Su questo sito a luglio scorso Giovanni Iozzoli ragionava sull’esplosione mediatica scaturita dal caso Carola Rackete, la capitana che aveva salvato al largo del Mediterraneo alcuni migranti a bordo della Sea Watch. Iozzoli riteneva che schierarsi con Carola, mettere un like a suo favore, non poteva essere espressione di un pensiero sul fenomeno delle migrazioni. Che posizione politica è “Io sto con la Sea Watch?”, scriveva Iozzoli, denunciando uno sguardo superficiale, acritico ed effimero di una parte della sinistra italiana. Su un piano squisitamente teorico, mi sento perfettamente allineata con le sue riflessioni, ma su un piano pratico come costruire una risposta strutturale all’inaccettabile realtà della tragedia del Mediterraneo? Quello che Iozzoli forse trascura nel suo articolo è una necessaria distinzione tra chi parte in cerca di una vita migliore – legittimo e sacrosanto – e chi viene cacciato dalla sua terra e scappa da una morte sicura, in fuga da guerre, conflitti e bombardamenti. Le persone che attraversano il mare in barconi di fortuna spesso fanno parte di questo secondo gruppo e i numeri sono sconvolgenti: secondo il più recente Dossier statistico sull’immigrazione parliamo di venticinquemila morti e dispersi dal 2000 a oggi nella sola tratta centrale, circa la metà di tutte le rotte marittime a livello mondiale.
Le Ong che operano i salvataggi in mare certamente non possono costituire la soluzione, ma una lecita risposta alla sicura morte. Insomma, è chiaro che se siamo sulla riva di un fiume e vediamo un bambino annegare non aspettiamo un istante a tuffarci in acqua nel tentativo di salvarlo, ma se ogni giorno sullo stesso fiume centinaia di bambini rischiano di annegare non abbiamo il dovere di andare a capire cosa accade dietro la punta dell’iceberg della tragedia? Credo che accanto a una lettura delle cause dei conflitti e delle disuguaglianze, urge una risposta immediata per le centinaia di migliaia di profughi in fuga, spesso costretti a un eterno e infernale limbo, fatto di campi profughi, assenza totale di diritti e tentativi quotidiani di sopravvivenza.
MEDITERRANEAN HOPE
Nel 2016 la Fcei (Federazione chiese evangeliche italiane), che da anni ragiona su questi temi, ha iniziato a costruire un percorso, o meglio un corridoio, per traghettare i profughi in fuga dai conflitti sino a un luogo sicuro. Autofinanziandosi, ha messo in piedi un sistema con il quale in questi quattro anni sono state messe in salvo oltre tremila persone. Si chiama Mediterranean Hope (MH) e funziona così: la Fcei ha firmato un protocollo di intesa con il governo italiano che prevede che i ministeri competenti si impegnino a rilasciare un certo numero di documenti per la richiesta di asilo; le associazioni che lavorano con i profughi in loco segnalano agli operatori di MH una lista di persone vulnerabili e la Fcei organizza loro un viaggio sicuro, su un normale aereo di linea, e un’accoglienza in Italia, promossa da strutture apposite disseminate in tutto il paese, gestite da associazioni che li accompagneranno nel primo difficile periodo di assestamento e li indirizzeranno verso percorsi di formazione e lavoro in base a competenze, titolo di studi, necessità, aspirazioni. Per ora il programma non riceve nessun tipo di finanziamento pubblico ma è mutuato da un sistema istituzionale, quello canadese, che funziona e dà i suoi frutti da anni.
Dal 2016 MH è impegnata con chi scappa dalla guerra in Siria. Un gruppo di operatori si è trasferito in Libano, un paese di quattro milioni di abitanti a cui si aggiungono oggi un milione e mezzo di profughi siriani: una situazione insostenibile per un paese che da ottobre è sceso in piazza per dissentire contro un sistema che negli anni ha solo foraggiato un disperante aumento delle diseguaglianze. I libanesi si trovano con un debito pubblico che ha superato il centocinquanta per cento del Prodotto interno lordo e le dimissioni del premier Hariri del 30 ottobre scorso, chieste a gran voce dalla folla, non hanno risolto il problema.
È fine novembre e sto scrivendo da Beirut, le manifestazioni pacifiche e partecipate qui si sono sgonfiate, mentre in queste notti il quartiere centrale ha assistito ad alcuni scontri violenti tra esponenti dei due movimenti sciiti Hezbollah e Amal e manifestanti anti-governativi, sedati in parte dall’intervento dell’esercito. A Tripoli, città a nord della capitale, continuano invece i cortei colorati, con famiglie, nonni e bambini per le strade a sventolare la bandiera nazionale. L’assenza di un governo ha però peggiorato la situazione già critica, la luce elettrica salta sempre più spesso e per periodi più lunghi, molte scuole sono chiuse, il traffico e lo smog – già elevatissimi in una nazione in cui non esistono mezzi di trasporto pubblici di nessun tipo – sono arrivati a un livello critico. In questa situazione, che sta sconvolgendo una nazione già in ginocchio da anni, la presenza siriana è vista come la causa di ogni male.
UNA PIETRA NERA
In questi giorni ho seguito gli operatori di MH nel loro lavoro. Stanno ultimando i preparativi per la partenza del prossimo corridoio, previsto per questa notte, 27 novembre: sono centotredici persone, tra famiglie con bambini e giovani donne e uomini single. Li ho accompagnati mentre sbrigavano le pratiche finali: spiegare come impacchettare le loro cose, quanto devono pesare le valigie, come raggiungere l’aeroporto. I centotredici hanno saputo ieri le loro destinazioni: Mohammed andrà a Formia per mettere a frutto il suo brevetto da sub, Osama raggiungerà la compagna a Pinerolo, dove i figli stanno frequentando le scuole e lei sta seguendo un tirocinio come chef, Bushra andrà a Padova, dove potrà continuare a formarsi come grafica. Sono tutti molto emozionati, ma soprattutto impazienti di lasciare la loro attuale situazione.
Maha, Mohammed e i suoi tre bambini vivono in una periferia di Beirut, in due stanze dove il marito nel tempo ha costruito un bagno e un angolo cottura. Sono scappati dai bombardamenti in Siria due anni fa e la moglie nella fuga ha rotto malamente una gamba. Il marito l’ha trasportata in braccio per chilometri fino al confine libanese. Inizialmente hanno trovato alloggio nel campo profughi di Sabra e Shatila, qui i figli hanno subito numerose violenze e la loro situazione psicologica e fisica si è aggravata, alla fine hanno trovato questa doppia stanza nella capitale, dove li abbiamo incontrati. Il loro alloggio è in un palazzo fatiscente che era una ex scuola, ovviamente pagano un affitto salato, come tutti i profughi siriani che abbiamo incontrato. Osama, per esempio, paga cento dollari al mese per vivere nel terrazzo di una palazzina poco fuori Beirut. Il proprietario ha costruito dei loculi con delle assi di legno che affitta a quindici ragazzi, nel suo Osama ha sistemato un materasso e una vecchia televisione. Souad l’abbiamo incontrata in un campo profughi a Tel Abbas, nel nord del Libano, ai confini con la Siria, vive con la vecchia madre e i due figli in una tenda da sei anni, in questo lasso di tempo ha visto morire di crepacuore il marito e ha provato a crescere al meglio i figli trovandosi lavoretti saltuari e mal pagati. Mentre ci serviva il tè, ha chiesto agli operatori se poteva portare con sé una pietra nera, l’unica cosa che le rimane del villaggio siriano in cui è nata.
Ho con me un libro di Anthony Shadid, un giornalista libanese morto in Siria nel 2012. Shadid, cresciuto in America, racconta di quando decide di tornare in Libano per rimettere in piedi la casa del nonno. “Gli imperi cadono. Le nazioni crollano. I confini possono essere cancellati e spostati. Antichi vincoli di fedeltà possono dissolversi o modificarsi. La casa è l’identità che non sbiadisce”, scrive Shadid. Mi sembra che Souad, con quella pietra nera in mano, voglia dirci la stessa cosa. (marzia coronati)
Leave a Reply