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16 Gennaio 2020

Molenbeek, capitale europea della musica gnawa marocchina

Stefano Portelli
(archivio disegni napolimonitor)

«E hai mai pensato di tornare?» chiedo a Reda Stitou, oggi il più importante maestro di gnawa marocchina in tutta Europa. Siamo seduti al tavolino di un bar piuttosto elegante nel centro di Bruxelles, sovrastati dai palazzi modernisti della piétonier, il grande boulevard da poco diventato pedonale, oggi punta di lancia della gentrificazione in città. Lo previene Faddal Ezzamouri, chitarrista già anziano, cresciuto qui da una famiglia operaia di Tangeri, e che enfaticamente si dirige a me per nome: «Stefano – dice – nessuno torna». Reda sdrammatizza: «Io sono qui, ma sono anche lì allo stesso tempo». La frase mi si presenta in tutta la sua profondità: maestro di una confraternita sufi popolare che connette gli umani all’invisibile, uno dei pochi in Europa a conoscere tutte le canzoni del rituale notturno gnawa, è maestro anche nell’attraversare le frontiere politiche che separano gli umani. Sopra di noi inizia a piovere forte, dobbiamo cambiare tavolino.

È vero: quando scende in Marocco, Reda è trattato con grande rispetto; non ha perso né pubblico né ammiratori, tre anni fa ha suonato sul palco del festival gnawa di Casablanca con un gruppo di musicisti che, anche loro, vivono un po’ qui e un po’ lì. Suo padre Abdelwahid Stitou è l’ultimo rimasto in vita dei grandi maestri di Tangeri; ha ancora un sacco di energie, ma ha designato lui, figlio maggiore, come suo successore spirituale e artistico. Ma il mondo di Reda è a Bruxelles, dove abita da vent’anni; in particolare il quartiere di Molenbeek, reso celebre dai giornalisti in cerca di like. Da Molenbeek infatti venivano i due attentatori del Bataclàn di Parigi: per mesi il quartiere è stato assediato dalla polizia, che irrompeva nelle case e perquisiva chiunque avesse un aspetto musulmano, con i giornali di tutta Europa a sciacallare dietro. Le stesse strade ospitano anche la più grande concentrazione di maestri gnawa d’Europa: Molenbeek è il quartiere più marocchino di Bruxelles, che è la capitale europea della diaspora marocchina. Su un milione di abitanti, circa duecentomila hanno origini marocchine: si chiamano Maroxelloise, Marocaine–Bruxellois.

Attraverso Molenbeek con Hélène Séchehaye, musicologa, che sta finendo la tesi di dottorato. Hélène è la prima ad aver catalogato il repertorio della gnawa europea, lavorando con i circa quaranta musicisti che circolano per le strade del quartiere. Il cameriere del bar dove mi ha portato a conoscere Reda è uno gnawa di Fes, Driss Filali; uno dei macellai del supermercato halal all’angolo della stessa strada è Bader Hernat, gnawa di Marrakech; un altro lo incontriamo seduto a un tavolino, un altro alla guida di una macchina che si ferma per strada. Alcuni sono già affermati come Reda, altri giovanissimi, passano le loro giornate con il maestro. Hélène ha passato già diversi anni come apprendista gnawa, a sedere con loro nei bar e nelle case di Molenbeek; ha registrato centinaia di ore di interviste e registrazioni, e sta preparando un CD in cui è riuscita a tenere insieme dieci musicisti gnawa di Bruxelles, solitamente restii a collaborare insieme. È la nuova frontiera di mezzo secolo di ricerca collettiva degli etnomusicologi e antropologi europei su questo stile musicale; a partire da quando George Lapassade visitò per la prima volta Essaouira, prima che diventasse la sede di un festival gnawa che adesso attrae mezzo milione di visitatori l’anno. La settimana scorsa, anche grazie a tutto questo lavoro, l’Unesco ha incluso la gnawa nella lista del patrimonio immateriale dell’umanità. Molti gnawa sono scettici verso questo riconoscimento, che considerano solo un favore a chi organizza i festival. La categoria ufficiale cristallizza una serie di pratiche, un repertorio, una genealogia, ma si adatta poco a una comunità fluida, volutamente impermanente e volatile come la gnawa. 

Ogni volta che un musicista gnawa prende il ghembri, il basso acustico che si usa solo per questa musica, lo spazio e il tempo spariscono. Queste canzoni sono nate in segreto, tra i neri portati come schiavi dall’Africa occidentale a Marrakech e nelle altre città marocchine, dopo la conquista del Regno del Songhay nel XVI secolo, poi arruolati nell’esercito del Sultano. Probabilmente erano poche le case dove gli ex-schiavi sradicati potevano incontrarsi, suonare, lasciarsi andare, ridere, piangere, abbracciarsi, accantonare per una notte le differenze tra uomini e donne, tra i più e i meno poveri, tra chi veniva da un luogo o da un altro. Ma la discriminazione verso i neri era basata più sulla diffidenza politica che sul pregiudizio razziale, perché i neri erano usati come soldati contro gli arabi e i berberi. Alle notti di gnawa, però, iniziarono a partecipare con discrezione anche alcuni arabi, berberi, ebrei, da metà Novecento anche qualche europeo. In queste notti la struttura sociale si ribaltava: erano i più marginali, i più discriminati, a guidare il rituale; senza di loro le porte della gnawa non si aprivano. Già a fine Ottocento i rituali gnawa erano spazi d’incontro tra neri e bianchi, schiavi e liberi, ricchi e poveri, musulmani e ebrei; i viaggiatori europei rimanevano spesso colpiti dalle acrobazie e i virtuosismi di questi personaggi inafferrabili, un po’ monaci erranti, un po’ pagliacci di strada, un po’ mendicanti, un po’ depositari di un sapere segreto.

Ma al di là delle speculazioni degli antropologi e degli orientalisti sugli spiriti, sulla trance e sulla possessione, il segreto della gnawa è davanti agli occhi di tutti. Il dispositivo rituale notturno permetteva agli ex schiavi emarginati di costruirsi una comunità nel nuovo paese, giocando con le proiezioni degli autoctoni. Per gli autoctoni, invece, il rituale in cui per una volta erano ospiti e non padroni era una scusa per allentare le differenze di status, rango, età e appartenenze della società urbana, e per sentirsi di nuovo parte di qualcosa di collettivo, proprio grazie agli outsider. Funzionava in Marocco e funziona ora in Europa: mentre io e Hélène battiamo timidamente il tempo per accompagnare il ghembri e il canto di Driss Filali nella sua casa di Molenbeek, tutto quello che sappiamo su migranti e autoctoni, sui centri e sulle periferie, sul quartiere dei temutissimi terroristi islamici, si confonde. La canzone che canta Driss, come sempre, mischia riferimenti ai maestri gnawa del passato, al mercato degli schiavi, ai santi arabi, a vaghe divinità africane magari inventate, parole misteriose che non capisce più nessuno, ma anche qualche riferimento scherzoso a noi, i due stranieri che sta ospitando, nel paese in cui l’ospite in teoria sarebbe lui. La gnawa butta all’aria la struttura sociale, i pregiudizi razziali e politici, le gerarchie, e riapre le porte alla negoziazione dei rapporti. L’inizio della sequenza del rituale notturno si chiama ftoha rahba: l’apertura della piazza del mercato, dove chiunque porta quello che ha. Le parole della gnawa evocano immagini che nessuno capisce davvero, ma su cui tutti sono liberi di proiettare quello che vogliono. Gli gnawa sanno che a noi piace anche non capire, ogni tanto lasciare andare l’ossessione di ottenere risposte. La chiamiamo arte.

Hélène sostiene che l’arrivo della gnawa in Belgio sia in parte legato al disastro di Marcinelle del 1956, quando oltre duecentocinquanta minatori, metà dei quali italiani, persero la vita nell’incendio di una miniera di carbone. L’Italia sospese l’invio di emigranti e il Belgio si accordò con il Marocco: i re dei due paesi evidentemente consideravano le vite di quei sudditi meno importanti di quelle degli italiani. Il re marocchino Hassan II inoltre ne approfittò per mandare a lavorare nelle miniere e nelle fabbriche del Belgio migliaia di abitanti del Riff, la zona settentrionale insubordinata che già negli anni Venti voleva diventare una Repubblica autonoma, e che aveva già dovuto bombardare. In Belgio, però, i ribelli del Riff sfuggirono al controllo dello stato autoritario e ancora oggi contestano pubblicamente gli atti pubblici del regime (curiosamente, oggi sono esiliati a Bruxelles anche diversi catalani, tra cui il rapper Valtònyc, colpevole di aver scritto una canzone contro il re di Spagna!). Ma con loro partirono anche centinaia di famiglie di Tangeri: la città aveva perso lo status di zona franca, di città internazionale, il suo porto iniziava la decadenza, ma non era ancora circondata dalle aree industriali a statuto speciale di oggi. Così Tangeri, periferia del Marocco, diventa il centro di diffusione della sua sottocultura più importante in tutta Europa. Il CD a cui sta lavorando Hélène,  e che uscirà in primavera, mostrerà proprio come lo shamali, lo stile gnawa del nord si stia evolvendo proprio nella diaspora europea, e che l’emigrazione l’abbia trasformato da repertorio marginale nelle gnawa marocchina a repertorio centrale di quella europea.

Il viaggio è una componente fondamentale della gnawa. La loro formazione deve passare per forza per la krima, chiedere l’elemosina suonando per strada, come i monaci erranti del passato; ma gli gnawa viaggiano soprattutto per suonare e per trovare i maestri, da una città all’altra, prima attraverso il Marocco e l’Africa settentrionale, oggi attraverso le frontiere sempre più burocratizzate d’Europa e del resto del mondo. Un gruppo di quelli che abbiamo incontrato a Molenbeek stavano preparandosi per un viaggio a Taiwan, con un’associazione culturale belga che organizza concerti di musiche del mondo. Non riusciranno a partire tutti, perché alcuni non hanno il permesso di soggiorno. Ma se i singoli ogni tanto rimangono bloccati – quasi tutti gli gnawa non hanno soldi, fanno i lavori più disparati per sopravvivere, spesso non hanno documenti, alcuni non hanno neanche il conto in banca – la confraternita riesce sempre a estendere la sua rete, e ha regole precise da rispettare. Verso l’esterno, gli gnawa si presentavano prima come maestri spirituali, poi come terapeuti, guaritori tradizionali, adesso tendono a presentarsi come musicisti, perché è l’identità che li fa viaggiare più liberamente. Così, alcuni hanno suonato sui palcoscenici di tutto il mondo, con i migliori jazzisti; altri hanno partecipato a ricerche, documentari, congressi, ed eventi internazionali come il Festival gnawa di Berlino – curiosamente, una città dove non ci sono gnawa. Ce ne sono invece (oltre che a Bruxelles) a Barcellona, a Parigi, a Manchester, qualcuno anche in Italia: a Roma c’è AbderrazzekTelmidi Marrakech, a Bologna ci sono Abdellah Ajarrardi Essaouira e Reda Zinedi Casablanca. 

Li si può trovare un giorno sul palcoscenico di un festival finanziato dall’Unione Europea, dopo a lavorare in fabbrica o a fare le pulizie in un hotel, o dietro il bancone di un mercato. Un giorno alla processione di Sidi Ali in un santuario rurale vicino Meknés, un altro in un bar della zona più gentrificata di Bruxelles. Come dice Reda Stitou, stanno sia lì che qui. Si fanno beffe della “doppia assenza”, dell’idea del migrante come uno che non ha più né la sua cultura né quella “d’accoglienza”, così come si fanno beffe di tutti i nostri pregiudizi sulla stanzialità e sulla migrazione, del senso di superiorità culturale dell’Europa, delle gerarchie e delle frontiere. La gnawa contiene un segreto che si legge solo nella sua pratica, e che l’Unesco non ha certo colto; che prima che inventassero le frontiere e gli stati, il mondo era una rete globale di viaggi, contatti e scambi tra nodi, e che questa sarà la forma che riprenderà quando riusciremo finalmente a liberarci di nuovo delle frontiere e degli stati. La gnawa finge di evocare un mondo del passato; in realtà sta prefigurando quello del futuro. (stefano portelli)
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