Fotogalleria di Giuseppe Riccardi
Sono le undici e quattordici minuti del 20 febbraio 2020, ed è un momento storico. L’enorme braccio meccanico alla cui estremità è fissata un altrettanto grossa pinza di metallo, si ferma a pochi centimetri di distanza dal ballatoio del quintultimo piano della torre A, la cosiddetta Vela verde del lotto M di Scampia. La folla ai piedi dell’edificio rimane in silenzio con il fiato sospeso. Le persone affacciate ai balconi della struttura di fronte, la Vela azzurra, smettono improvvisamente di vociare. Sembra quasi che ci abbiano ripensato. Poi dopo un paio di minuti arriva il via dal direttore dei lavori e la pinza morde il cemento armato, seguita a ruota dalla sua sorella più piccola, che lavora ai fianchi la struttura all’altezza del terzo piano mentre una pompa collegata al macchinario spruzza acqua nel tentativo di limitare la polvere. La demolizione della quarta vela (tre delle sette totali sono già andate giù tra la metà degli anni Novanta e gli inizi del Duemila) è cominciata.
La giornata è soleggiata, si può fare a meno del giaccone. All’incrocio tra via Labriola e via Gobetti alcune auto della municipale impediscono il passaggio alle altre vetture. Si procede a piedi, si attraversa il vialone costeggiando le vele rossa, gialla e celeste, mentre un gruppo di operai lavora per allestire il palco su cui, in serata, verrà celebrato l’evento con un concerto. Sui ballatoi della Vela celeste ci sono centinaia di persone. Proprio di fronte a loro, pronta per essere abbattuta, c’è la “torre A”, che si differenzia dalle altre vele perché non presenta la celebre struttura “a tenda”, ma è formata da due palazzoni collegati l’un l’altro, come appunto un un’unica torre. Nello spazio tra le due vele sono tantissime le persone assiepate: c’è chi abita in una vela o chi ci ha abitato; c’è chi a Scampia ci vive o ci lavora; ci sono i ragazzi delle scuole. Davanti a loro, sotto la Vela verde, separata dal resto della folla da una transenna, c’è la zona istituzionale, dove si aggirano decine di giornalisti e dove i membri del Comitato Vele e i politici vengono intervistati e fotografati.
«Vieni tra la gente, oggi inizia la campagna elettorale!», urla un contestatore all’indirizzo di qualcuno dall’altra parte delle transenne. «Io non faccio campagna elettorale e non voto nemmeno, tu dillo che vuoi la Lega a Napoli!», risponde quell’altro. Il primo è Angelo Ferrillo, qualche anno fa agli onori delle cronache per un sito web che denunciava i roghi tossici in Campania. Il secondo è Raniero Madonna, del centro sociale Insurgencia, vicino al partito del sindaco. Il battibecco non disturba la solennità del momento: un altro pezzo di quel “complesso di carceri speciali” (come lo definisce l’instancabile militante e leader del Comitato Vele, Vittorio Passeggio) sta per venire giù, dopo aver segnato la vita di migliaia di napoletani e l’immaginario di un’intera città.
La notizia girava da giorni ma è diventata ufficiale poco prima dell’abbattimento: «Vittorio Passeggio non ci sarà». Proprio lui, che come ama ripetere, la lotta l’ha fatta due volte: «La prima per rimanerci, nelle vele, quando le occupammo e chiedemmo al sindaco Valenzi di riconoscere l’occupazione; e la seconda per andarcene e farci dare un alloggio dignitoso, quando fu chiaro che qui non ci poteva vivere nessuno». Se n’è stato per i fatti suoi, Vittorio. «Vado a lavorare», ha confidato agli amici più stretti, come se fosse un giorno qualsiasi, anche se quella di ieri era una giornata storica.
Le altre vele in realtà non sono affatto pronte per essere demolite, anzi sono ancora piene. Una volta che la verde sarà abbattuta, tra Vela rossa, gialla e celeste abiteranno ancora più di trecentocinquanta famiglie. Nell’inferno di cunicoli bui, dove il sole non entra a causa del reticolo di scale e ballatoi, dove l’acqua scorre implacabile anche se non piove da giorni, dove le case sono poco più che grotte piene di muffa e amianto, dove capita di stare senza luce giorni interi perché topi giganti si infilano nei quadri elettrici e divorano i fili di rame, in questi luoghi oggi più di trecento famiglie “scelgono” di vivere (e oggi, meno che mai, si tratta di delinquenti e camorristi). Sono piuttosto gli ultimi: invisibili, rom, migranti senza documenti, ex detenuti per i quali un reinserimento nella società è un miraggio, sofferenti psichici, tossicodipendenti, disabili costretti a scegliere tra il pagarsi l’affitto o l’assistenza, nuclei familiari ex-monoreddito devastati dalla crisi e della disoccupazione, gente che lavora ma non riesce a tirare avanti. C’è chi nelle vele ci vive da anni e chi ha occupato di recente, più che per la speranza di avere la casa (chi ha occupato dopo il 2016 è considerato non avente diritto) per mancanza di alternative.
Più che l’icona di Gomorra, se si prova a cambiare punto di vista, le vele rappresentano in pieno il fallimento delle politiche per la casa del comune di Napoli. Un fallimento per le persone che ci abitano oggi e non ottengono, né otterranno, nessun aiuto dalle istituzioni; per quelli che ci hanno abitato e hanno dovuto attendere decenni per avere una casa degna di essere chiamata tale; per Ivan Grimaldi, ventenne tetraplegico abitante della Vela gialla, morto aspettando la casa che il comune gli aveva promesso; perché dal 1995 il comune della terza città di Italia non è in grado di formulare una graduatoria per gli aventi diritto a un alloggio popolare, a cui non resta che occupare una delle migliaia di case sfitte (con tutto quello che ne consegue oggi da un punto di vista penale) e sperare in una futura sanatoria; perché lo stesso bando per l’assegnazione delle ultime quaranta case destinate agli abitanti delle vele è stato molto discusso, e se gli attacchi di alcuni consiglieri comunali si fondano sulla presunta illegittimità di qualsiasi assegnazione agli occupanti abusivi, ci sono anche militanti del quartiere e sindacati per la casa che fanno notare come tra quegli assegnatari ci sia «anche chi nelle vele non ci ha abitato un solo giorno della sua vita».
A dispetto di ciò, come spesso accade, le giornate storiche sono giornate di passerella. De Magistris è protagonista assoluto, si prende la scena come Bassolino ventitré anni fa, facendo su e giù con in testa un caschetto bianco da operaio, concedendo qualcosa solo ai suoi assessori e ringraziando (come aveva fatto già a Bagnoli un mese fa) Gentiloni ma non Renzi. In tutte le foto di rito posano, incitando gli altri ad alzare il pugno, l’assessore De Majo, i dirigenti di Dema Giordano e Andreozzi, consigliere comunale quest’ultimo che ha seguito la vertenza passo dopo passo. Il sindaco è raggiante, sprizza entusiasmo in ogni dichiarazione. Dice genericamente che sono arrivate tutte le risorse necessarie per abbattere le vele e dare una nuova casa a tutti. Ma le cose non stanno così: disponibili, attualmente, ci sono solo i ventisette milioni provenienti dal Bando Periferie e dal Pon Metro e i trenta del Patto per Napoli. Mancano all’appello almeno cinquanta milioni, necessari per la costruzione dei nuovi alloggi, per i quali ci sarebbe una intesa col governo ma nessun accordo scritto. Per quanto concerne i tempi non ci sono cronoprogrammi: il sindaco dice che ci saranno degli sviluppi, ma si è vincolati all’approvazione dei progetti. Resta da chiarire dove andranno tutti gli abitanti delle vele rossa e gialla quando arriverà il tempo delle altre demolizioni, dal momento che la celeste (quella da riqualificare) è già quasi piena.
Eppure, sebbene tutta la politica nazionale, compresi Renzi, Raggi e Carfagna, salutino con entusiasmo l’abbattimento della torre A, sono stati proprio i loro governi a imporre una serie di provvedimenti ad hoc contro le occupazioni di case o strutture pubbliche abbandonate, pratica di riappropriazione senza la quale oggi la gente delle vele non avrebbe mai potuto nemmeno sperare di avere un alloggio, considerando l’assenza totale di politiche pubbliche per la casa a Napoli. Eppure, il sindaco che oggi si appunta questa storica medaglia, aveva fatto incetta di voti e costruito consensi già nel lontano 2011, promettendo l’abbattimento delle vele in pochi anni, abbattimento che arriva a quasi un decennio dalla sua elezione. Tutti questi personaggi oggi, come se stessero parlando di un nobile padre della patria, ringraziano Vittorio Passeggio chiamandolo “il comandante”. Ne parlano noncuranti del fatto che la sua è stata una vita di lotta contro nemici che avevano sempre un nome e cognome, lotta che ha finito per compromettergli la salute, così come la sua testarda e incorruttibile radicalità ha finito per isolarlo politicamente.
Sulla facciata della Vela verde oggi scendeva uno striscione: “Scampia vuole tutto!”. Quello striscione riprende lo slogan che Passeggio ha portato per decenni in giro per la città, scritto su un cartellone con un pennello rosso. Ed era proprio quello che “l’uomo col megafono” intendeva per lotte: case non solo per gli assegnatari, ma anche per gli occupanti, battaglie contro la discarica e la scellerata gestione Romeo degli alloggi popolari, contro la chiusura dell’Auditorium e per la dignità dei rom che abitano da trent’anni nel quartiere, per la manutenzione delle palazzine assegnate agli ex abitanti delle vele da pochi anni, e che già cadono a pezzi, e condizioni di vita migliori per il popolo di Scampia. Un disastro con dei responsabili precisi, lungo quarant’anni, che non sarà una ruspa a portare via. (riccardo rosa)
Leave a Reply