Binod è uno studente di architettura di Delhi, l’ho conosciuto l’anno scorso quando sono stata in India per l’ultima volta. Gli ho scritto qualche giorno fa per chiedergli se abitasse ancora lì e se avesse voglia di raccontarmi qualcosa sulle proteste dei contadini, dal suo punto di vista. Luca e io stavamo scrivendo un articolo per fare il punto dopo la manifestazione del 26 gennaio, il racconto di Binod avrebbe potuto arricchire il testo e farci sentire meno distanti da Delhi. Avevo già provato a contattare altri amici, ma alcuni, quelli che conoscevano più a fondo i motivi della rabbia dei contadini, non abitavano più lì, mentre altri mostravano un misto di indifferenza e insofferenza per la situazione. Per esempio Anisha, professoressa di un’università privata vicino a Delhi, mi ha liquidata con un messaggio: “Non so, non seguo più le notizie, è da più di un anno che vari gruppi protestano in questa città e, credimi, è estenuante. Come se non bastasse la pandemia!”.
Non avevo molte speranze quando ho scritto a Binod, per questo la sua risposta mi ha colta di sorpresa: “Hey ciao! Sì, vivo sempre qui a casa dei miei. Sto vicino a uno degli accampamenti dei contadini, uno dei più piccoli. Ieri è arrivata la polizia e li ha sgomberati. A fine dicembre ho fatto tante foto a Singhu. Hai presente? L’accampamento più grosso, quello a nord di Delhi, più o meno a venticinque chilometri dal centro. Se vuoi te le mando, solo che internet adesso non funziona bene, ti scrivo nei prossimi giorni”. Anche dalle sue parti era in corso il blocco di internet, come in molte aree ai confini della capitale. Dopo qualche giorno ho ricevuto una sua e-mail con una ventina di foto scattate il mese prima a Singhu, l’accampamento che si estende per una lunghezza di oltre venti chilometri lungo l’autostrada che collega la capitale con il nord del paese. Nel testo che accompagna le foto, Binod ha annotato: “Questa era la situazione a Singhu a fine dicembre. Considera che a partire dal 28 gennaio quest’area è stata attaccata più volte e internet è stato bloccato. Adesso è più difficile avere informazioni attendibili sulle condizioni dei contadini, loro stessi fanno fatica a comunicare con Twitter e gli altri social, come hanno fatto nei mesi scorsi. A proposito, hai visto che casino è successo con i tweet di Rihanna e Greta Thunberg?”. Sì, la notizia aveva già fatto il giro del mondo ed era approdata anche sui giornali italiani.
Apro le foto di Binod e mi sembra di attraversare a piedi questa specie di città improvvisata fatta di tende, trattori e rimorchi. Provo a immaginare gli odori e sento quasi la gola che brucia per quell’aria acre tipica di Delhi. Non so se sia solo una suggestione o se l’inquinamento di Milano, dove mi trovo ora, abbia raggiunto livelli indiani. Decido di chiamare Binod perché l’immaginazione non basta, ho tante domande da fargli dopo aver visto le foto. Per cominciare gli chiedo come si accedeva al campo di Singhu, fino all’ultima volta in cui è stato lì: «A un certo punto – mi spiega – l’unico ingresso erano degli spazi pedonali larghi più o meno tre metri, ma dopo il 28 gennaio tutti questi passaggi stretti ma vitali sono stati bloccati dalla polizia e dalle forze paramilitari. I contadini hanno dovuto cercare strade e stradine in mezzo ai campi della periferia per raggiungere il sito e far arrivare lì tutto quello che serve per la vita quotidiana, ma pare che facciano davvero fatica. Per fortuna un po’ di abitanti di quelle zone li stanno aiutando, a differenza di quello che scrivono i giornali indiani».
Mi racconta la sua prima reazione quando è stato là e di come sia rimasto colpito dalla capacità dei contadini di autorganizzarsi in modo da garantire che a quella città creata da un giorno all’altro non mancassero elettricità, cibo, ripari per dormire e tanto altro. E la pandemia? «L’acqua, i rifiuti e i servizi igienici continuano a essere una preoccupazione con queste quantità impressionanti di persone. C’è il rischio di contagi, certo. In ogni caso – aggiunge –, ci sono molti presidi di medici e volontari che si mettono a disposizione in tutti i modi possibili, anche per spiegare come proteggersi dal virus». Poi, sempre a proposito di questioni di salute, mi dice di non dimenticare che il presidio di Singhu è nato nella seconda metà di novembre e che i contadini hanno trascorso tutto questo tempo all’aperto, attraversando uno degli inverni più gelidi della storia recente di Delhi.
Mostrandomi una delle sue foto mi dice: «Vedi quelle cataste di legna? Le potevi trovare ogni cento metri. Ogni gruppo di contadini si è portato la legna dal suo villaggio per riscaldarsi e per cucinare nella trolley city». La città dei rimorchi, così la chiama lo studente di architettura. «Anche l’ultima volta che sono stato a Singhu i rimorchi trainati dai trattori erano stipati di contadini, attrezzature per accamparsi, cibo e altri rifornimenti essenziali per sopravvivere in questa città improvvisata. Per questo, trattori e rimorchi sono diventati il simbolo della protesta. Il loro ruolo in queste mobilitazioni è andato oltre l’immagine che di solito si associa a queste macchine».
Mentre mi racconta come i contadini si sono attrezzati per restare a lungo ai confini di Delhi, mi torna alla mente un articolo letto qualche settimana fa dal sito di un giornale indiano. Raccontava la celebrazione di Lohri, una festa religiosa che cade a metà gennaio, molto sentita negli stati settentrionali dell’India. Come da tradizione, anche i contadini dell’accampamento di Singhu avevano acceso grandi falò e alcuni di loro avevano buttato nel fuoco le copie delle leggi di riforma dell’agricoltura che hanno fatto scoppiare la protesta lo scorso autunno. Intervistato da un giornalista dell’Indian Express, un contadino arrivato a Singhu da un villaggio nei pressi di Chandigarh aveva dichiarato: «Visto che il governo non ha intenzione di cancellare queste leggi, noi non ci muoviamo. Abbiamo festeggiato Lohri, festeggeremo anche Baisakhi», ricorrenza importante per i sikh che quest’anno cade a metà aprile.
Binod ride: «Risposta tipica!». Poi, per farmi capire meglio come abbia fatto a restare in piedi così a lungo questa città temporanea, aggiunge: «Gli accampamenti si rinnovano di tanto in tanto quando nuovi gruppi di trattori e rimorchi prendono il posto di altri. In questo modo ci sono sempre nuove forze nel presidio e c’è sempre qualcuno nei villaggi d’origine che si può prendere cura dei campi. Questo sistema ciclico rende viva la trolley city». Anche dopo il 26 gennaio sono arrivati nuovi trattori, ma l’accesso a Singhu è sempre più difficile a causa degli sbarramenti della polizia.
Tornando a guardare le foto, mi cade l’occhio su un gruppo di cavalli, non capisco cosa ci facciano in mezzo all’accampamento. «Appartengono ai sikh Nihang, una casta di guerrieri molto rispettata che difende il presidio di Singhu. Se vedi bene c’è anche un falco!».
Altre immagini mi sembra di averle già viste sui giornali indiani letti nei giorni scorsi, per esempio quelle che ritraggono un palco. Binod precisa: «C’erano vari palchi, forse sui giornali hai visto la foto di quello principale, dove si alternavano leader dei sindacati dei contadini e di vari gruppi, più o meno religiosi, ma anche artisti e personaggi pubblici che hanno manifestato il proprio supporto ai contadini in questi mesi. Questo palco è stato distrutto il 28 gennaio, non so se lo stiano ricostruendo ora, ma era un punto centrale della trolley city, aperto a qualsiasi ora del giorno e della notte per passare messaggi chiave sugli esiti delle negoziazioni con il governo e sull’evoluzione delle mobilitazioni». Oltre al palco principale, ce n’erano altri minori, tra cui uno definito “the stage of no single faith”, usato da leader religiosi e spirituali di varie origini e caste come luogo di preghiera.
Nelle sue foto vedo molti giovani, gli chiedo che ruolo avessero nell’accampamento: «In molti casi spetta a loro l’organizzazione e la gestione di buona parte delle attività che permettono la vita della trolley city. Lavano i vestiti per tutti, preparano il cibo nei langar – le cucine comunitarie aperte a tutti, ventiquattr’ore al giorno –. Qualcuno si è anche messo a coltivare dei pezzetti di terra ai margini dell’autostrada. E poi suonano, cantano, organizzano parate di trattori. Cioè facevano tutte queste cose fino a quando ci sono andato, ora non saprei». Mi dice anche che molti dei giovani con cui ha parlato erano terrorizzati all’idea che queste nuove leggi sull’agricoltura li avrebbero impoveriti al punto da dover migrare come lavoratori stagionali nelle grandi città indiane. Questa prospettiva alimenta la loro rabbia.
Stiamo facendo tardi, a Delhi sono quasi le undici di sera e Binod ormai è stanco. Non abbiamo commentato le foto in cui si vedono il filo spinato, i new jersey e gli autobus disposti dalla polizia e dai paramilitari a protezione del confine, ma immagini simili le avevo già viste in qualche video recente. Mi saluta sbadigliando: «Domani vedrai delle belle foto su internet, altro che queste…». Non ho il coraggio di fargli altre domande, lo saluto e torno a leggere The Wire per capire cosa sarebbe successo il giorno dopo, sabato 6 febbraio. Vari sindacati del settore agricolo hanno annunciato l’ennesimo sciopero nazionale, questa volta accompagnato da una chakka jam, un blocco di autostrade e linee ferroviarie che dovrebbe durare tre ore. Nel frattempo, forze di polizia e paramilitari stanno erigendo una “fortezza” ai confini di Delhi. (gloria pessina)
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