Dal numero 9 (novembre 2022) de Lo stato delle città.
Post scriptum – Queste sono cose triste. Io odio la tristezza. Voglio essere felice. Quando sarò grande sarò sempre felice.
Oggi vorrei raccontarti qualcosa di quella volta che sono stato in ospedale la quarta volta. Andare in ospedale, in reparto o in repartino sono sinonimi. È il dardo avvelenato del sistema psichiatrico presente. Nascosto dentro un vero ospedale, è uno tra i tanti esempi di come lo sviluppo umano e il suo progresso materiale si squaglino impotenti e crudeli contro tutto ciò che, per varia natura, non collabora. Andare in ospedale è la più grande negazione della vita a cui ogni psichiatrico e ogni psichiatrica deve sottostare. È umiliante. Intacca indelebilmente la dignità umana.
Disambiguazione: per quanto sia comunemente usato come insulto, psichiatrico è una contrazione di utente del servizio psichiatrico. In una città con un milione di abitanti, ciò riguarda approssimativamente trentamila persone. Normale, invece, sul dizionario etimologico che leggo io, non c’è. Se non come derivato di norma: squadra per misurare gli angoli retti. Diagnosi, infine, deriva da dia-gnosis, conoscenza che separa. Se la malattia non può guarire, la diagnosi è per sempre. Una dicitura tecnica, che significherebbe la fine della separazione dello psichiatrico, sarebbe sim-gnosis, conoscenza che riunisce. Una parola che non esiste.
Sono incerto nello scriverti queste cose. Vorrei raccontarti quello che ho visto. Però spaventa un po’ che potrebbe non esserci posto, dentro la tua testa, per appoggiare quello che dico. Potrei stridere nel niente, dentro un immaginario formatosi senza persone come me. Chi sa se dicendo questo ti ritroverò a sorridermi da lontano. Ti spezzi, alle volte, che poi ti ricordi delle persone a cui vuoi bene, ma non ricordi se loro si ricordano di te. Alle volte, sognando, vedi una persona con la voce di un’altra, o la faccia di un’altra, in un realistico fluttuante onirico. Quando hai quel che ho io capita di sognare da svegli. Se esistesse un mondo a conoscenza di tutto questo, ci ricaveremmo dentro un posto in cui poter essere diversi. Un posto in cui anche le emozioni hanno l’eco. Dove non dovrai sbatterti e comprimerti e scoppiarti e non trovare mai il sistema per fare meglio finta di essere normale.
Perché compaiano le crisi, gli esordi e gli episodi è semplice. Periodi continuativi di accumulazione senza sfogo di stress. Hai i tuoi bravi problemi che stai riuscendo a gestire, poi arriva il Covid. La “grande psicosi collettiva della fine del mondo”. Nella psicosi collettiva, i più adattati sono quelli che erano psicotici già prima, e sanno meglio come si fa. Che poi è semplice, vale sempre: tieni il culo tirato finché non passa. Però nel frattempo, mimando lo scoglio sul mare in burrasca, hai accumulato tanta di quella energia di sovraccarico che prima o poi dovrai scoppiare. La pervicacia dell’istituzione sta nella sua ostinazione a disinteressarsi di tutto ciò che c’è prima dello scoppio, e poi dei frammenti di te che ritornano alla realtà.
Se il presente fosse di gioia, in cui tutti egualmente prosperano, la psichiatria potrebbe sostenere la sua funzione. Io l’ho trovata, a sbarrarmi la strada, quando avevo ventidue anni. All’inizio non avevo idea di cosa fosse e le avevo creduto come un bambino crederebbe al dottore. Da allora si va a vista a osservare e conservare l’esperienza, per rimanere vivo a misura di me stesso. Cento lune dopo l’inizio dell’auto-conservazione, ho raggiunto un momento psicotico. Ho potuto seguirlo e assecondarlo e alla fine ridiscenderne liberamente. Dentro il movimento psicotico stanno rinserrate idee che la gentrycultura dei bianchi ha rifiutato e rifiuta di esperire e di esprimere. Più di una volta vi ho incontrato la coscienza di appartenere. Di essere parte del tutto.
Te lo dico fin da subito. Questa roba serve a mettere in fila la merda, buttare la merda nel secchio e lasciarla lì, ricca di nutrienti che la nostra cultura e il nostro olfatto ci impediscono di mettere a frutto. Sono cose bruttissime, che penso nessuno vorrebbe raccontare. Però, ricorda, sono sempre soltanto una percentuale residua delle cose che mi succedono, e un giorno vorrei in realtà parlarti di quelle e non di queste. Delle cose belle, bellissime e meravigliose che riempiono la maggior parte del tempo. Anzi, il guaio che ho io è essere felice animato, felice con brio, felice con moto, talvolta agitazione psico-motoria. E quando la felicità diventa troppa, sconfina in un’altra realtà. Che non è scientificamente dimostrata e va, secondo la morale corrente, rapidamente contenuta. Io penso che questi guai sono spesso un tabù, ma non so cosa pensano gli altri.
Nei periodi di quiete, ti tocca il Csm, centro di salute mentale. Anche detto servizio. È il posto dove si va a visita, qualcuno a prenderci la terapia. Siccome tutti questi posti li ha costruiti lo stato o una delle sue sotto-articolazioni, con tutte le loro brave leggine e regolamenti e appalti, c’è lo stesso colore sulle pareti di tutti. Così non fa differenza se sei al servizio, alla riabilitazione o a colloquio, è tutto dello stesso giallo.
Qui e là la quiete finisce. Da qualche parte scoppi, qualcuno si scoccia, arriva l’ambulanza. Il tuo nome è già nel computer e buonanotte al secchio, il tuo destino è segnato. Se ti capita, fai prima a toglierti i lacci dai vestiti direttamente sull’ambulanza. Quando hanno smantellato i manicomi, dopo il 1978, il trascrittore della rivoluzione in legge ha avuto cura di inserire due clausole contrattuali perverse. Si chiamano Tso e Spdc. Quando stai male davvero, ti offrono un Tsv in Spdc. Se non vuoi il Tsv, Tso e poi Spdc. Il trattamento sanitario obbligatorio è il permanere dell’autorità, la conservazione del diritto di giudicare sopra e di impedire i corpi. Il servizio psichiatrico di diagnosi e cura è lo sparpagliamento dei luoghi di restrizione per matti dentro gli ospedali civili. La vita del matto scorre tentando di schivare all’infinito questi due ostacoli. Bisogna non farsi ingannare poi dalla parola cura. Nella lingua del servizio sanitario mentale nazionale, cura è la parola che si contrappone a guarigione. Quando non è possibile guarirti, l’istituzione riconosce la necessità di una tua presa in carico a vita, e si chiama cura. La stagionalità delle maree rinchiusa. Dalla seconda volta in poi, l’ambulanza arriva con almeno un paio di energumeni. Il loro ruolo è impedirti la fuga. La responsabile del tragitto dice non ho alcun potere su quel che sta facendo, deve solo condurmi da A a B. B è il pronto soccorso dell’ospedale locale. Al pronto i matti stanno in una numerazione diversa, fatta di lettere. Quando arriva la tua lettera, risolte le formalità del caso, ti spostano su, all’Spdc.
La prima volta che ci sono stato, le pareti erano state decorate da un laboratorio di pittura, direi per matti e per bambini. Sulle pareti del refettorio c’era l’interno di un acquario, con un grande squalo pronto a mangiare chi sedeva sul divano. Suggeriva di essere sott’acqua, mentre l’obiettivo è tornare sulla terra. Avevano disegnato una cabina telefonica sulle pareti intorno al telefono a gettoni. Il plexi-vetro che circonda la zona all’aria era coperto di fiori stilizzati e frasi accumulate nel tempo. Soltanto le tigri ce la faranno e anche per loro sarà dura. Chi sa quando, prima di adesso, il nuovo infermiere capo ha fatto ridipingere i muri. Al posto dell’acquario c’è ora uno stormo di rondini, che spicca il volo, su un fondo metà fucsia e verde acido. Combatte una limpida battaglia contro la contenzione.
Vorrei che, tra una frase e l’altra, affiorasse come tutta questa questione sia ascrivibile a rapporti di forza. Vorrei che si percepisse che è la geometria del consumo a spingere verso i poli estremi del tono timico. Consumare forsennatamente, tacitando l’ansia. Ed è la psichiatria a riassorbire gli estremi, una volta scoppiati, nella psichiatria più grande che è il capitalismo. Ed è anche, spietatamente, una questione di classe. Se sono lucido tanto da mettere in fila queste parole, è perché la mia famiglia ha sputato sangue per darmi il tetto sotto cui nascondermi dalla lunga notte dell’istituzione totale. È importante perché, se non vedi entrambe le facce del Giano, rischi di finire a giustificare quello che fanno agli estremi. Vorrei poter condividere poi la matematica capitalista con cui viene gestita la salute mentale: allontanare dal luogo di lavoro chi dimostra segni di cedimento; spremere e frullare fino a farti scemo nei luoghi deputati, lontano dalla vista e dal contatto delle persone normali; rimettere il frullato prima possibile nel lavoro. Per descrivere tanta perversione servono tanti dettagli.
Il ricovero si chiama Tsv, trattamento sanitario volontario. Trascorrere un tempo non stabilito all’interno di un terzo piano qualsiasi di un qualsiasi reparto d’ospedale di provincia, dal quale però non puoi uscire. Un corridoio col corrimano qualunque, e in fondo al corridoio lo sbarco delle scale antincendio chiuso a chiave dove si va a fumare. Due stanze per colloquio, due stanze a magazzino, il resto camerate. A metà, il bussolotto degli infermieri, di fronte il refettorio. Accanto al bussolotto, la camera singola. Alle otto in piedi per la terapia e le analisi, dalle nove alle dieci la colazione, alle undici il caffè, alla mezza il pranzo, dalle sedici alle diciassette la merenda, alle diciannove la cena, alle ventuno la terapia e poi devi dormire. Qui e là, in questo fitto calendario, puoi chiedere di fare la doccia o una delle altre cose inutili tipo guardare la televisione. Cose che tanto non fa nessuno perché siamo tutti così strafatti di terapia che è impossibile svolgere qualsiasi attività superi la complessità di inalare l’aria ed espirare via.
Prima di entrare ricorda di comprare delle sigarette, anche se pensi di non fumare o non hai mai fumato. Di giorno ti fanno tenere il telefono, ma con la terapia che avrai in corpo lo userai male e non ti aiuterà a uscire. La terapia è una soluzione pluri-farmacologica, una combinazione strategica della tua terapia ordinaria quotidiana a cui aggiungono una forte dose di sedativi-tranquillanti e una cosa che chiamano antipsicotico. È un po’ come se mettessero il tuo cervello a bagno nella benzina. Puoi provare. Ti servono un imbuto, una tanica da tre litri e un amico che mentre tieni l’imbuto premuto sull’orecchio ci versa dentro la benzina. Se ti dai la pena di leggerli, nei libretti di istruzioni delle terapie c’è scritto di non usarle insieme contemporaneamente, se non sotto stretto controllo medico. E come per le terapie per le persone normali, se ti sembra di riscontrare discontinuità nel beneficiare di questo tipo di trattamento, puoi chiedere al medico. Bisogna sempre distinguere il reparto psichiatrico dagli altri reparti, e lo psichiatra dai medici normali. La differenza è semplice. Nove volte su dieci i medici veri ti guariscono. Tutto il sistema sta in piedi sul rinforzo positivo che ricevi guarendo. L’Spdc è invece la traslazione di una punizione corporale dentro l’ospedale. Lo psichiatra dà per scontato che per te non c’è rimedio. Ti contiene con la sua chimica e le sue sbarre decorate. È il custode della soluzione per proteggere la società. Per impedire che la tua stranezza contagi i lavoratori ancora funzionanti.
Valentino stava in ospedale senza diagnosi. O non l’aveva capita. O fingeva di non averla capita, perché rifiutava di accettare per sé stesso le condizioni in cui era costretto. Sapeva nascondere la terapia sotto la lingua per sputarla. Ricordo distintamente di avergli detto di non farlo, altrimenti non sarebbe uscito, e me ne vergognerò per sempre. Prima che ci perdessimo di vista per telefono, viveva in una comunità in cui spazzava il cortile per un euro, due volte a settimana. Il resto del tempo Playstation.
Fumare è la principale attività ricreativa prevista, tanto personale quanto interpersonale – a parte usare i pennarelli per fare un bel disegno. Qualunque fosse la tua posizione sull’argomento prima, in reparto fumare fa bene. Schiarisce l’aria, la libera per un momento tanto dai demoni con cui stai negoziando il ritiro, quanto dagli umani di un solo colore vestiti che dominano il terzo piano qualsiasi.
Quando assumi terapie neuro-alteranti continuativamente, le sostanze si accumulano nel corpo fino a saturare. Così sono in circolo anche a molte ore o giorni di distanza da quando le hai prese l’ultima volta. Oggi va abbastanza di moda, nei convegni e nelle convention, sostenere che la psichiatria stia abbracciando un modello di cura centrato sulla persona. Pensando a quale potrebbe essere un sistema di cura non-centrato sulla persona, sembra quasi che il sistema finora sia stato di cura incentrato sulla società. Che significa garantire il funzionamento normale della società attraverso l’espunzione dello scarto.
Va da sé che non è mai veramente volontario. Una volta che il tuo nome matcha con una delle loro diagnosi preferite, se non accetti volontario crei le condizioni per obbligatorio. Che non so se c’è una gara di queste cose stronze da qualche parte, ma se c’è il trattamento sanitario obbligatorio è ben piazzato e gode di ottima salute. Prospera annichilendo i fragili e dimostrando l’ottusità dell’ordine che crede di circondarci. Io ho un trucco, una cosa che mi ripeto per starmi tranquillo quando la marea intorno sale e si sta andando verso un finale scontato: ricorda sempre che conosci la strada per andare da T a O senza passare per S.
Un uomo magro raccoglie tra i palmi stracci da terra, come le terminazioni di ali che erano le sue braccia. Quando gli stracci sono abbastanza, incurva le scapole e butta le ali per aria, le riversa a terra e ricomincia, snodando il corpo e accerchiando la stanza. Il volo di un’aquila, a fare e disfare minuscoli universi nella polvere in continuazione.
Se potessi passare attraverso tutti i punti coi nomi malevoli, in fondo al fondo del buco ci sarebbe la perla. Il nodo irrisolto e inarrestabile nella cosmogonia del tuo bene e del tuo male. Il sogno senza possibilità di svegliarsi che chiamiamo trauma. La perla porta alla luce. La smetterai di andare dietro alla luna quando sarai nella luce.
L’unica attività non-ricreativa prevista è il colloquio quotidiano con la psichiatra o le psichiatre di turno. È il momento in cui vai a discutere contro lo psichiatra e lui contro di te su come deve procedere la cosa. Che, sostanzialmente, significa quanta terapia sei disposto ad ammuccarti in più prima che ti lasciamo uscire. Quello che in realtà hanno detto, ho memorizzato di proposito con grande impegno questa frase, è stato: ma se non modifichiamo la terapia, come facciamo a giustificare il ricovero? Mentre te ne stai in questo schifo di posto, a guardare esseri ridotti a girovagare vuoti avanti e indietro, aspetti il tuo turno di dire compostamente in un minuto, un minuto e mezzo, abbastanza parole lineari e connesse che descrivano quanto hai capito di essere malato, e di essere pentito di essere malato. Il tutto, imbevuto di terapie che provocano amnesia anterograda, perdita di contatto con la realtà, perdita della capacità di pensare e giudicare chiaramente. Lo chiamano, con un’ironia che sfiora la circonvenzione di incapace, concordare la terapia.
Intanto dappertutto gli sbirri e i loro molti nomi e travestimenti agiscono sui sudditi, spostandoli da un punto a un altro dell’applicazione della violenza. Agendo direttamente la violenza ogniqualvolta non gli è direttamente impedito. La prima legge è ubbidire alla legge. La seconda legge è lavorare. Per quale motivo l’uomo bianco abbia la perversione di lavorare non è chiaro. Gli psichiatri e le psichiatre, sotto il tendone da circo speciale di infermieri, assistenti sociali, operatori sociali, terapie, somministrazioni, colloqui, ricoveri, repartini, servono a inscrivere tra i punibili quelli che si sono fatti acchiappare a scoppiare, e non riescono più a rispettare silenziosamente la legge di lavorare. Non hanno interesse né conoscenza delle percorrenze mentali e della ricorrenza del pensiero libero. La psichiatria è un tipo di polizia. Lo psichiatra, un magistrato con il costume di un camice. Dentro le mura, amministra il tempo di chi rifiuta l’ordine della cultura dell’uomo bianco, attraverso la violenza della sua razionalità.
Salvatore si fece scrivere due lettere, per il suo medico sull’isola. Non ho mai deciso se era perché non sapeva scrivere o perché la terapia glielo rendeva impossibile. In cambio, promise che mi avrebbe fatto un coltello. Ho ancora una sua foto, nascosta da parte. È l’unica persona che abbia mai visto legata.
Dopo quattro giorni, la psichiatra che assomiglia a un tulipano dichiara senza fraintendimenti: dobbiamo trovare il giusto dosaggio affinché lei stia bene. Vale la pena sottolinearlo, la loro idea di bene riguarda esclusivamente lo spicchio della tua vita che li riguarda. Su questo soltanto hanno potere e soltanto questo vedono. Chiusi ognuno nel proprio cupo specialismo, forse neanche immaginano che uscire dall’ospedale è come svegliarsi nel deserto. Non sai più se il mondo che c’era prima c’era o lo stavi sognando.
Ti danno cinque pasti al giorno, perché mangiare e bere caffè è la seconda attività ricreativa. Fracassate di zuccheri, merendine, marmellate, bustine di zucchero extra, budini, fruttini tre volte al giorno, che ti aiutano sicuro a stare tranquillo. Sostanze stimolanti che contribuiscono a farti scendere la terapia. Più la terapia scende, più possono dartene. Dopo che sono uscito, ho digiunato fino a tornare com’ero prima di entrare.
Una volta c’era uno, dicevano venuto dalla Siria, che era così magro che stava sulla sedia a rotelle, che non mangiava mai e non ha mai parlato, che stava nella stanza vicino all’uscita e, ogni volta che si apriva la porta, usava le ultime energie per spingersi fuori. Lo riacchiappavano sempre.
Disse Michel Foucault che non si può scrivere una storia della follia. Per farlo, bisognerebbe imbrigliare la follia in parole, che sono già ordine e non più follia. Si può però scrivere una storia dell’istituzione che l’ha contenuta. Sta in un libro che si chiama Storia della follia nell’età classica, e tanto basta. Ricorda che Foucault era omosessuale. Negli anni in cui insegnava, in Francia, la pratica dell’insegnamento era proibita agli omosessuali. Foucault ha dovuto usare il trucchetto di fingere di essere ciò che non era, per sopravvivere ai normali. Nella prima edizione del Manuale Statistico Diagnostico, del 1952, l’omosessualità è una malattia mentale.
Intorno alla metà del Cinquecento, in Francia, la classe economico-politico-sociale in ascesa del momento ha riformato la realtà, uniformandola alla sua morale in espansione, fino ad affermarsi come corpo politico dopo il 1789. È stato fondato un luogo nuovo, deputato all’esclusione, approfittando dei vuoti urbani comparsi con la scomparsa della lebbra. Dentro questo luogo sono stati rinchiusi gli esclusi. I matti, i poveri, gli orfani, i sex workers, chiunque abiti per strada. Umanità senza tetto che ai maiali ingorga gli affari. La caratteristica che accomuna gli esclusi è rifiutare l’ordine composto della società teocratica del lavoro. Poi, avranno chiamato un pittore di insegne e gli avranno detto: allora, devi staccare la vecchia insegna – lebbrosario – e mettere su la nuova: manicomio. Vedi di farti bastare la ‘a’, la ‘i’ e le ‘o’ che recuperi da lebbrosario.
A me era sempre venuto spontaneo pensare al manicomio come a un carcere per matti. In realtà, l’idea che potesse essere una punizione rinchiudere una persona per un tempo prolungato è stata mutuata dalla psichiatria, nella seconda metà del Settecento, tra cento e duecento anni dopo l’invenzione del manicomio. Muta il sistema giudiziario e compare il manicomio per normali che si chiama carcere. Fino ad allora, le celle servivano soltanto fino a quando ti torturavano e confessavi. Profonda gloria del Signore.
C’è un quadro sulla copertina del libro, Pieter Bruegel il Giovane. Morto nel 1638. In mezzo a una stanza di alienati, un uomo immobilizza su una sedia un altro, mentre un terzo gli avvicina alla tempia una specie di pinza ricurva. Il quadro si chiama Estrazione della pietra della follia.
Verso la fine, sono strafatto, lo psichiatra mi propone una cosa che chiama dialogo aperto. Roba fina finlandese. Star seduti in cerchio a dirsi cose, senza interrompersi, senza violenza sul turno di parola. Può venire chi vuoi dei tuoi amici. Poi ci pensi, e pensi che non vorresti mai portare un amico in un’istituzione così. Lo usano in Lapponia da trent’anni per guarire gli schizofrenici. Funziona per la metà. Qui è poco diffuso perché sono trent’anni che cercano di stabilire con metodo scientifico se può funzionare fuori dalla Lapponia. Ora tu dirai, quindi collabori con loro. Con il servizio, con lo stato. Anzi, ti dà la terapia, ringrazia. In realtà, sta tutto nella viziosità della spirale. Prendi la terapia. Vai al servizio. Perché se smetti, ti sbagli, stai male, scrivono: si è auto-sospeso la terapia, non si è più presentato a visita.
Io credo fermamente che non si può fare quello che fanno in reparto a degli esseri umani. Se lo fanno, semplicemente, vuol dire che non siamo più esseri umani. Così vede, Dottore, io sono arrivato al servizio, un pomeriggio di tanti anni fa, come una persona che aveva bisogno di aiuto. E me ne vado, oggi, come una non-persona.
Prima di salutarti, vorrei trascrivere qui alcune delle cose che ricordo di aver visto nel paesaggio psicotico e che voglio portare con me. Sono cose matte, ma se ti guardi intorno ce n’è di ben più matte nei normali. Ho imparato a sentire il suono dell’acqua nei tubi. Ho intuito come nasce la dipendenza. Ho imparato a roteare le scapole a forma di un battito d’ali e a colpire un bersaglio scagliando. Ho scoperto che la psicosi serve a nascondermi. Che si parte per la tangente per nascondersi dalla relazione con la vita. Che, distribuendo oggetti nello spazio in saturazione, si formano corridoi di scorrimento sul perimetro dei bordi. Dopo ventiquattr’ore, l’acqua nei tubi è diventata musica classica ed elettronica il motore della macchina che lava i vestiti. Ho imparato come si disegna un fiore con un mazzo di pennarelli. Ho capito che passo il tempo a studiare e pensare, dimenticando che è da matti rimanere soli. Poi ho pensato a una ricetrasmittente interplanetaria, nuda tecnica per contattare il tutto attraverso un pacchetto di frammenti. E alla fine, una notte, ho seguito all’indietro il sentiero dei segni e la psicosi è evaporata. Che mi sa non si capisce mica se vuol dire qualche cosa o è una follia. Come diceva il buon vecchio plexi-vetro colorato, la mente si chiama così perché ti mente.
In questo nuovo posto giallo, monopolio finlandese, rispettano il turno di parola, praticano la non-interruzione e la non-violenza. Ecco, mi ricordo che quando sono arrivato in città anche io ero non-violenza. Con quello che ho visto dopo, non lo sono più. (valerio vallegiulia)
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