Ogni 30 ottobre, ormai da tre anni, si riaccendono i riflettori sul centro Italia, ricordando quella che viene definita dalle cronache come “la più forte” tra le scosse della lunga sequenza sismica che ha sconvolto l’Appennino centrale tra l’agosto del 2016 e il gennaio dell’anno successivo. E anche quella che ha allargato alle quattro regioni centrali l’area del “cratere”, producendo il maggior numero di danni e di sfollati, in particolare sul versante marchigiano. Siamo in provincia di Macerata, nella cittadina di Tolentino, il più esteso tra i comuni maggiormente colpiti, quello con le caratteristiche più diffusamente “urbane” (fatta eccezione per Camerino, in cui le strutture container hanno sostituito le residenze per i borsisti del polo universitario). L’unico luogo del cosiddetto cratere in cui non sono ancora stati smantellati i Mac (Moduli abitativi collettivi), strutture container definite “di transizione”, installate come extrema ratio dalla Protezione civile tra gennaio e febbraio del 2017 (per approfondimenti vedi E. di Treviri, Sul fronte del sisma).
«Andiamo a vedere i cavalli?», mi chiede A. strattonandomi il braccio. È aprile inoltrato, fuori piove e stiamo proiettando un film dentro al tendone antistante alla struttura container. Un tendone donato dall’Agesci nazionale nel 2017, di proprietà del gruppo scout di Tolentino, deputato alla prosecuzione delle attività associative in attesa della messa in sicurezza della propria sede, reso inaccessibile agli abitanti della struttura container per circa due anni. Vari sono stati nel corso del tempo i tentativi di riappropriazione dei bambini che abitano la struttura, etichettati dagli operatori di Protezione civile come “incontenibili” e senza regole. C’è voluta la tenacia di M., una donna dallo sguardo di ghiaccio, perché venisse riaperto.
A. esce dalla porta del tendone di corsa, si ferma in mezzo al parcheggio e sollecita ogni bambino che incontra a entrare e assistere alla proiezione. «Andate, andate nel tendone! Oggi è il giorno del film. Io però vado a vedere i cavalli!». C’è una piccola rimessa oltre quel parcheggio. A. si allontana, voltandosi indietro di tanto in tanto per vedere se la sto ancora seguendo. Quando si accorge che sono dietro di lei, ricomincia a correre e scoppia a ridere come una pazza. Sa bene di infrangere una regola. Sa bene di varcare un confine, quello che distingue lo spazio “concesso” da quello ancora da scoprire.
Nei container ci sono troppe regole. Nei container non ci sono abbastanza regole. Ogni abitante ha la sua teoria. A. mi ha insegnato silenziosamente come si fa a non prenderne in considerazione nemmeno una, ad avvertire il peso e l’importanza delle assenze.
LONTANO DAL CENTRO
La sera, i pasti sono distribuiti dalle 19:30 alle 21; i buoni vanno ritirati la mattina; gli spazi comuni vanno lasciati liberi entro le 23; non è consentito cucinare nelle stanze, ascoltare la musica ad alto volume e soprattutto non è consentito far entrare estranei senza autorizzazione all’interno della struttura. Gli “incontenibili bambini dei container” giocano ogni pomeriggio sul cemento del parcheggio che circonda l’area. All’interno non ci sono spazi adeguati. Una piccola ludoteca apre le porte agli abitanti più giovani col supporto volontario di un’associazione locale, tre giorni a settimana, per sole due ore. Così, soprattutto nei mesi invernali, i giochi invadono gli spazi comuni e i corridoi delle tre aree.
Area 1, area 2, area 3. Lo spazio del campo container è scandito in tre blocchi, tre aree che determinano la localizzazione a termine delle vite che vi sono contenute. L’intero complesso è in grado di ospitare circa quattrocento persone. «Qual è la tua stanza preferita?», chiedo a R. «La B14 dell’area 1 perché nella B14 c’è mia cugina». Le stanze possono ospitare da tre a sei persone; molto spesso, per guadagnare spazio, i letti vengono attaccati insieme. L’atto di nominare lo spazio, è una continua successione di lettere e numeri. La camera è l’unico spazio privato. Un privato interamente condiviso con i componenti della famiglia o in taluni casi con altri assegnatari: tutto il resto è pubblico, anche gli spazi deputati all’igiene personale. In ogni stanza c’è un tavolino, un armadio e un piccolo comodino. Nella zona antistante la struttura c’è un campetto di erba sintetica con uno scivolo e qualche dondolo, circondato da un’alta recinzione. Un’area che è stata ultimata alla fine dell’estate 2018, finanziata da donazioni private tra cui il Rotary Club della cittadina, e rimasta chiusa per tutta l’estate, al fine di essere inaugurata in pompa magna solo il 21 dicembre dello stesso anno. Sembrava quasi uno scherzo. Ma bisognava aspettare le istituzioni, i giornalisti, i flash delle macchine fotografiche prima di renderlo formalmente accessibile. A. mi racconta che nel corso dell’estate aveva tentato di oltrepassare la rete del campetto insieme a un’amica. Si sono arrampicate cercando di varcare la recinzione: «È arrivata la polizia – dice –, mi ha strattonata. Allora ho fatto finta di piangere, ma mica piangevo sul serio. Poi è arrivata un’altra signora che ha iniziato a urlare e ci ha detto che dovevamo andarcene». A. s’allontana e io cerco di convincerla che i cavalli oggi non ci sono, che non li ho visti arrivando in macchina, che spesso ci faccio caso passando, proprio come lei. Ma lei ribatte ferma: «Invece sì, li ho visti oggi, passando col pulmino».
Tutti gli abitanti più giovani dell’area tornano ogni giorno alle sei di sera da scuola: il trasporto pubblico lì passa ogni due ore. Molte famiglie spesso fanno a turno per gestire gli spostamenti dei figli. Gli anziani soli che abitano quelle stanze grigie, ormai non si ricordano neanche più dove «stavano de casa prima». L’unica forma di sostegno è offerta da un operatore socio-sanitario che gestisce le necessità di quelli con maggiori difficoltà psico-motorie. Il cemento si infuoca d’estate e s’allaga d’inverno. I tendoni delle roulotte antistanti, degli sfollati che non hanno diritto ad accedere al campo, si spaccano e s’allagano ogni volta che si alza il vento forte. Il centro è lontano da qui. Siamo in un comprensorio urbanistico destinato allo sviluppo industriale. Quasi quattro km dividono la cittadina maceratese dall’area in cui il Mac è stato allocato nel gennaio 2017 mediante occupazione d’urgenza dalla Protezione civile. Occupata da numerosi marchi del settore manifatturiero locale, la zona si presenta come un agglomerato di industrie, outlet e centri commerciali, tra cui si stagliano i complessi delle aziende più grandi. Tutto intorno grandi capannoni industriali, alti silos per lo stoccaggio di cereali, un ricovero per cani abbandonati, un centro per il riuso, e nel mezzo un enorme edificio sulla sommità del quale sventolano diverse bandiere: un grande outlet di partite difettose, di proprietà di un noto imprenditore del territorio. È forse quest’ultimo a caratterizzare più incisivamente l’area. Un’enorme insegna gialla si accende ogni sera, stagliandosi di fronte all’ingresso dell’area 1: FALLIMENTI. Una scritta che incombe sul destino di chi sembra essere stato assegnato all’ultimo strato di questa emergenza.
UN TUMORE ALLO STOMACO
A. ha quattro anni e mezzo e da tre vive nel cosiddetto Villaggio di via Colombo. «Lo sai che io ho una casa grandissima? La mia stanza è molto più grande delle altre! E ci abitiamo in tre: io, mia madre e le mie due sorelle. Mio papà invece è morto». Il papà di A. ha passato le sue ultime ore nel campo, nella sua stanza, insieme alle tre bambine e alla moglie. Nessuno, tranne le operatrici di Emergency che prestano servizi di prima assistenza due volte a settimana, si era curato di informare la famiglia della possibilità di trasferire l’uomo in un hospice della provincia.
«Pure lui stava qui dall’inizio. Eh, sta vicino de camerata con me. C’aveva quarantaquattro anni. Le ragazzette, me fa pena… Domani andranno via, adesso me sa che lo portano là. C’aveva un tumore su lo stomaco, non era rimasto niente. Non mangiava in mensa, c’era il fratello che gli andava a compra’ da magna’ e ogni giorno glielo veniva a porta’. Ma che ce voi fa, qua vene jo li servizi sociali, se fa un giro, mica te dice: “Come state messi? Come va?” Niente. Ha detto: “Che ve manca? Tanto magnete, dormete…», mi racconta E. Dal 2017, altre due persone hanno passato le ultime ore di vita nel Mac. Un muratore macedone di quarantotto anni, morto nel gennaio 2018, pochi giorni dopo la dimissione dall’ospedale a causa di un incidente sul lavoro, e nel marzo 2019 un ottantunenne di origine argentina, inviato al campo dai servizi sociali in gravissime condizioni di salute.
Nell’area container di via Colombo l’ottantacinque per cento della popolazione non ha la cittadinanza italiana, la restante percentuale si compone di anziani soli, sofferenti psichici, famiglie povere. Gli sfollati, cacciati dal centro storico, non avendo avuto la possibilità o i mezzi per accedere ad altre forme di sostegno previste dalla macchina emergenziale, aspettano la casa popolare, spesso senza sapere che non ne avranno diritto. Attendono le case che il sindaco, Giuseppe Pezzanesi, e la sua giunta (una lista civica che annovera tra sue fila numerosi affiliati ai circoli regionali della destra locale, dalla Lega a Fratelli d’Italia), da due anni definiscono in “dirittura di realizzazione”. Nel 2017 la giunta regionale marchigiana ha stanziato sei milioni di euro a favore del comune di Tolentino per l’acquisto dello scheletro di un edificio commerciale, abbandonato dagli anni Ottanta. I fondi dovrebbero consentire la realizzazione di cinquantasette appartamenti per altrettante famiglie sfollate, in sostituzione delle Strutture abitative di emergenza, le cosiddette “casette” (che il comune ha scelto di non edificare nell’ottica del “contenimento del consumo di suolo”). Per procedere alla installazione di un cantiere pressoché fermo, si è resa necessaria l’applicazione di una variante parziale al piano regolatore (mediante la delibera n. 314 dell’1 agosto 2017).
In numerosi interventi pubblici l’assessore alle politiche sociali, Francesco Pio Colosi, di Fratelli d’Italia, ha dichiarato che le persone che abitano nei container hanno «scelto liberamente di vivere lì, se vogliono possono andarsene in qualunque momento», manifestando la lungimiranza strategica di concentrare un incubatore di precarietà nel mezzo di un’area commerciale. Dopo tre anni dalla prima emergenza, l’area container di Tolentino diviene quasi un presidio simbolico, atto a mantenere viva la capacità di contrattazione dell’amministrazione con i livelli più alti di gestione. E scaricando, in tutta legittimità e con il beneplacito dell’Autorità anti-corruzione e della giunta regionale, i costi sociali delle fasce più precarie e meno produttive, sul capitolo di spesa dedicato all’emergenza sisma.
Mentre oggi, a tre anni dalla scossa che ha devastato l’Appennino centrale, in tutta la regione si celebrano i risultati di una riconfigurazione territoriale che procede attraverso la confisca e la messa a valore delle rovine, in una fase di complessiva ridefinizione del rapporto tra le aree interne e la costa, nel Villaggio container di via Colombo l’“eccedenza” di questa riconfigurazione diviene il motore di un’economia che si alimenta dei corpi delle vittime della catastrofe, normalizzando e razzializzando la precarietà. (marta menghi)
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