Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana è un volume collettivo curato da Luca Rossomando e pubblicato dalle edizioni Monitor nell’aprile 2016. Il libro è scritto da sessantotto autori e conta ottantasei interventi tra articoli, saggi, grafici e tabelle. All’interno di ogni sezione ci sono anche interviste e storie di vita. Abbiamo deciso di pubblicarne una parte durante questo mese d’agosto.
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Quattro uomini, quattro figli
«Mi chiamo Lami, sono nigeriana, mo tengo quarantatré anni, però sono cresciuta qua in Italia, tenevo sedici anni quando sono arrivata. In Nigeria ero sposata, avevo un marito e un bambino, adesso mio figlio tiene ventitré anni.
«Mi hanno detto che mi avrebbero portata in Italia perché qua era meglio e dopo pochi mesi sarei diventata ricca. Però non mi hanno detto la verità. Come sono arrivata, la storia è cambiata. Quello che mi ha portata dall’Africa, mi ha venduta a dei magnaccia, una donna africana e suo fratello, per cinquanta milioni di lire. A quel tempo io non sapevo che cos’era un magnaccia, quanti soldi erano cinquanta milioni, cos’era fare la puttana. A quel tempo io non capivo niente.
«Per costringermi a lavorare i magnaccia mi hanno tagliato un po’ di capelli, le unghie delle mani e dei piedi, i peli della mia private part, e mi hanno fatto una magia vudù. Il fratello mi portava in strada la mattina, alle cinque, si prendeva diecimila lire, andata e ritorno ventimila, come un taxi. Poi dovevo pagare il posto dove mi fermavo a lavorare, al tempo della lira quattrocentomila ogni mese; per forza, lavoravi o non lavoravi. Con me c’era un’altra ragazza, che faceva da guardia e mi obbligava a fare quel lavoro. Se io non lavoravo loro mi picchiavano, e quando mi picchiavano mi facevano male.
«Poi, poiché non ho visto il mio sangue, ho chiamato la madame. Ho chiesto di aiutarmi, di dirmi cosa fare. Mi ha detto: “Va bene, dammi quindicimila lire, ti prendo le medicine”. Le ho dato i soldi, ma non ha fatto niente.
«Un mese, due mesi, tre mesi, la gravidanza andava avanti. Un giorno sono andata in strada e non ho lavorato. La sera, quando è venuto il fratello, mi ha chiesto: “Quanto hai lavorato?”. “Io non lavoro più”. Lui mi ha picchiata e mi ha detto che dovevo farlo per forza perché avevano pagato quella persona che mi aveva portato dall’Africa e io adesso dovevo pagare loro.
«La gravidanza è arrivata al sesto mese. Da quel momento hanno cominciato a darmi le medicine per abortire. All’inizio ho detto di no, che non potevo prenderle perché era pericoloso. Allora mi hanno forzata, mi hanno dato in mano le medicine e mi hanno costretta a prenderle davanti a loro. Lei mi tirava i capelli e lui mi dava gli schiaffi. Qualche giorno dopo mi hanno portato all’ospedale. Mi hanno fatto l’ecografia, hanno visto che erano due gemelli. I medici hanno detto che se non intervenivano subito potevo morire. Loro però non erano d’accordo e mi hanno portata subito via. Hanno continuato a darmi le medicine, così da togliere tutti e due i bambini.
«Al settimo mese mi hanno portato a Roma dall’uomo che mi aveva venduta. Gli hanno detto che non mi volevano più e gli hanno chiesto i soldi indietro. Quello ha detto che quando loro sono venuti a prendermi, io stavo bene e che loro dovevano togliere quei bambini da dentro la mia pancia. Ma loro non volevano, così mi hanno lasciata là e se ne sono andati. Poi quello di Roma ha detto: “Lami, prendi la tua roba, vai via, dove vuoi tu, vai”. Mi ha aperto la porta e mi ha cacciato fuori.
«Per strada ho chiesto alla gente come tornare a Napoli. E la gente mi ha aiutata a prendere il biglietto del treno. La mattina dopo ho incontrato una donna, si chiama V., mi ha detto: “Che è successo?”. E davanti a lei ho cacciato l’acqua verde. Quel giorno lei non è andata al lavoro, mi ha accompagnata a casa sua, mi ha fatto il latte, mi ha fatto da mangiare. Le ho raccontato tutto. “Io non conosco nessuno, non so dove andare”. “Va bene, resta a casa mia”.
«Una notte non riuscivo più a respirare, era come se stavo morendo. Ho cacciato l’acqua così come una fontana. Lei ha chiamato l’ambulanza, mi hanno portato in ospedale a Napoli. Mi hanno fatto l’ecografia e hanno visto che uno era già morto. Dopo tre giorni l’hanno fatto uscire. Poi dopo due settimane anche l’altro è uscito, a otto mesi.
«Appena sono tornata a casa, il magnaccia è andato dalla donna che mi stava aiutando a dire che doveva farmi lavorare in strada, perché avevo un sacco di soldi da pagare. Io avevo dato cinque milioni, quel poco che avevo guadagnato, mancavano quarantacinque milioni. Quella donna ha detto di no, che quei soldi io non li avrei pagati. Allora c’è stata una grande guerra tra di loro. Poi lei mi ha cacciato di casa perché non ce la faceva più. Io ho preso la mia roba e me ne sono andata.
«Quando quella donna mi ha cacciato di casa ho conosciuto il padre di Benedetta, la mia seconda figlia. Io stavo piangendo in mezzo alla strada ed è venuto quest’uomo. Gli ho raccontato tutta la storia, lui mi ha detto che aveva una stanza e mi aiutava. Poi ha visto che non ero come le altre donne e si è innamorato di me, voleva sposarmi. E sono rimasta incinta. Ma quando quei magnaccia hanno saputo che stavo con un uomo, hanno fatto un’altra magia e l’hanno cacciato via. E fino adesso non l’ho visto più.
«Poi ho conosciuto il papà di Gioia, l’altra mia figlia. Lui è nigeriano, è venuto come un brav’uomo. Sono rimasta incinta, ma al secondo mese di gravidanza mi ha detto che dovevo abortire. Ha portato qui tanti suoi amici e davanti a loro ha detto che non voleva la bambina e che io volevo sposarlo per forza. Un giorno ha chiuso tutta la casa e ha aperto la bombola. Io stavo dentro e gridavo: “Aiuto! Aiuto!”. Fortunatamente sono venute delle persone, hanno rotto la porta e sono riuscita a scappare. Poi ho deciso e gli ho detto: “Va bene, andiamo ad abortire”. Il giorno che doveva venire a prendermi per andare a Napoli lo hanno arrestato per traffico di droga.
«Dopo cinque mesi mi ha scritto e sono andata a trovarlo in carcere. Lui appena mi ha vista ha detto: “Non hai abortito? Questa bambina è una bastarda, non è mia”. Sono andata da lui tre o quattro volte. L’ultima mi hanno chiamata dicendo che lui non stava bene, che stava all’ospedale del carcere. Ho partorito la sua bambina e poi sono andata: “Guarda la bambina, è bella, è bella!”. “Questa è una bastarda”. “Te l’ho portata solo per fartela vedere”, ho detto e sono andata via.
«Quando è uscito dal carcere, a volte gli portavo Gioia e gli chiedevo un aiuto per comprare i libri di scuola, lo zainetto, il grembiule. Ma ogni volta che Gioia si avvicinava al padre, lui la cacciava, gli comprava solo i panini. “Gioia, i panini posso comprarteli io. Lui dovrebbe aiutarti a comprare i libri di scuola e a pagare il pulmino”. Ma non ha mai voluto farlo.
«Poi ho conosciuto il padre di Moustafa. Quattro figli, quattro uomini… Andavo a Caserta, perché là ci sono molti neri, a vendere meat pie, steak meat, sujia, e lì ho conosciuto J. Lui è venuto come un brav’uomo, calmo, tranquillo. Quando ho conosciuto il padre di Moustafa, dovevo andare in Nigeria ma non avevo i documenti. Mia sorella mi aveva detto che mio padre stava morendo e che voleva vedermi. Il padre di Moustafa allora ha detto che poteva aiutarmi. Lui si è innamorato subito, io all’inizio non ero innamorata, poi improvvisamente, non so che cosa ha fatto, mi sono innamorata di lui. Ogni tanto andavo a trovarlo a Caserta. Lui lavora alla Caritas, lì c’era un sacco di roba, scarpe e vestiti che portava la gente e all’inizio me li faceva prendere. Poi, scusa per questo che dico, lui è venuto a letto con me e tutto è finito.
«Un giorno una mia amica mi ha visto piangere. “Cos’è successo?”. “Mio padre sta morendo, devo andare in Africa, ma non ho i documenti. Prima di venire a letto con me J. mi aveva promesso di aiutarmi, ma ora non ci pensa più”. “Va bene, ho il documento, ti aiuto io”. Tre giorni prima di partire ho scoperto che ero incinta di tre mesi. Sono andata da J. “Sono incinta”. “Cosa?”. “Sono incinta”. Lui mi ha preso alla gola… Poi sono partita per l’Africa. Lì ho incontrato mio padre. Io non lo conoscevo, non l’avevo mai visto prima. Da piccola ero cresciuta con la nonna. L’ho abbracciato, lui mi ha abbracciato, ho pianto, tutti abbiamo pianto… Benedetta e Gioia erano qua con la mia amica. E sai cosa è successo? A quel tempo Benedetta aveva undici anni. La mia amica ha preso Benedetta e l’ha data a degli uomini per andare a letto. Undici anni!
«Io ero in Africa, J. stava qua, ma non mi ha aiutato. Ho dovuto chiamare un amico italiano. “Per favore, puoi andare a Castel Volturno a prendere Benedetta e la sorella? Loro devono stare con te fino a quando io non torno dall’Africa”. Ha preso la macchina e con la sua fidanzata è andato a prendere Benedetta e Gioia e le ha portate a casa sua.
«Io sono andata subito a cambiare il mio ticket. Sono partita dal Ghana e ho fatto tappa in Libia. Lì mi hanno fermato, hanno detto che il documento non era mio e mi hanno riportata indietro. Ho chiamato J. “Guarda, sono in Ghana, non so dove andare, non conosco nessuno, tu hai la famiglia qua, aiutami”. Ha chiamato suo fratello e lui è venuto, mi ha presa e mi ha portata dalla sua famiglia. Dopo quattro mesi ero ancora lì perché l’ambasciata non mi aveva rilasciato il documento. Al settimo mese non sapevo più cosa fare, sentivo un dolore forte, mi mancava l’aria. Poi uno della famiglia di J. mi ha detto che dovevo lasciare tutta la mia roba e scappare via, perché poteva accadermi qualcosa di grave. Io gli ho chiesto: “Cosa?”. Lui non mi ha risposto.
«Sono tornata all’ambasciata italiana. “Guardate, sono incinta, da settimane non riesco più a respirare, per favore fatemi tornare in Italia, anche i miei figli sono in grave pericolo”. Come ho detto così mi hanno dato il documento. Come sono tornata, sono corsa in ospedale, mi hanno ricoverato per due settimane, poi mi hanno lasciato andare a casa. Sono andata a vedere le mie figlie, la grande piangeva. “So tutto, non devi raccontare niente”, ho detto.
«J. mi aveva abbandonato, non pensava più a questa gravidanza. Se non era per B. come facevo? Un giorno ho cominciato a sentire un dolore forte, B. era a lavoro, l’ho chiamato, lui ha chiamato l’ambulanza. Quando ho partorito non mi hanno fatto vedere subito il bambino. Poi ho insistito. Dopo mezzora sono venuti, ho messo i vestiti e sono andata a vederlo. Lui era piccolino, non era come i bambini di nove mesi, aveva la pancia gonfia. Dopo quattro giorni l’hanno trasferito all’ospedale Santobono. Mi hanno detto che lo stavano curando, ma se le cose non miglioravano dovevano operarlo. L’hanno operato dopo dodici giorni, hanno tolto quasi tutto l’intestino e gli hanno messo un sacchetto per fare la cacca dalla pancia.
«Il problema di Moustafa è il padre. J. è venuto e ha detto che questo qua, Moustafa, non è un bambino. Sono io che l’ho voluto, io che ho fatto tutto e quindi io che devo crescerlo da sola. E così sta crescendo, Dio mi dà una mano». (salvatore porcaro)
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