Un recente rapporto sulla “jungla” di Calais – la tendopoli dove da anni sono assiepati migliaia di migranti che provano a raggiungere la Gran Bretagna – evocava un sentimento di grande inquietudine di fronte alla deriva di autogestione della bidonville. Per chi si è recato nella jungla con occhi umani, è il sentimento opposto che si impone. Nella desolazione imperante, sono proprio le iniziative che sfuggono all’inquadramento istituzionale che mantengono nei migranti un filo di speranza.
Articolo pubblicato nel numero 141 (marzo 2016) di Cqfd
Sulla “jungla” sotto sgombero scende una pioggerella fine. Lungo i sentieri che la attraversano, dei messaggi dappertutto. Redatti in francese, arabo o inglese, scarabocchiati o minuziosamente vergati, alcuni gridano l’insofferenza (“Bruciate tutto”), altri supplicano (“Per favore, lasciateci andare in Inghilterra”). Ma per la maggior parte sono parole semplici, dove prevale l’essenza ancestrale della coabitazione. “Dobbiamo imparare a vivere come fratelli, sennò moriremo tutti come degli idioti”, dice un pannello sistemato davanti alla dimora di Alpha, simpaticamente ribattezzata “la casa blu sulla collina”. Alpha è un artista mauritano che ha avviato una scuola d’arte nella jungla. Proprio affianco questo proclama: “Malgrado tutte le difficoltà, continuiamo a sorridere”.
Questi messaggi disseminati nella jungla non vogliono abbellire i luoghi o minimizzare le sofferenze, ma ricordano semplicemente l’aspetto fondamentale attaccato da tutti quelli che la vogliono smantellare: al cuore di questa zona di relegazione esiste ancora la volontà di sfuggire alla disumanizzazione. Nonostante la miseria, sono tanti i migranti che non si rassegnano. Aspettando che un giorno magari si apra la frontiera, costruiscono degli embrioni di vita comunitaria. In questo luogo, distante sette chilometri dal centro di Calais, nato ormai dieci mesi fa, alcuni hanno costruito dei negozi di alimentari, dei bar, delle scuole o dei saloni di barbiere. Altri si sono rifugiati nella fede e hanno costruito dei luoghi di culto – cattolici, musulmani, ortodossi. Altri ancora hanno montato degli spazi dedicati alla pratica artistica – teatro o pittura. Quanto a Cherry, Awesome e Holy, tre amici pakistani, hanno optato per un ristorante: “I tre idioti”. Rispetto al contesto: un quattro stelle.
Una tigre sui Campi
Anche se installato ai margini degli Champs-Élysées, la strada principale che attraversa la parte nord della jungla, I tre idioti non ha un aspetto troppo invitante visto dall’esterno. Delle grandi pozzanghere fangose si allargano ai piedi dei teloni di plastica blu e neri che ricoprono la struttura in legno. Unico tocco vivace, il nome del luogo, taggato con la bomboletta spray. Per il resto, potrebbe essere un ospedale militare di fortuna – tipo ritirata di Russia. Ma oltrepassata la porta di legno, l’ambiente cambia all’improvviso. I gestori non dicono per quale ragione hanno lasciato il Pakistan e si sono avventurati in quello che descrivono come un «lunghissimo viaggio molto complicato», ma su una cosa sono categorici: di tornare indietro non se ne parla. Tutti e tre si danno da fare per accogliere i nuovi venuti, ognuno alla sua maniera. Cherry, eccellente ballerino, fisico asciutto e muscoloso, con una certa propensione per la birra. Awesome, dongiovanni impenitente, samurai della lingua, che a Islamabad faceva l’interprete per i turisti. Infine Holy, il più bel sorriso della bidonville, tra Alain Delon e Tom Cruise. Che tipi, questi tre. Sguardi allegri, non risparmiano le battute. Il nome del posto, tra l’altro, è ispirato a una commedia made in Bollywood. I protagonisti de I tre idioti, spiegano, sono tre maldestri studenti che ne combinano una dopo l’altra, ma alla fine trionfano sulle avversità. E aggiungono: «Qui la situazione è talmente dura che se non si sorride si perde ogni speranza».
Appena arrivati a Calais, quattro mesi fa, i tre amici hanno cominciato a costruire questo posto. Si vantano di aver impiegato solo due giorni per alzare i muri e mettere le basi per uno spazio rettangolare composto di legno e teloni. Poi hanno arredato gli interni come potevano, facendo correre lungo le pareti una grande striscia di moquette. Dal soffitto pendono palloncini di tutti i colori, che conferiscono al luogo uno strano clima da povera festa di paese. C’è poi una grande tigre di peluche dotata di un cappello da cowboy rosso e installata in una nicchia di legno, una specie di mascotte ufficiale. Interrogato sulla sua provenienza, Awesome risponde con una battuta che immaginiamo rituale: «L’abbiamo trovata nella jungla».
Arrivati sul retro, c’è un attimo di sorpresa. Il posto è caloroso e piacevole. «Bisogna conservare un posto caldo con tutto il freddo che c’è qui attorno», spiega Awesome. Lui e i suoi due compagni hanno fatto di tutto per riscaldare l’ambiente. Missione compiuta: viene voglia di fermarsi, discutere, osservare. In fondo, è uno spazio di decompressione. Davanti a una tazza di tè, un piatto o un narghilè, sotto le luci colorate, si dimentica quasi di essere nella jungla e che appena fuori di qui si cammina con la testa bassa nel fango, stringendosi nelle giacche impermeabili. Qui si viene a ricaricare il telefono, a fumare la chicha, a discutere finalmente rilassati. Alcune prelibatezze sono mimetizzate tra i diversi piatti proposti, che vanno dal delizioso pollo tandoori a delle orribili patatine fritte. Come sottofondo sonoro, proiettato su schermo piatto, i canali pakistani captati chissà come, con i loro affascinanti video kitsch: cantanti sempre molto controllati e ballerini che ogni tanto compiono suggestive capriole nei campi fioriti. Più tardi, passata l’ora del pranzo, una decina di ragazzi imbacuccati e con indosso dei cappellini col pon pon si piazzano davanti allo schermo, imperturbabili. È l’ora del film.
Costruire per respirare
Cherry, Awesome e Holy non sono necessariamente rappresentativi della situazione dei migranti a Calais. In questo universo chiuso, loro non se la passano male, senza dubbio perché avevano un piccolo capitale da parte quando sono arrivati. Sono dei micro micro-imprenditori, dei buoni commercianti appena un po’ traffichini, danno l’impressione di aver addomesticato il malessere. E quindi temono la cancellazione annunciata della jungla: «Questo business ci permette di tenere la testa fuori dall’acqua, e non solo finanziariamente. Abbiamo bisogno di essere occupati».
Un discorso ricorrente nella jungla. Sono proprio queste piccole zone di autonomia improvvisata che aiutano a sopravvivere in una situazione difficile. Quello che si costruisce con le proprie mani vale cento volte quello che è concesso dall’alto. Gli esempi abbondano. Mohammed il sudanese, che ti accoglie nella sua tenda scalcagnata e più linda di un castello, spiega che non ama i pasti distribuiti dalle associazioni perché «preferisco se li prepariamo tutti insieme con gli amici». Più in là, un etiope di una trentina d’anni mostra fieramente la magnifica chiesa ortodossa in legno di recupero che racconta di aver aiutato a costruire. Nei pressi del centro Jules-Ferry, dietro una instabile capanna, tre amici si occupano di una impressionante quantità di biciclette scassate, meccanici improvvisati. E così di seguito, tra artigianato e fai da te.
Sono piccole cose, senza dubbio, ma sono comunque degli antidoti all’avvenire preconfezionato che lo stato e i suoi supplenti vorrebbero imporre ai migranti. In questo modo si materializza il rifiuto dell’infantilizzazione e della carità forzata. Se alcuni migranti sono usciti a pezzi dall’esperienza del viaggio e dall’impasse del presente – come Deerok che dichiara, con gli occhi tristi: «Il mio spirito è stato distrutto da cinque anni di viaggio» –, altri trovano la forza di aggrapparsi al futuro. Si danno da fare, per loro e talvolta anche per gli altri. Mentre la giornata passa ritmata dal vento, dalla sabbia negli occhi, da lacrime e pensieri neri, le piccole e grandi creazioni della jungla offrono altro, una forma di respirazione collettiva: qui un barbiere, là un luogo per ricaricare il telefono con una dinamo improvvisata, sotto la tenda un corso di yoga, in una capanna un punto d’informazioni con una libreria. Tanti piccoli spazi allestiti dai migranti e da quelli che li aiutano e che impediscono al vuoto che li circonda di prevalere. Questione di sopravvivenza… “Dobbiamo imparare a vivere come fratelli, sennò moriremo tutti come degli idioti”. (emilien bernard, margot chou / traduzione di -lr)
Leave a Reply