Ho pronunciato questo intervento nella Sala dei Baroni del Maschio Angioino in qualità di presidente di Antigone Campania il 26 maggio scorso, in occasione della presentazione del rapporto annuale del Garante dei detenuti del comune di Napoli. Il “tavolo tecnico”, incentrato sul tema “carcere e diritti”, ha coinvolto numerosi soggetti istituzionali. Mi sono sforzato di riportare le contraddizioni dell’attuale sistema carcerario su un piano di realtà. (luigi romano)
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È difficile tracciare un bilancio complessivo della situazione carceraria attuale. Di certo, sarebbe colpevolmente ingenuo pensare che le scosse telluriche generate in questi mesi non siano state capaci di determinare trasformazioni permanenti.
Il dato che ogni operatore del diritto deve tenere presente quando affronta la questione penitenziaria riguarda i numeri. Oggi il tasso di sovraffollamento cresce nuovamente, attestandosi su una percentuale del 115% in Campania. E quando il numero dei ristretti aumenta, in modo direttamente proporzionale diminuisce la tutela delle posizioni soggettive.
IL REINSERIMENTO
La sospensione delle attività è stata una forzatura necessaria per diminuire il rischio di contagio, limitando gli ingressi esterni. Una scelta che ha avuto un peso notevole sul peggioramento della vita in sezione.
L’affidamento all’esterno delle cosiddette attività trattamentali, avviato agli inizi degli anni Novanta nei settori di maggiore rilievo della vita sociale (penso alla formazione primaria e secondaria, ai comparti sanitari rispetto alla gestione delle tossicodipendenze e della salute mentale, all’accoglienza dei fenomeni migratori), si è mostrato inadeguato ad assolvere gli obiettivi costituzionali della pena. Inoltre, la figura dell’operatore giuridico-pedagogico è nei fatti depontenziata dal ruolo che il legislatore gli ha affidato con la riforma del ’75. Pochi in numero, sommersi di carte, schiacciati dall’unica visuale che si è affermata con prepotenza negli ultimi anni, quella securitaria. Né è testimonianza la rivendicazione sindacale di uniformarsi al personale in divisa, istanza che richiama l’esigenza di avere maggiori poteri e garanzie su un terreno di lavoro diventato estremamente conflittuale. Tutto quello che rimane, che è una fetta importante della vita del penitenziario, è demandato a volontari di buona indole, coraggiosi e caparbi, e al terzo settore (che spesso si fonda su rapporti di lavoro precario, frutto dello smantellamento dei principi giuslavoristi a partire dalla riforma Biagi).
È scontato oggi ricordare come ogni relazione umana genera anche un rapporto di potere e in questo le cosiddette “relazioni di aiuto” hanno in sé un rapporto gerarchico predeterminato: l’aiutante è in piedi e l’aiutato in ginocchio. Come vengono assorbiti questi tentativi parcellizzati di intervento? A causa dell’enorme massa in detenzione, che vive di vuoto – ricorda Mauro Palma –, si stabilizzano come meccanismo di disciplinamento, pertanto il fine del reinserimento diventa strumentale alla sicurezza interna: i diritti diventano elargizioni.
Il lavoro (sempre improduttivo) alle dipendenze dell’Amministrazione è per pochissimi, così come lo è quello gestito da cooperative, e le migliaia di persone ristrette che hanno la necessità di distanziarsi dai meccanismi di riproduzione illegale (più di settemila in regione) rimangono sospese. I criteri di selezione si fondano quasi sempre su una valutazione di compatibilità con il regime carcerario, ovvero basati sul principio della premialità. Questo non significa che non dobbiamo impegnarci in questo senso. Come Antigone Campania abbiamo lavorato con l’Uiepe (Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna) e il comune di Napoli per siglare un protocollo per lavori di pubblica utilità. Ma quando ragioniamo in termini sistemici non possiamo non chiederci che tipo di direzione abbiano questi interventi. Su piccola scala raccogliamo effetti positivi, l’esperienza del bar Lazzarelle all’interno della Galleria Principe di Napoli è una fortissima testimonianza. Le problematiche si riscontrano quando allarghiamo la nostra visuale.
LA SALUTE MENTALE
Tocco velocemente la questione della salute mentale che apre un altro mondo: il consumo dei farmaci negli istituti campani (quest’anno completeremo le osservazioni in tutte le carceri della regione) è altissimo – quasi il 75% – e spesso avviene senza una diagnosi: anche in questo ambito il fine della cura si riconverte nella gestione delle situazioni che possiamo definire a-tecnicamente “allucinanti”. Il numero di chi è e chi dovrebbe essere in osservazione psichiatrica è cresciuto e spesso ha come interlocutore solo il personale (impreparato) della polizia penitenziaria – l’unico a essere presente h24 in sezione. Il disagio purtroppo lo raccogliamo anche tramite il numero dei suicidi. Il “vizio assurdo”, definito da Pavese nei suoi versi, sembra trovare nel carcere una causa scatenante privilegiata. Oggi si contano 11 suicidi ogni 10 mila ristretti (61 in totale nel 2020 e 21 finora), e la nostra regione è tra le prime in Italia. L’istituto dove sono avvenuti più casi di suicidio è la Casa Circondariale di Como con tre decessi tra giugno e settembre, seguono con due casi ognuno gli istituti di Benevento, Brescia, Napoli Poggioreale, Palermo Pagliarelli, Roma Rebibbia, Roma Regina Coeli e Santa Maria Capua a Vetere. Indice nettamente superiore rispetto al mondo libero dove il tasso dei suicidi è di 10 unità inferiore (nel 2017 quello della popolazione libera era dello 0.74%, invece in carcere dell’8,4%). È doveroso chiedersi se il carcere di oggi è capace di intercettare le situazioni di estrema vulnerabilità, perché i dati che abbiamo a disposizione indicano un’incapacità di lettura.
REVISIONE DEI REGIMI
Andiamo al dato che ci preoccupa maggiormente e che ci consente una riflessione che si riallaccia con quanto accade con il mondo esterno perché spesso le trasformazioni che coinvolgono il penitenziario disegnano delle tendenze che anticipano quelle del mondo libero. Le misure prese per ridurre i rischi di contagio hanno riguardato la compressione della socialità e la reclusione spesso in sezione. Misure che sembrano trovare una certa stabilità anche in questo periodo di riaperture (tendenza che ho riscontrato in Campania a Santa Maria Capua Vetere, ma anche in regioni come Emilia e Lombardia). Bisogna monitorare questo elemento per ripristinare quanto meno i regimi aperti ed evitare che questa disposizione si normalizzi creando ulteriori circuiti detentivi – che tra l’altro abbiamo visto moltiplicarsi negli ultimi anni.
I COLPI DELLA CEDU
È spiacevole ascoltare alcune dichiarazioni di importanti pubblici ministeri di questo paese rispetto agli interventi sull’ordinamento penitenziario. Mi riferisco alle dichiarazioni rilasciate dal procuratore di Agrigento nell’ultima puntata di Report: «A Bruxelles non arriva la polvere del tritolo»: da ciò deriverebbe un eccessivo rilassamento nelle pronunce sul “carcere duro”. Il dott. Nino Di Matteo sostiene che stiamo realizzando gli obiettivi di Cosa Nostra degli anni Novanta. Invece dovremmo essere grati alla compenetrazione tra il nostro sistema e quello comunitario per aver preso di mira alcuni automatismi riguardo alle ostatività (recepite dalla Corte Costituzionale, mi riferisco all’art. 58 quater, co. 1,2,3,4 OP.), ampliando la griglia di valutazione in ordine ai rimedi e all’accesso ai benefici. È una vittoria di civiltà e non una sconfitta. Le ricadute interne in termini di ampliamento dei diritti sono enormi e non ancora perlustrate.
Da marzo 2020 in poi il volume delle segnalazioni trattate dal nostro ufficio del difensore civico è aumentato in modo considerevole e si è passati dalle 120 segnalazioni a circa 400 segnalazioni relative a singoli e più detenuti circa la descrizione di situazioni riguardanti intere sezioni o l’intero istituto. “Nei nostri modelli di ricorso e reclamo ex art. 35 ter abbiamo pertanto (sulla base del percorso individuato dalla Corte europea per i diritti dell’uomo e dalla Corte Costituzionale) valorizzato oltre alle indicazioni sulla cella, sulla illuminazione e aerazione della stessa, sulle condizioni dei sanitari e fruizione di acqua calda, anche gli orari di fruizione della socialità, dell’aria, dei corsi di istruzione e formazione, dell’accesso a prestazioni sanitarie e al lavoro. Riteniamo che la detenzione sofferta in tempo di pandemia e lo svuotamento della funzione rieducativa della pena abbiano comportato un aggravamento notevole delle sofferenze, per cui il ristoro previsto (di un giorno ogni dieci di detenzione) si palesa come un rimedio minimo in grado di restituire ai detenuti se non la dignità della detenzione almeno una parte di quel tempo a loro sottratto”.
LA CITTADELLA PENITENZIARIA
Un ultimo punto riguarda la costruzione di nuovi istituti. Tutti conosciamo la mega-opera a Nola, uno spettro che si aggira sul tavolo dei provveditorati da anni. Sta tornando d’attualità anche l’idea di un istituto di pena a Bagnoli, brillante epifania del ministro Bonafede. Alla luce di tutte le disfunzioni che stiamo registrando, del fatto che siamo la seconda regione nel paese per numero di detenuti e istituti di pena (17), siamo sicuri che tutto il comparto giudiziario – già in forte affanno – e quello sanitario siano capaci di assorbire un carico maggiore di detenuti? Invece, non dovremmo dismettere i troppi istituti già esistenti? Dobbiamo ripensare completamente l’esecuzione penale, arginare quanto più è possibile l’area penale e approfittare di questo momento per ripianificare il presente con direttrici diverse, perché quelle della normalità pre-pandemica si sono mostrate colpevolmente miopi e vuote di senso. (luigi romano)
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