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20 Luglio 2018

Partenio, ore 14,45. Gli anni Ottanta e le macerie dell’Irpinia

Giovanni Iozzoli
(disegno di simone perazzone)
(disegno di simone perazzone)

da: Carmilla

Deve essere il 1982. E la luce indecifrabile è quella di una domenica pomeriggio di marzo. E siamo tutti seduti sui gradoni di cemento – ottomila cristiani e qualche cane – ad aspettare che abbia inizio l’evento culminante e conclusivo della settimana: Avellino-Ascoli (o Avellino Cagliari, boh! – comunque una partita di seconda o terza fascia, una di quelle che al Novantesimo minuto avrà l’onore del primo collegamento, il meno atteso, a inizio programma).

A proposito di Novantesimo: se avessi un binocolo, lì in curva, potrei vedere in sala stampa il faccione da tricheco premuroso di Luigi Necco, che è tornato da poco in giro dopo le pistolettate alle cosce. E se avessi un dispositivo ottico ancora più potente, salendo sull’ultimo gradone della curva – quello dove le sagome si stagliano nel lucore bluastro del cielo come se fossero ritagliate e appiccicate –, potrei contemplare le baraccopoli che sorgono ai quattro angoli della città: i campi prefabbricati, i container di lamiera, le roulotte e le coorti di botteghe-baracche che hanno sostituito i negozi nella zona commerciale. E se potessi salire su una mongolfiera e gettare lo sguardo ancora più lontano, potrei cogliere lo strazio polveroso e irredimibile dei borghi cancellati, dei paesi squartati, dei quartieri cancellati, dei montarozzi di macerie ovunque, che custodiscono i loro tristi segreti. L’Irpinia è un cimitero, un enorme bacino di raccolta corpi: quelli dei cadaveri propriamente tali, da poco sepolti senza pace, sotto stele e cippi improvvisati; e quelli dei sopravvissuti, che vagano come anime perse in mezzo a quello sventramento quotidiano, in attesa di indovinare un qualche futuro plausibile per le loro vite.

Lo stadio Partenio svolge la funzione di santuario per migliaia di devoti dimessi, che ogni quindici giorni si recano in pellegrinaggio in quel tempio laico della bestemmia: vengono dal centro cittadino, dalle periferie malurbanizzate che erano già brutte prima del sisma e immaginatevi dopo; scendono dai paesi più prossimi alla città ma anche da quelli del cratere, carichi di angosce, lutti, disagi da tempo di guerra, allo scopo di celebrare un rituale che li illuda per tre ore – solo tre orette – che tutto presto riprenderà, le case risorgeranno, gli storpi cammineranno e i morti torneranno a nuova vita. Ma non è solo l’Irpinia squassata, è tutta l’Italia che è un paese duro, difficile da cavalcare. A Palermo e a Napoli le guerre di mafia stanno lasciando sul selciato centinaia di morti – il mercato nazionale dell’eroina è l’unico che tira forte e noi impariamo a districarci nel caos della nostra libanizzazione: drusi, maroniti, cutoliani e corleonesi… Gli ultimi fuochi della guerriglia italiana si vanno spegnendo come lampi lontani all’orizzonte, mestamente, colonna dopo colonna.

I politici, poi, non ne parliamo: sono gente pericolosa, senza scrupoli, avvezza alle trame della guerra fredda, all’omicidio, alla strage, al ladrocinio sistemico – però hanno lauree, lignaggi ed eloquio, che gli attuali analfabeti di governo non si sognano neanche. Sta piombando su tutto e tutti quella cappa che poi avrei imparato chiamarsi “riflusso”, con il prefisso post appiccicato a ogni resa.

Anche nelle nostre contrade, un tempo tranquille – quasi bucoliche – si muore con disinvoltura: attentati, overdose, omicidi bianchi in serie, dentro cantieri totalmente fuori controllo. La forza lavoro è tanta, giovane, disponibile, sovrabbondante. Tra poco aprirà il mattatoio dell’Isochimica – esempio quasi didascalico di colonialismo interno contro i ragazzi irpini, mandati al macello a mani nude, a rimuovere l’amianto dai vagoni ferroviari che nel nord Italia il personale FS ha saggiamente rifiutato di trattare. Invaso di manodopera e discarica globale, questo. Siamo nel 1982.

Forse anche per via di questo clima plumbeo e pericoloso, il calcio è diventato una roba maledettamente seria, giù in città. Antonio Sibilia non è ancora stato arrestato, troneggia a bordo campo insultando e minacciando, come suo solito. Tra qualche mese finirà in galera insieme a Enzo Tortora e altre 856 persone di varia umanità (tra cui il mio odiato professore di religione, cappellano delle carceri, più un paio di monache in offerta speciale). Ma noi all’epoca non possiamo prevederlo e non stiamo a preoccuparci: il fatto che abbia portato Juary in udienza in tribunale, a omaggiare Cutolo, è un dettaglio di colore. Chi potrebbe osare la messa in discussione di quel giocattolino artigianale che è l’US Avellino – il miracolo della permanenza in serie A nel posto più scassato e disastrato d’Italia? (giovanni iozzoli – continua a leggere…)

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