Ho fatto questa intervista in un paese di cinquemila abitanti della bassa Irpinia che a partire dalla fine degli anni Cinquanta ha conosciuto una fortissima emigrazione intraeuropea. Ero spinto dalla volontà di mettere insieme i pezzi di una storia ascoltata da ragazzino mille volte, in maniera frammentata, nel cortile di casa. È una storia di lavoro e migrazione di una ventenne che rifiuta un destino di povertà e bassi salari e parte in cerca di migliori condizioni di vita.
Quando mi sono sposata avevo quindici anni e mio marito ventiquattro. Io sono nata il 10 aprile del 1939 e mio marito il 10 novembre del 1931. Le nostre famiglie non avevano nulla. Per le nozze ci regalarono due forchette e due cucchiai. Mio marito faceva il barbiere. A quei tempi, per barba e capelli, un barbiere guadagnava ottanta lire. E poi la gente aveva i pidocchi e quello che si guadagnava non bastava nemmeno per lavare gli asciugamani. È stata nera, nera come il velluto!
Io sono cresciuta in una famiglia di quattro figli, due maschi e due femmine. Poi c’erano i miei genitori. C’era tanta povertà e dormivamo tutti in un unico letto, chi alla testa e chi ai piedi. Siamo cresciuti così. Dovevamo pagare anche l’affitto e i soldi non bastavano mai. Io ero una bambina e andavo a lavorare come bracciante a Cimitile. Andavo a piedi. Partivo alle due di notte da casa mia per arrivare alle quattro lì. Quando arrivavi nella piazza del paese, dovevi sperare di trovare la giornata di lavoro. Se eri una gran lavoratrice, il padrone ti sceglieva e ti chiamava, ma se eri una “sfrantummata” restavi a spasso. Loro cercavano soli faticatori perché così potevano succhiargli il sangue dal collo! Nelle campagne si raccoglievano patate, granturco, pomodori, finocchi, si mieteva il grano… quello che c’era da fare si faceva.
Dopo il matrimonio arrivarono i miei primi due figli e le cose si complicarono perché dovevo dare da mangiare ai bambini e in più dovevo pagare l’affitto di casa e quello del salone dove mio marito faceva il barbiere.
Mi resi conto subito che non ce la potevamo fare. Allora dissi a mio marito: «Noi ora ce ne andiamo in Germania come fanno tutti». Era il 1959. E così partimmo. A quei tempi per partire era necessario depositare un po’ di soldi alle Poste. Mia suocera si fece prestare ottantamila lire da un amico e io li depositai. Con quei soldi ci rilasciarono la tessera e il passaporto per entrare in Germania. Se non avevi qualcosa depositato non potevi andare.
Il primo a partire fu mio marito ma tornò dopo solo quindici giorni perché non ce la faceva a stare da solo. Io lo convinsi a ripartire ma tornò di nuovo dopo ventidue giorni. A quel punto decisi di partire anch’ io con lui senza più discutere.
Mio marito, prima di ripartire, tramite amici suoi cercò di trovare una casa dove poter stare almeno all’inizio. Arrivati in Germania, la casa che gli amici avevano detto di aver trovato in realtà non c’era. Gli amici lo avevano tradito. La casa l’aveva presa un’altra coppia e noi restammo senza.
Dove lavorava mio marito erano tutti uomini, di donne non ce n’era nemmeno una. I suoi colleghi ebbero la bontà di farmi dormire lì con loro, nel letto con mio marito, per sette-otto giorni. Dopo un po’ venne il loro capo e mi disse che non potevo più stare lì con tutti quegli uomini perché se fosse venuto un controllo lui avrebbe rischiato la chiusura. Era una fabbrica di vernici e ci lavoravano e dormivano solo uomini.
A quel punto mio marito disse: «Allora devo portarti in Italia». «In Italia?», risposi io. «E che vado in Italia a morire di fame? Noi abbiamo due bambini, guaglio’! Cerchiamo di trovare una casa e basta!». Insomma, il lavoro c’era ma la casa no. Di sera mio marito ricominciò: «Domani mattina ti accompagno alla stazione di Stoccarda e io me ne torno nel dormitorio a Bernhausen», che era la città dove stavamo; Bernhausen strassen neunundzwanzig, cioè strada ventinove. Allora gli risposi: «Io non torno. Piuttosto mi butto sotto un treno ma in Italia non torno». Qui in paese si moriva di fame e io lo sapevo.
Di sera mi addormentai piangendo, poi, durante la notte, feci uno strano sogno. Sognai una vecchietta. Questa anziana mi bussava sulla spalla dicendomi di alzarmi presto perché quella mattina avremmo trovato la casa e anche un lavoro per me. Me lo ripeté tre volte: «Alzati che stamattina trovate la casa e il lavoro per te, alzati che…». Tre volte. Quando lo raccontai a mio marito, lui disse: «La vecchietta che ti è venuta in sogno è mia nonna, mi voleva tanto bene e ora vuole aiutarci». Dopo nemmeno dieci minuti ci alzammo e ci mettemmo in cammino per il paese fino a raggiungere la stazione. Da lontano vidi un uomo fermo sul binario. Dissi a mio marito che quell’uomo somigliava tanto a uno del nostro paese. Dopo un po’ ci avvicinammo e quando lui ci sentì parlare in dialetto si voltò e disse: «Pasquali’, e voi che andate facendo a quest’ora?». Era un nostro compaesano. Mio marito gli spiegò subito la situazione e lui disse: «Ma fate sul serio? Non ti preoccupare Anto’. Non appena fa sera ti accompagno qui, a centro metri dalla stazione, dove una signora cerca disperatamente una femmina per la casa e vi dà pure una stanza. Così tu di mattina vai a lavoro in fabbrica e di sera vai a dormire nella stanza con tua moglie. La signora ti darà la casa e il lavoro per tua moglie». Proprio come in sogno, pensai io.
Non appena si fecero le sette andammo dalla signora. Io ero arrivata da poco e non sapevo nemmeno una parola in tedesco, sembravo una mezza scema. Il compaesano bussò alla porta e mi presentò la signora. Lei e il marito cercavano una donna che facesse i doveri di casa perché avevano un ristorante e una macelleria ed erano sempre impegnati. A casa di questa donna avevano lavorato greche, polacche, siciliane. Quando la signora mi vide lavorare disse: «Tu per me puoi cominciare anche ora». Mi ricordo che si avvicinò e mi prese per mano. Stava sistemando le tende vicino ai balconi. Io le tende non le avevo mai viste perché qui in paese, nel ’59, non ce l’aveva nessuno.
La signora era contentissima di me. Il marito, però, voleva pagare poco e per un mese di lavoro mi diede solo cento marchi. Io pur di non tornare in Italia accettai di rimanere da loro per cento marchi al mese. La signora, all’insaputa del marito, mi dava altri cinquanta marchi al mese. Mi diceva di non dire nulla. Il mese successivo mi diede cento marchi il marito e cento marchi lei. La signora era troppo contenta perché io le facevo di tutto: tagliavo pomodori, patate, pane, facevo i letti, lavavo a terra, preparavo i figli, davo una mano nel ristorante. Lo facevo sempre perché non volevo ritornare in Italia a fare la fame. Lì io vedevo un altro mondo e ci volevo rimanere.
Un giorno, poi, incontrai una ragazza della provincia di Avellino. Mi chiese dove lavoravo e quanto guadagnavo. Io le parlai della casa e del ristorante dicendole che a fine mese riuscivo a guadagnare duecento marchi. Lei mi guardò e disse: «U’ mamma mia, io questi soldi li guadagno in una settimana». Tra me e me pensai: «Ma io lavoro proprio per senza niente?».
A quel punto decisi che l’unica cosa da fare era cercare un’altra casa. Fortunatamente la signora dove abitavo doveva ristrutturare la casa e ci propose di trasferirci da una sua zia. Accettammo subito la proposta. La nuova signora ci mise due giorni per affezionarsi a me. La casa aveva una scala di legno di sessantaquattro gradini. Mi ricordo che quando di sera tornavo a casa, senza dire nulla alla signora, la spazzavo, la lavavo, mettevo la cera e poi la lucidavo con la lucidatrice. Di mattina, quando la signora si alzava dal letto, trovava la scala che luccicava. Un giorno dissi a me stessa: «U mamma mia! Un giorno devo costruire pure io un palazzo con una scala di sessantaquattro gradini!». L’angelo passò e disse amen. E così è stato: la mia casa ha una scala di sessantaquattro gradini.
Dopo un po’ di tempo il padrone dove lavoravo prima mi chiamò dicendomi che avevano finito di ristrutturare la casa e che potevo tornare. Io dissi che non era possibile perché presto sarei ritornata in Italia. Non era niente vero, dissi così perché la ragazza di Avellino che avevo conosciuto mi aveva promesso che mi avrebbe fatto assumere dove lavorava lei. Il padrone subito capì che si trattava di una bugia e indovina cosa fece? Chiamò la zia ordinandole di buttarci subito per strada perché non volevo più tornare da loro. La zia però mi conosceva, sapeva che ero una brava ragazza, una lavoratrice, e disse al nipote: «No, mi dispiace. Pasqualina è una brava ragazza e io non ho il coraggio di buttare per strada lei e il marito. Se non vuole tornare, non torna». A spiegarmi come andarono i fatti fu un amico della signora che parlava bene l’italiano.
Il mattino seguente chiamai la ragazza di Avellino. Anche lei viveva a Bernhausen ma lavorava a Leinfelden, in una piccola lavanderia industriale. Mi diede appuntamento a Leinfelden per il giorno dopo. Appena arrivai mi fecero fare tre giorni di lavoro pagati come delle normali giornate lavorative. Il quarto giorno il direttore si avvicinò e mi disse: «Tu vuoi lavorare a cottimo?». «A cottimo?» risposi io. «E che significa a cottimo?». Vedendo che non capivo, subito chiamò l’interprete. Appena arrivò gli chiesi: «Ma il direttore vuole mandarmi via?». «No – rispose l’interprete –, il direttore vuole sapere se volete lavorare a cottimo. Significa che voi più lavorate e più guadagnate». «Come no!» risposi. «È proprio per questo che io sto in Germania». L’interprete sorrise e disse: «Il direttore vi ha visto lavorare, ha visto che siete molto veloce e ha pensato che voi siete la persona ideale per lavorare a cottimo. A voi la giornata lavorativa normale non conviene. Qui c’è una ragazza di Udine che vi affiancherà per tre giorni. Dopo questo periodo di prova, se la ragazza dice che non lavorate bene, dovete tornare a lavorare a giornata». «Non vi preoccupate», risposi io.
In fabbrica i cottimisti lavoravano in una stanza a parte, separata dalla grande sala dove lavoravano tutti gli altri. Al banco il lavoro e la paga si divideva in due. Se riuscivamo a fare ottocento camice al giorno erano ottanta marchi a coppia. Maria, la ragazza di Udine, rimase colpita quando mi vide lavorare, era impressionata dalla mia velocità. Lavorava da sola da più di un mese perché non riuscivano a trovare una cottimista che le stava dietro. Molti non ce la facevano a sostenere quei ritmi. Il terzo giorno facemmo un cottimo di ottocento venti camice. Le camicie arrivavano al banco e noi dovevamo lavarle, stirarle e confezionarle. Il quarto giorno Maria chiamò il direttore dicendogli che non aveva mai avuto una collega così in tutta la sua vita. E così rimasi a lavorare in questa lavanderia industriale.
I soldi fioccavano dal cielo. Quello che prima guadagnavo in un mese, nella lavanderia lo guadagnavo in una sola settimana. Anzi, guadagnavo anche di più. Mi portavo a casa un sacco di soldi, più di duecentocinquanta marchi a settimana. Pagavo l’affitto della casa in paese, dove avevo lasciato i miei figli con mia suocera, l’affitto in Germania e poi conservavo una parte consistente dei soldi in banca. Ogni mese facevo un deposito. Ci riuscivo perché nel frattempo avevo trovato un altro lavoro. Ogni giorno, alle cinque di pomeriggio, dopo aver finito di lavorare in lavanderia, andavo a lavorare in una fabbrica di crauti fino a mezzanotte. Solo così riuscivo a guadagnare un bel po’ di soldi. Mi ricordo quei cavoli che arrivavano pieni di neve. Dovevamo lavarli in una vasca gigante e metterli sul nastro trasportatore. Poi finivano in un contenitore dove una lama li tagliava a mille pezzi. Me la so’ vista nera, nera come il velluto! Dopo un po’ di tempo arrivarono in Germania anche mio suocero e mio cognato. Io dovevo lavorare e badare a tre uomini. Lavoravo notte e giorno.
In quell’anno arrivò anche il mio terzo bambino. Gli altri due li avevo lasciati in Italia con mia suocera perché io il primo figlio l’ho avuto a diciassette anni e il secondo a diciannove. Il secondo è nato nel ’59 e io proprio in quell’anno sono partita. Non aveva nemmeno un anno quando l’ho lasciato. Dovevo mandargli i soldi perché mia suocera non aveva niente per crescerli.
Quando arrivò il mio terzo bambino venni a partorire in Italia. Ci restai quattro mesi e poi ritornai in Germania. Col tempo arrivò un altro figlio, nel 1965. All’ottavo mese entrai in maternità e tornai di nuovo in Italia per partorire. Dopo la maternità preparai un’altra volta le valige per la Germania. Ci sono rimasta fino al 1975. Nel ’69 sono partita e nel ’75 sono tornata.
Appena tornati comprammo una piccola casa. Poi, un giorno, mentre stavamo pranzando, venne a casa un amico di mio marito dicendo che in paese era in vendita un negozio di frutta e verdura situato in un punto strategico. Noi eravamo appena tornati e i soldi li avevamo. Lo comprammo subito e così iniziammo a fare i fruttivendoli: mio marito nel negozio e io come ambulante. Sono stati anni in cui ho sofferto molto, ma abbiamo raccolto molti frutti. La mia vita è stata amara e dolce, ma soprattutto senza vizi. È stata una vita di solo lavoro! Sono stata fortunata, ma anche sfortunata perché ho perso un figlio giovane che ha lasciato una moglie e due bambini.
Tutte le mattine mi alzavo alle tre e mezza. Di sera mi appuntavo su un foglio tutto quello che dovevo comprare al mercato. Facevo i calcoli con la calcolatrice e cercavo di non farmi imbrogliare. Di mattina mi alzavo, facevo il caffè e poi si partiva per il mercato. Mio marito aspettava e io contrattavo con i coltivatori. Alle sette si tornava in paese per sistemare il negozio e poi partivo di nuovo per andare a vendere la roba in giro. Di sera ero praticamente distrutta perché avevo da lavorare anche in casa: pulire, preparare, stirare, ecc.
La decisione di fare l’ambulante nacque su suggerimento di mio suocero. Un giorno si presentò a casa e disse:«Pasqualì, sei vuoi fare ancora più fortuna, tu che a differenza di mio figlio sei una ragazza in gamba, devi andare in giro ca’ raparella (Ape car) a vendere la frutta e la verdura. Se fate così, vi fate i soldi a palate!». Io non sapevo nemmeno guidare. Un giorno mi feci forza e caricai il triciclo. La prima tappa la feci in un paese a pochi chilometri da qui. La gente guardava e diceva: «U’ mamma mia, una donna che va vendendo la frutta e la verdura? Noi abbiamo sempre visto gli uomini. Adesso pure le femmine possono fare ste cose?». Pian piano le persone cominciarono ad avvicinarsi e a comprare. Io ero sempre gentile e disponibile. Tutti mi volevano bene, soprattutto le femmine. Con me avevano un altro rapporto perché io ero femmina come loro. Con gli ambulanti uomini spesso si vergognavano, invece con me no. Poi pure i mariti dicevano alle mogli: «Voi dovete spendere sempre da Pasqualina perché quella è femmina come voi». I mariti erano gelosi… Io vendevo di tutto. Pensa che riuscivo a vendere anche due carichi al giorno. Si può dire che ho fatto più fortuna in Italia che in Germania. In Germania mi sono avviata, ma è qui che aggio fatto ‘o boom!
Ho girato per trentotto anni per i paesi. A volte consegnavo le cose a casa della gente e mi prendevo io stessa i soldi dal borsellino. Una volta una signora lasciò sul triciclo un borsellino con sei milioni di lire all’interno. Glielo portai dopo dieci secondi perché ho sempre pensato che se rubi oggi domani non sei più nessuno.
Dopo un po’ di tempo venne a casa un amico di mio marito e disse che in zona un sacco di persone stavano guadagnando bei soldi vendendo lo spirito di contrabbando. Io, in realtà, stando quasi sempre in giro, me ne ero accorta da tempo ma avevo un po’ paura di buttarmi in questa cosa. Dopo alcune settimane passate a pensarci dissi a me stessa: «Ma che sarà mai? Ora ne compro un po’ e vedo come va. Se va male smetto e non se ne parla più». Il mio problema, però, è che io ero conosciuta in giro come venditrice di frutta e verdura e quindi non potevo smettere improvvisamente per dedicarmi al contrabbando. Di notte mi venne un’idea: potevo creare una base sul fondo del cassone del triciclo con tutte bottiglie di spirito e metterci sopra le cassette con la frutta e la verdura. Chi poteva immaginare che sul fondo del cassone c’era l’alcool puro? Così, una mattina di giugno, caricai il triciclo e partii. Appena arrivata a destinazione dissi a una mia cara amica di far sapere in giro che avevo un po’ di spirito da vendere e che il prezzo era molto buono. Era fine giugno e quasi tutti stavano preparando il nocino. Le noci si raccolgono il 24 giugno, a San Giovanni, e poi si lasciano macerare nell’alcool puro. Dopo nemmeno due ore avevo già finito il carico. Da quella partita riuscii a guadagnare duecentomila lire. Fu così che iniziò la cosa ed è continuata fino a quando ho smesso di fare l’ambulante. Una volta o due volte a settimana mi caricavo il triciclo di bottiglie di spirito, sempre nascosto sotto la frutta e la verdura, e partivo. L’unico problema erano le guardie. Questo non perché mi multavano, ma perché ogni volta che mi fermavano ero costretta a fargli il regalino, e quelli erano soldi che io perdevo. Si avvicinavano e ripetevano la parola magica: «Signo’ che purtate ‘e bello?» Io mi avvicinavo e dicevo: «Questo è un pensierino da parte mia per quella gran signora di vostra moglie». Loro mi ringraziavano e ripartivano. Era un gioco che stava bene sia a me che a loro, anche se io cercavo sempre di evitarli.
Insomma, con la mia raparella, ho fatto un bel po’ di fortuna. Pero c’è da dire che ho attraversato acqua, neve, freddo e gelo. Questo per portare i soldi a casa e crescere i miei figli. Pure le cassette vuote della frutta mi vendevo: trecento lire a cassetta. E se qualche volta mi restava un po’ di frutta la regalavo ai ragazzi. Non si mangia mai da soli, anche gli altri devono mangiare!
Insomma, figlio mio, è così che sono riuscita a costruire un palazzo con cinque appartamenti. Solo con il lavoro, rinunciando praticamente a tutto. Io non ho mai avuto vizi; non ho mai comprato vestiti buoni, collane e cose del genere. Ho comprato anche una casa al mare e un’officina ai miei figli per farli lavorare. Sono soddisfatta se penso che sono partita solo con due forchette e due cucchiai. (giuseppe d’onofrio)
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