La locandina per il trentennale, festeggiato il 22 e 23 novembre scorso a Roma, riporta i versi della Smisurata preghiera di De Andrè e assume il valore dell’impegno: continua in direzione ostinata e contraria il cammino dell’Unasam, la federazione nazionale a cui aderiscono associazioni di utenti e familiari impegnate, in tutto il paese, sul tema della salute mentale.
Formalizzata nel 1993 per volontà delle associazioni del Coordinamento nazionale delle associazioni dei familiari costituitosi nel 1986, l’Unasam, rivendicando la piena attuazione dei principi ispiratori della legge 180 del 1978, persegue la tutela e la promozione dei diritti delle persone che vivono la sofferenza psichica e delle loro famiglie. Come emerso dalle decine di interventi e testimonianze che si sono susseguiti nell’intensa assemblea del trentennale (dedicato a Ernesto Muggia, primo presidente dell’Unasam, Franco Rotelli, Franca Ongaro Basaglia e Assunta Signorelli; i video di tutti gli interventi sono visionabili sulla pagina social dell’Unasam a questi link: 22 novembre, 23 novembre), oggi, questi stessi diritti – alla dignità della persona, alla cura, alla vita indipendente, al lavoro, all’abitare, alla strutturazione di una rete di servizi competenti e capaci di accogliere la sofferenza – sono messi in discussione da politiche, pratiche e teorie che ripropongono interventi afflittivi come la contenzione – fisica, chimica e ambientale –, costruiscono nuovi spazi di internamento nei reparti ospedalieri e, soprattutto, nelle residenze del privato imprenditoriale; depauperano la psichiatria territoriale di risorse e personale, definiscono la malattia mentale a partire da presupposti di natura esclusivamente biologica, rinnovano visioni incentrate sulla custodia del sofferente psichico identificato come soggettività anomala e pericolosa. Tuttavia, pure a fronte di dati di realtà sconfortanti, «sono comunque emerse con forza le proposte per sfondare quella porta che si vuole tenere chiusa», ha concluso la presidente dell’Unasam Gisella Trincas, preannunciando la stesura di un documento che dovrà essere condiviso da tutte le organizzazioni partecipanti per diventare piattaforma programmatica da affidare al Coordinamento nazionale salute mentale.
Tra gli interventi ascoltati al convegno, riportiamo di seguito ampi stralci della testimonianza di Elio Pitzalis che, a partire dalle storture del sistema di assistenza, patite in prima persona, indica, con grande efficacia e chiarezza, alcuni degli interventi prioritari da poter realizzare.
LA DEDICA
«Ciao a tutte e a tutti, sono Elio, ho ventuno anni, faccio parte dell’associazione Asarp e ho un disturbo borderline di personalità e un disturbo bipolare. Sono una delle otto persone che è stata portata via dalla comunità creata dall’associazione (la comunità Franca Ongaro Basaglia di Cagliari costretta a chiudere a fronte delle infauste scelte politiche assunte dalla Regione e dall’Azienda sanitaria, ndr) […], dedico il mio intervento ad Alexander, un ragazzo che ho conosciuto durante il mio primo ricovero e che si è suicidato nel maggio scorso, anche a causa del cattivo lavoro dei servizi. Un ragazzo di ventitré anni che potevo tranquillamente essere io, poteva essere vostro nipote, vostro fratello, un vostro amico.
CSM e SPDC
«Il mio intervento verte su cosa si aspettano gli utenti dai servizi. [Innanzitutto] il Centro Salute Mentale aperto sulle ventiquattro ore, anche durante le festività. In Friuli ci siamo riusciti, perché non farlo in tutte le regioni? Mi sembra assurdo che […] il CSM sia chiuso durante le festività, periodo in cui solitamente aumentano gli accessi in pronto soccorso psichiatrici perché le persone si sentono sole, o si sentono come se i genitori, i parenti non le capissero. Idem per i weekend, nei quali tante persone non hanno molto da fare, come succedeva a me, e la noia portava pensieri non molto felici. Io ero una di quelle persone che tutti i weekend andava all’ospedale, si faceva cinque ore di fila per poi parlare dieci minuti col dottore del reparto SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura). Mi veniva fatta una puntura di una benzodiazepina o di un antipsicotico, tornavo e dormivo tutto il giorno. Loro pensano di risolvere i problemi così.
«Sarebbe poi necessario prevedere delle attività in SPDC, compreso anche un supporto psicologico che in realtà non c’è, perché possiamo parlare solo con psichiatri […]. Mi è capitato di fare un ricovero più lungo, trenta giorni in SPDC a non fare niente, perché eravamo solamente parcheggiati, ho passato trenta giorni a colorare mandala, a giocare a “Uno” con gli operatori socio-sanitari, a piangere; nessuna attività, niente di niente, quando si poteva benissimo fare arteterapia, fare pet-therapy, fare dei gruppi, guardare un film tutti insieme, fare una cosa qualunque, ma non c’era niente.
«Ancora, si dovrebbe potenziare la neuropsichiatria: durante il mio primo ricovero, a un certo punto, è arrivato un ragazzino di quindici anni. Un ragazzino di quindici anni in un reparto di psichiatria per adulti, messo in camera con persone anziane, persone con attacchi psicotici, persone legate che urlavano dalla loro camera, e questo ragazzino messo lì… già è abbastanza traumatizzante essere in un reparto di psichiatria per le persone maggiorenni, immaginiamoci per un ragazzino… è terribile.
L’ESPERIENZA DI CONTENZIONE
«Nei reparti di psichiatria dovrebbe esserci del personale adeguatamente formato. […] Mi sono successe cose assurde: mi avevano dato molti farmaci, avevo una salivazione eccessiva, quindi non riuscivo a esprimermi correttamente, andavo a parlare con gli infermieri e non mi capivano, ma invece di aiutarmi mi facevano il verso, oppure mi dicevano: “Non fare quella faccia, è colpa tua se sei qui”. Poi, l’infermiere a cui avevo detto che, sempre a causa di tutti i farmaci assunti, sentivo di svenire, ha deciso di legarmi a letto per questo motivo, e, vi giuro, essere contenuti è davvero un’esperienza orribile, anche perché poi ho passato tutta la notte a urlare, ma non è mai arrivato nessuno. Me lo ricordo davvero come uno dei giorni più brutti della mia vita. È assurdo… Un’altra volta, un’operatrice in SPDC, mentre stava distribuendo il cibo, si volta verso una ragazza e dice: “Beh, tu non ne avresti bisogno perché sei un po’ troppo grassa”. Sono rimasto scioccato: come ti permetti di dire una cosa del genere? Ancora di più in un reparto di psichiatria dove una persona potrebbe avere un disturbo alimentare… Quindi sì, servirebbe del personale un po’ più formato.
IL LAVORO E LA LOTTA ALLO STIGMA
«Servono aiuti da parte dei servizi a inserirsi nel mondo del lavoro tramite tirocini creati per persone con fragilità. Perché è abbastanza difficile per una persona con un disturbo mentale essere autonomo e mantenere un lavoro, quindi servirebbero degli aiuti per poter fare ore in meno, per poter avere un lavoro più elastico, adatto [alle specifiche] caratteristiche. Bisogna poi agire nelle scuole: proprio avantieri con l’associazione abbiamo parlato delle nostre attività in una scuola superiore. Io ho parlato dello stigma […], l’insegnante ci ha poi detto che questi ragazzi volevano assolutamente richiamarci, volevano fare un incontro più lungo e farci più domande. Mi sembra assurdo che nelle scuole non sia prevista un’educazione emotiva, che magari può aiutare i ragazzi a capire cosa gli sta succedendo. Io ho iniziato ad avere i primi sintomi a otto anni e ho impiegato dieci anni per chiedere aiuto, perché non sapevo quello che mi stava succedendo […], pensavo di essere pazzo. Non volevo dirlo ai miei genitori perché non volevo che pensassero che fossi pazzo, pensavo di non avere via d’uscita, che sarei morto suicida, fine. Se a scuola qualcuno mi avesse spiegato cos’era la depressione e altro, magari, avrebbe un po’ ridotto lo stigma, portandomi a cercare aiuto prima, e così per tutti gli altri ragazzi che non chiedono aiuto.
POTENZIARE I SERVIZI
«C’è la necessità di potenziare i consultori […] e il personale Asl per non ricadere nel privato. Una cosa importante sarebbe la possibilità di accedere ad alcune terapie specifiche. Per esempio, c’è una terapia specifica per le persone con disturbo borderline o in generale con disregolazione emotiva, con difficoltà a contenere gli impulsi, la rabbia, eccetera. Si chiama DBT, terapia dialettico-comportamentale, di solito viene fatta in gruppo e un gruppo di DBT dura sei mesi. Da nessuna parte è offerta dai servizi, te la devi pagare, e un gruppo costa circa settecento euro, a cui devi aggiungere il professionista che ti fa le sedute individuali, quindi verso fine anno arrivi a circa cinquemila euro di spesa per la tua salute mentale. Servirebbe anche un servizio di aiuto telefonico. Ci sono in realtà alcune associazioni che offrono un servizio di questo tipo, ma servirebbe una linea nazionale dedicata. Anche perché sia io che altre persone, quando abbiamo provato a usare l’attuale servizio, è andata più o meno così: “Pronto”. “Voglio suicidarmi”. “Hai creato un piano per farlo?”. “Sì”. “Ok, vai in 118”. “No”. “Ok, parlane col tuo medico”, e la conversazione terminava qui. Quindi non mi pare molto molto utile.
IL DIRITTO ALLA VITA INDIPENDENTE
«Infine dovrebbero esserci norme più specifiche per tutelare le persone con disagio mentale, perché in molte cose non siamo per niente tutelati. Voglio fare un esempio: io sono uscito dalla comunità, ed è successo che per due volte mi abbiano negato il contratto d’affitto perché avevano scoperto che ero una persona con delle malattie mentali. Avevo le prove di questa cosa, ma non ho potuto denunciarli per discriminazione perché non c’è nessuna norma che ci protegge in questo senso».
Elio ha concluso il suo intervento ricordando il libro In bilico. Poesie sulla salute mentale scritto con Giulia Mason (Brà edizioni, 2022), dal quale prendiamo questi versi: “Nessuno resta al mio fianco/ scappano/ scappano da me, da chi sono, da ciò/ che porto dentro./ Perché non restano?/ L’ho capito/ hanno paura/ è vero”. (a cura di antonio esposito)
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