace, ci avvolge insieme ai ritmi ossessivi del funk carioca sparati a tutto volume da due grandi casse stereo. Sirene, tamburi e testi discutibili mi inchiodano il cervello: mulher que não chupa perde o marido para outra, baile do Jaca, baile do Jaca, traca traca traca!
Juliana è incontenibile nella sua allegria. Danza sfrenata insieme a sorelle, cugine e nipoti; offre da bere, scambia sorrisi e abbraccia tutti affettuosamente. In un locale sulla strada con le pareti addobbate di fiori, festoni e palloncini dorati a forma di numeri tre e sette, di volta in volta porta gli invitati a fare la foto attorno a una torta di tre piani in mostra su un tavolo agghindato. É una donna valente, un metro e ottanta per novanta chili di forme, sprigiona potenza e determinazione, «lei è la mia forza, senza di lei non sarei nulla» mi confida Célio.
La festa sembra in contrasto con l’atmosfera tesa che si respira a Jacarezinho. Due giorni prima è stato assassinato il commissario di polizia Fabio Monteiro, lo hanno trovato nel cofano di una macchina in una strada poco distante dalla comunità. La rappresaglia non si è fatta attendere. Sono giorni che la polizia militare e i gruppi speciali fanno incursioni e i trafficanti non stanno a guardare. La polizia spara anche dall’elicottero, e i funzionari della Light – l’azienda di distribuzione dell’energia elettrica – venuti a sostituire i trasformatori danneggiati, si sono dovuti rifugiare insieme agli abitanti. Circa cinquemila persone sono rimaste senza energia per più di una settimana. Stavolta la polizia ha lasciato a terra tre persone, ma ad agosto, in un’operazione simile che ha tenuto la popolazione per undici giorni in ostaggio, i morti sono stati almeno sei. Nei giornali nazionali e nelle reti sociali girano immagini di arresti di massa della popolazione, lunghe file di persone mano nella mano vengono condotte a piedi alla vicina cittadella della polizia. Le case vengono invase senza necessità del mandato, tutti sono presunti criminali. Célio mi racconta della prassi che segue in occasioni del genere, per evitare il peggio. Mette i bambini al riparo e quando sente che la polizia sta per entrare in casa grida forte «signore, questa è una casa di lavoratori, ci sono i bambini, stia calmo per favore». Qui si impara presto a convivere con la violenza, forse è questo il motivo per cui è sacrosanto festeggiare un anno in più in cui si è rimasti vivi.
Verso le quattro del mattino la birra è finita, ma il carburante della festa non può mancare. Organizziamo una colletta e in gruppo usciamo a rifornirci al deposito di bibite di zio João, a dieci minuti di distanza da dove siamo. Attraversiamo un ponticello su un fiume che raccoglie gli scarichi della comunità e che nelle giornate di pioggia forte straripa, allagando gli isolati di case lungo il margine destro. Di fronte un muro a lato delle scalette di accesso a un campo di calcio con su scritto “educazione, cultura e tempo libero”, un cavallo è legato alla carcassa di una macchina. A qualche metro c’è una montagna di spazzatura sulla quale bivaccano degli urubu. Costeggiamo il campo ed entriamo in un vicolo, alcune scritte recitano versi di salvazione della bibbia, dopo un piccolissimo largo giriamo a destra e passiamo per la casa di João. Qui ci fermiamo a osservare la parete forata dai proiettili dell’ultimo confronto tra polizia e trafficanti. João dice che stavolta ne ha collezionati solo cinque, ma la parete e il cancello di ferro in basso sono una groviera. La sua casa è in una strada a ridosso di un punto da cui spesso la polizia tenta di entrare e si trova così nel fuoco incrociato del confronto, «questi dannati si mettono a sparare da un lato e dall’altro ma nessuno ha fucili che fanno fare curve ai proiettili», sdrammatizza. Proseguiamo sull’asfalto – come si usa dire quando si esce dalla favela – e, dopo aver percorso un paio di strade con vecchi edifici e capannoni industriali abbandonati, arriviamo al deposito. Mentre carichiamo il carrello con quattro casse di birra sentiamo il frastuono di due raffiche di mitra a non molta distanza da noi. Ci ripariamo da un lato e dall’altro della strada, una signora seduta fuori un camioncino Volkswagen sembra non essere assolutamente scossa, così come João intento a chiudere la saracinesca del deposito. Attendiamo qualche minuto poi Célio ci rassicura: «Gente, questi sono spari per darsi morale, per dire che è tutto sotto controllo. Andiamo». Nel ritorno, Bruno, il figlio quattordicenne di João, mi racconta che durante l’ultima sparatoria un proiettile ha colpito il letto dal quale si era alzato qualche minuto prima. Poi mi dice che a Jacarezinho c’è un vicolo che si chiama beco da Siria, ma che ha visto immagini di là che sono ben più drammatiche, palazzi sventrati da bombe e macerie lungo le strade.
Questo no, a Jacarezinho non c’è, ma in Brasile si muore di morte violenta più che in Siria. Secondo la ONG Fórum Brasileiro de Segurança Pública, tra il 2011 e il 2015 in Brasile ci sono stati 278.839 omicidi – il documento contempla morti intenzionali, seguite da lesioni corporali, dovute a rapine, morti provocate dalla polizia o agenti uccisi in servizio e non. Nello stesso periodo, secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, la guerra in Siria ha ucciso 256.124 persone. Ma in Brasile la guerra ha una natura diversa, essa non è dichiarata, è interna. Attraverso i dati recenti dell’Instituto de Segurança Pública (ISP), possiamo osservare una tendenza crescente ancora più allarmante. Nel 2017, nello stato di Rio de Janeiro ci sono stati 5607 omicidi, ma 1124 di queste morti, (il 16,7%) sono occorse in conseguenza di interventi della polizia civile e militare. Se si restringe il campo alla sola città di Rio de Janeiro la percentuale aumenta: delle 1598 morti violente, 527 sono avvenute per mano della polizia, il 25 per cento. Inoltre, secondo i dati raccolti dall’Instituto de Pesquisa Econômica Aplicada (Ipea) e dal Fórum Brasileiro de Segurança Pública nell’Atlante della Violenza del 2017, ogni 100 persone assassinate dalla polizia, 71 sono nere. È lo Stato contro la società, o meglio, contro una parte specifica di essa: i neri e i poveri.
Questa situazione affonda le radici nel passato coloniale del paese e trova nella decennale “guerra alla droga” un terreno fertile di riproduzione. Del resto, la selettività del sistema penale – dal racial profiling delle operazioni di polizia e dell’incarceramento, all’attenzione differenziale alle illegalità – così come la funzione del proibizionismo, hanno un ruolo fondamentale nel controllo sociale e nel governo della popolazione nera e povera. Ma come denuncia la campagna Caveirão Não! Favelas pela Vida e contra as Operações, che riunisce un ventaglio di organizzazioni territoriali per il rispetto dei diritti umani e per la tutela delle vittime della violenza – e che si oppone all’uso frequente del Caveirão, il mezzo blindato usato dalla polizia – con la giustificazione di “combattere il crimine organizzato e il traffico di droga”, si mette a rischio l’integrità fisica e la salute mentale degli abitanti delle favelas, provocando l’interruzione della quotidianità locale e impedendo che scuole, asili e ospedali funzionino normalmente.
La guerra segue una precisa geografia del colore. I focolai sono disseminati all’interno del grande suburbio carioca e tra i morros della zona sud, le colline dove sorgono le favelas. Mentre nella città di Porto Alegre andava in scena una nuova puntata della House of Cards brasiliana, nella Cidade de Deus, zona est di Rio de Janeiro, dal primo mattino un’operazione di polizia teneva in ostaggio l’intera comunità per tredici ore. Il giorno successivo è toccato alla favela della Rocinha, nella zona sud, già teatro, a ottobre, di un’occupazione militare durata una settimana, e due giorni dopo un ragazzo è morto mentre serviva da bere ai tavoli del bar dove lavorava, colpito da un proiettile vagante a Tijuca, nella zona nord. Più ci si allontana dalla vetrina delle spiagge e dei quartieri boemi della zona sud della città, più cambia lo spettro cromatico della popolazione e più s’incontrano condizioni di deprivazione sociale e ambientale, dove la presenza dello Stato spesso non va oltre i colpi di fucile e le perquisizioni. Sebbene non sia del tutto corretto dipingere un quadro omologato delle condizioni di vita in favela, che sono spesso luoghi dinamici di commerci e intensa creatività, è pur vero che nell’arco di trenta chilometri di circonferenza sussistono da un lato indici di sviluppo economico e umano nordeuropei, dall’altro persone che vivono con meno di un dollaro al giorno; da un lato cliniche svizzere, dall’altro la tubercolosi. Con la crisi dello Stato di Rio poi, che paga il prezzo di una miscela di corruzione, speculazione e fantasia finanziaria dovuta ai mondiali e alle olimpiadi passate, alla mafia del trasporto pubblico e alle ripercussioni dello scandalo della Petrobras, la situazione è in continuo declino.
Ma alla festa di Juliana la birra è tornata. Célio si dice onorato della presenza di un gringo a casa sua, qui tutti gli stranieri sono gringos, anche i cubani. Mi racconta che lavorava alla Petrobras, come tanti è stato dimesso in conseguenza del ciclone che ha investito l’impresa nazionale di petrolio dopo l’operazione anti-corruzione Lava Jato e quel che ne è seguito, con l’impeachment del governo Dilma e l’insediamento del governo Temer. La Petrobras era la miniera da cui fluiva il denaro che alimentava il consenso dall’alto e dal basso al progetto lulista: prebende e commesse per le imprese private “campioni nazionali” e conseguente lavoro per un gran numero di persone. «Ho visto con i miei occhi quel che succedeva», mi confessa. Ma ora Célio si arrangia con quel che capita, quando piove vende ombrelli, se c’è il sole acqua di cocco, «un favelado trova sempre un jeito (un modo per andare avanti, ndr)», afferma fiero. Rispetto a ciò che sta accadendo all’ex-presidente Lula – che nella recente sentenza della corte d’appello di Porto Alegre si è visto aumentare la pena da nove a dodici anni di prigione per i reati di corruzione passiva e riciclaggio di denaro, e di conseguenza, in virtù della cosiddetta Lei de Ficha Limpa (voluta dallo stesso PT), non potrà presentarsi alle elezioni di quest’anno – sembra di ascoltare mio padre quando mi parlava di Craxi, il suo giudizio è chiaro: «Io sto con Lula! Non mi importa di sapere se è colpevole o no… con lui stavamo tutti meglio!». Célio rispecchia un’opinione abbastanza diffusa tra le fasce sociali che durante il governo di Lula hanno visto migliorare la propria condizione con programmi di trasferimento di reddito e apertura al credito, sebbene l’inclusione attraverso i consumi si sia poi rivelata effimera. “Signori, mettetela come vi pare, prima viene lo stomaco e poi la morale”, recitava Brecht. Eppure, al di là dei movimenti sociali organizzati storicamente allineati, una mobilitazione per Lula che non sia di apparato non c’è. Quando il camion della carovana di comizi che ha attraversato l’intero Brasile si è fermato nella Baixada Fluminense, una regione povera a nord di Rio de Janeiro, solo pochi militanti erano presenti.
In effetti, se pensiamo alla violenza della “guerra alla droga” e alla gestione della sicurezza urbana, in tredici anni di governo PT la situazione non è affatto migliorata. Anzi, la Legge sulle Droghe del 2006, durante il primo governo Lula, ha determinato un inasprimento delle pene e un notevole aumento della popolazione carceraria, in maggioranza nera e per buona parte in attesa di processo; si è varata la legge sulle Organizzazioni Criminali e la Legge Antiterrorismo, si è creata la Forza Nazionale di Sicurezza e si è azionato diverse volte il dispositivo della Garanzia di Legge e Ordine (GLO), che permette l’uso della forza militare per la “manutenzione della sicurezza”, come avvenuto durante le proteste del giugno del 2013 e in diverse operazioni nelle favelas di Rio de Janeiro.
La necropolitica segue costante per il popolo nero. Ma nelle quebradas, nelle zone marginalizzate, e nelle occupazioni dello spazio urbano del centro di Rio, un movimento sotterraneo animato da giovani che si aggregano attorno alla poesia slam, pur riconoscendo i benefici di alcune politiche istituzionali, sembra più intento a costruire una cultura autonoma di resistenza piuttosto che appassionarsi ai destini di una sinistra trincerata e asfittica che grida allo stato di eccezione solo in difesa del proprio leader. Con rime affilate, l’odierna negritudine brasiliana accumula potenza, raccontando un intorno di violenza e gerarchizzazione spaziale ma anche l’orgoglio del proprio corpo. Ogni metrica è un pugno in faccia, ogni poesia una lezione di afro-discendenza che parla di razzismo e fierezza, subalternità e dignità meglio di qualunque aula di studi postcoloniali e di tanto inchiostro come questo.
A Jacarezinho si è fatto mattino. Dopo aver pulito la strada, la festa si sposta sul tetto di casa, una piscina gonfiabile e una pompa provvederanno ad alleviare il caldo agli irriducibili che già si apprestano a un altro giro di churrasco. Chi non ha trovato un materassino, un divano o una sedia, riposa felice per terra. Mi aggrego ai saluti di un gruppo che sta andando via e mi dirigo alla stazione ferroviaria. I commercianti della domenica sono già indaffarati su rua Joaquim Silva, alla stazione gli ambulanti si contendono i passeggeri in attesa al binario. I segni dei proiettili sul treno che mi avvicina a casa formano stelle sull’universo di vetro dei finestrini. Il treno costeggia crackolandia, un insieme disordinato di baracche di lamiera e cartone a ridosso dei binari che da rifugio ai tossicodipendenti. Dopo un’oretta sono a casa. L’enclave della zona sud, con edifici sorvegliati da portieri immigrati dal nord-est e appartamenti con stanzini asfissianti per le impiegate domestiche, segue indifferente nella sua terribile bellezza. (giuseppe orlandini)
Questo articolo sarà pubblicato nel prossimo numero della rivista Gli Asini
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